La valenza probatoria delle presunzioni tributarie nel processo penale
18 Ottobre 2016
Massima
Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il fumus commissi delicti idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l'applicazione di una misura cautelare reale. Il caso
Il tribunale del riesame di Pordenone, adito dall'indagato, aveva annullato il decreto di sequestro, finalizzato alla confisca per equivalente, emesso dal giudice per le indagini preliminari, in relazione ai reati di cui agli artt. 4 e 11 del d.lgs. 74 del 2000 contestati all'indagato per avere omesso di dichiarare elementi reddituali allo stesso pervenuti tramite rimesse bancarie operate su un conto corrente croato. Secondo il tribunale del riesame, la presunzione di attrazione a reddito delle rimesse bancarie, non dichiarate in sede di denunzia dei redditi, poteva avere una qualche valenza probatoria unicamente nel processo tributario ma non anche in quello penale. In assenza di altri elementi probatori che corroborassero l'ipotesi accusatoria, pertanto, la misura ablativa doveva essere revocata. Avverso il provvedimento che annullava il decreto di sequestro, ricorreva per cassazione il procuratore della Repubblica del tribunale Friulano, censurando la motivazione per violazione di legge, secondo l'assunto che ai fini dell'adozione della misura del sequestro finalizzato alla confisca, fosse sufficiente l'esistenza del fumus commissi delicti. Il ricorrente deduceva, altresì, che il tribunale del riesame aveva omesso di considerare i presupposti dell'adozione del sequestro con riferimento alla seconda ipotesi delittuosa contestata all'indagato, quello di cui all'art. 11 d.lgs. 74 del 2000, limitandosi a censurare le argomentazioni adottate relativamente al reato di cui all'art. 4 del citato decreto. A tale proposito, il procuratore della repubblica osservava come fosse emerso che l'indagato, in seguito alla verifica fiscale effettuata dalla guardia di finanza, aveva compiuto atti simulati di cessione dei beni al proprio figlio, finalizzati a sottrarre i beni stessi all'esecuzione fiscale. La suprema Corte di Cassazione riteneva il ricorso fondato e meritevole di accoglimento per le ragioni che di seguito verranno esposte. La questione
La questione certamente più interessante che viene affrontata dalla sentenza in commento, è rappresentata dalla valenza probatoria delle presunzioni tributarie ai fini dell'integrazione del fumus commissi delicti, prodromico all'adozione di un sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente. Il tema involge, in particolare, il valore indiziario riconosciuto alla presunzione di cui all'art. 32 del d.P.R. 600 del 1973, che configura come ricavi o compensi i prelevamenti, ove non ne sia indicato il soggetto beneficiario e gli importi riscossi. Le soluzione giuridiche
I giudici del supremo Consesso, preliminarmente, ribadivano l'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità secondo cui i provvedimenti cautelari reali emessi in sede di riesame sono ricorribili per Cassazione unicamente per violazione di legge e che in tale vizio rientrava anche l'ipotesi in cui la motivazione adottata dal tribunale del Riesame non consentisse di ricostruire l'iter logico seguito dal giudicante per adottare il provvedimento impugnato. In tali casi, la motivazione, non assolvendo al compito di palesare all'interessato le ragioni che avevano determinato il giudice ad assumere una determinata decisione, doveva ritenersi solo apparente e quindi in contrasto con il disposto dell'art. 125, comma 3, c.p.p., il quale prescrive, invece, a pena di nullità, che i provvedimenti giurisdizionali a contenuto decisorio devono essere motivati. Cionondimeno, precisava la Corte di cassazione, doveva ritenersi affetto dal vizio di violazione di legge un provvedimento che fondasse la propria motivazione su un'erronea interpretazione della norma di diritto da applicare al caso concreto. Tanto premesso, i giudici evidenziavano come il provvedimento emesso dal tribunale di Pordenone risultasse erroneamente fondato su due ordini di ragioni, segnatamente, secondo il tribunale, da un lato, il decreto di sequestro del Gip, essendo basato sulle sole presunzioni tributarie, inidonee a costituire fonte di prova della commissione del reato, non sarebbe stato adeguatamente motivato e, dall'altro, la presunzione tributaria secondo cui gli accrediti registrati sul conto corrente della persona giuridica contribuente si considerano ricavi, non era applicabile al soggetto contribuente persona fisica, pertanto il decreto di sequestro sarebbe stato carente di motivazione in ordine alla sussistenza del fumus commissi delicti del reato di dichiarazione infedele. Partendo dal secondo profilo, la Corte di cassazione rilevava come fosse del tutto infondata la distinzione operata dal tribunale del riesame in ordine alla validità delle presunzioni di diritto tributario per le persone giuridiche e non, invece, per le persone fisiche. A tale proposito, il Collegio ricordava come la giurisprudenza tributaria avesse precisato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l'art. 32 del d.P.R. 600 del 1973 prevede una presunzione legale in forza della quale sia i prelievi che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi. Resta salva la possibilità per il contribuente che eserciti attività di impresa, di fornire elementi di prova contraria, anche attraverso presunzioni semplici, che dovranno essere sottoposte al vaglio del giudice. Tale principio, diversamente da quanto sostenuto dal tribunale friulano, doveva ritenersi valido per qualunque contribuente, sia esso persona giuridica o persona fisica. L'ordinanza impugnata risultava, tuttavia, viziata anche sotto l'altro profilo evidenziato, rappresentato dalla sostenuta irrilevanza probatoria delle presunzioni proprie del diritto tributario all'interno del procedimento penale. Ebbene, il consolidato indirizzo ermeneutico offerto dalla Corte di cassazione, invece - ricordavano i giudici - ritiene che le presunzioni legale previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire da sole la prova della commissione dei reati previsti dalla normativa tributaria, presentano un valore indiziario sufficiente ai fini dell'integrazione del fumus commissi delicti, per cui in assenza di elementi di segno contrario, devono ritenersi idonee a giustificare l'applicazione di una misura cautelare reale (cfr., Cass. pen. Sez. III, 2 ottobre 2014, n. 2006). Per le ragioni innanzi esposte, pertanto, il supremo Consesso annullava l'ordinanza impugnata rinviando per un nuovo esame della richiesta presentata dall'indagato, al tribunale di Pordenone. Osservazione
Un esaustivo commento della sentenza in oggetto, non può esimere chi scrive dall'analizzare in breve il sistema delle presunzioni nel diritto tributario. Ebbene, deve anzitutto osservarsi che le presunzioni, com'è noto, secondo il disposto dell'art. 2727 c.c., sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato. Esse si distinguono in semplici – lasciate alla prudenza del giudice – e legali – il cui valore probatorio è riconosciuto dalla legge – a loro volta divise in assolute e relative, a seconda che contro la presunzione legale sia ammessa o meno la prova contraria. Per quanto di nostro interesse, va chiarito che le presunzioni legali – in specie quelle tributarie – sono idonee a determinare la rettifica del reddito imponibile addossando l'onore della prova contraria a carico del contribuente. Si realizza, pertanto, un'inversione dell'onore della prova sul fatto presunto, per cui chi allega quest'ultimo, nel caso in esame, l'amministrazione finanziaria, è sollevato dall'onore della prova che grava invece sulla controporte, il contribuente. Il Supremo consesso, nella pronuncia in commento, ha ribadito l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui le presunzioni tributarie sarebbero inidonee a fondare un giudizio di responsabilità penale ma costituiscono un valido indizio ai fini dell'emissione di un provvedimento applicativo di una misura cautelare reale. La giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione ha, infatti, escluso che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie possano fondare un giudizio di penale responsabilità nei confronti dell'imputato, assumendo esclusivamente il valore di accertamenti di fatto, che dovranno essere liberamente valutati dal giudice penale, unitamente ad altri elementi di riscontro che corroborino la sussistenza della condotta illecita contestata (cfr., Cass. pen., Sez. III, 23 gennaio 2013, n. 7078, conforme Cass. pen., Sez. III, 26 novembre 2008,n. 5490). Contestualmente, è stato però riconosciuto il valore indiziario delle predette presunzioni, che sarebbero, pertanto, idonee a fondare l'applicazione di una misura cautelare reale. A tale riguardo merita ricordare, peraltro, come ai fini dell'adozione del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato, non occorra un compendio indiziario che si configuri come grave ai sensi dell'art. 273 c.p.p., essendo sufficiente che il giudice valuti la sussistenza del fumus delicti in concreto, verificando in modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali desumere l'esistenza del reato astrattamente configurato. Deve evidenziarsi come il fenomeno delle presunzioni legali in campo tributario ha avuto negli ultimi anni un deciso incremento, verosimilmente dovuto alle “esigenze di cassa” dell'Agenzia delle Entrate. È evidente che nell'ambito tributario ciò è comprensibile e appare giustificato dall'esigenza di semplificazione della lotta all'evasione. Il rischio è, tuttavia, che questa prassi applicativa si spinga oltremisura, in possibile violazione dei principi di garanzia dell'imputato nel processo penale. Occorre prestare attenzione, dunque, alle eventuali ricadute processuali di un accertamento meramente indiziario, idoneo all'adozione di un sequestro preventivo, finalizzato alla futura confisca. La problematica di cui si tratta appare ancor più allarmante se si considerano due fattori: in primo luogo, la riconosciuta natura sanzionatoria della confisca di cui all'art. 322-ter c.p. che, pertanto, deve conseguire, come tutte le sanzioni, ad un giudizio di accertamento della responsabilità penale dell'imputato - e, quindi, la rilevante portata del sequestro preventivo ad essa finalizzato. In secondo luogo, la circostanza che, con riferimento al sequestro preventivo per equivalente, non è neppure necessario, per pacifico indirizzo ermeneutico, il requisito del periculum, solitamente richiesto per l'adozione di una misura cautelare reale, atteso che il Legislatore ha ritenuto intrinsecamente pericolose le cose di cui è consentita la confisca, dispensando quindi il giudice dall'onore di effettuare una prognosi di pericolosità connessa alla libera disponibilità della cosa. Ciò premesso, appare di indubbia evidenza che il contenuto fortemente afflittivo della confisca cui tende il sequestro preventivo, il quale determina senza dubbio la compressione di diritti costituzionali nei confronti del soggetto i cui beni vengono sottoposti a misura ablativa, richiede un accertamento più pregnante, che non può essere basato unicamente su presunzioni. Alla luce di tali considerazioni, pertanto, appare imprescindibile, al fine di disporre il sequestro preventivo di beni confiscabili, non solo una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali in base alle quali vengono in concreto ritenuti esistenti il reato configurato e la conseguente possibilità di ricondurre alla figura astratta la fattispecie concreta, ma anche – e soprattutto – la plausibilità di un giudizio prognostico alla luce del quale appaia probabile la condanna dell'imputato per uno dei delitti elencati nel citato articolo, cui consegue in ogni caso la confisca dei beni nella sua disponibilità, allorché sia provata l'esistenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato o i proventi dell'attività economica e il valore economico di detti beni e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di essi. In conclusione, pur non sottovalutando l'allarmante diffusione dell'evasione fiscale, che richiede sicuramente un potenziamento ed un affinamento degli strumenti legislativi di prevenzione, di contrasto e di repressione del fenomeno, nell'applicazione degli istituti di diritto penale e processual-penale, deve auspicarsi che il giudice rimanga ancorato all'esame di fatti, concreti e specifici, riferiti o riferibili alla condotta dell'indagato o dell'imputato, senza farsi condizionare o influenzare da considerazioni di ordine generale e, soprattutto, da presunzioni che contrastino con il principio della responsabilità personale. Alla luce di quanto sinora esposto, sembra doversi concludere, a parere di chi scrive, che la pronuncia in commento non appare immune da censure, laddove ritiene valide le presunzioni tributarie per legittimare il sequestro preventivo per equivalente. Volendo aderire a tale orientamento, occorrerà, quantomeno, che il fatto noto posto a fondamento della presunzione legale sia connotato da requisiti di concretezza, specificità e univocità, non potendosi ammettere – nel sistema processuale penale – quell'inversione dell'onore della prova che trova, invece, ingresso nel processo tributario. BALDUCCI, Il sequestro preventivo nel processo penale, II ed., Milano, 1991; CIRULLI, In tema di presupposti del sequestro preventivo, in Giur. It., 1992, II, 316; VICICONTE, Il sequestro preventivo tra esigenze cautelari e finalità di prevenzione, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 1992, 360; TAFI, Brevi note sui presupposti del sequestro preventivo, in Cass. Pen., 1990, 1243. |