Testimonianza del prossimo congiunto. Il delicato bilanciamento tra genuinità della prova e “segreto famigliare”

19 Aprile 2017

Nel caso portato all'attenzione della S.C. l'imputato, nel medesimo contesto spazio-temporale, aveva minacciato con armi, un coltello e una mannaia, sia il proprio fratello che un terzo estraneo. Chiamato a deporre in ordine alla condotta criminosa del prossimo congiunto ...
Massima

Il prossimo congiunto dell'imputato, il quale sia persona offesa dal reato insieme ad altro soggetto estraneo al rapporto familiare, non ha facoltà di astenersi dal deporre, secondo quanto previsto dall'art. 199, comma 1, c.p.p., stante l'inscindibilità delle sue dichiarazioni, anche relative al soggetto non prossimo congiunto e la necessità di una rappresentazione completa ed esaustiva di quanto a sua conoscenza.

Il caso

Nel caso portato all'attenzione della S.C. l'imputato, nel medesimo contesto spazio-temporale, aveva minacciato con armi, un coltello e una mannaia, sia il proprio fratello che un terzo estraneo.

Chiamato a deporre in ordine alla condotta criminosa del prossimo congiunto il detto fratello non era stato previamente avvertito della facoltà di astensione di cui all'art. 199 c.p.p.

A partire da tale difetto la difesa risulta aver posto questione di violazione dell'art. 199 c.p.p., lamentando il non essere il fratello stato avvisato ritualmente ancorché, con specifico riferimento alla minaccia commessa in danno del terzo, egli rivestisse la qualità di testimone e non di persona offesa.

Con la sentenza in esame la S.C. ha invece statuito, per le ragioni che si esamineranno, le piena fruibilità processuale delle dichiarazioni rese dal fratello dell'imputato.

La questione

Secondo l'art. 199, comma 1, c.p.p. i prossimi congiunti dell'imputato – per la cui nozione occorre fare riferimento all'art. 307, comma 4, c.p., che ricomprende gli ascendenti i discendenti, il coniuge, i fratelli e le sorelle, gli affini nello stesso grado, salva la morte del coniuge e l'assenza di prole, gli zii e i nipoti – non possono essere obbligati a deporre, a meno che abbiano presentato denuncia querela o istanza ovvero essi stessi o un loro prossimo congiunto siano offesi dal reato.

Come già lucidamente evidenziato dalla dottrina con riferimento all'art. 350 c.p.p. 1930, una persona che sia legata da un vincolo affettivo dovuto ad un rapporto famigliare, se chiamata a testimoniare, può trovarsi in una situazione di lacerante conflitto psicologico tra il dovere di dire la verità e il dovere, di carattere morale, di non danneggiare il prossimo congiunto sottoposto a procedimento penale.

Ciò che dunque, nell'ottica legislativa, rende preferibile l'eventuale sacrificio della c.d. verità storica a fronte della sussistenza dei predetti rapporti famigliari.

Si ritiene il c.d. segreto famigliare saldamento ancorato ai valori costituzionali: vengono al riguardo in considerazione, si afferma, da un lato, gli artt. 29 e 31 Cost., volti alla tutela della famiglia e, dall'altro, l'art. 15 Cost. che tutela la libertà di corrispondere e comunicare con determinate persone e il diritto che nessun soggetto estraneo venga a conoscenza del contenuto di tali dichiarazioni.

Secondo consolidata opinione – esplicitamente richiamata dalla decisione in commento a sostegno della decisione assunta – la ratio della previsione di cui all'art. 199 c.p.p. è quella di garantire la genuinità della prova, evitando, per quanto possibile, il ricorso alla falsa testimonianza da parte di soggetti la cui condotta, in ogni caso, sarebbe scriminata in virtù dell'esimente speciale di cui all'art. 384 c.p.

Secondo l'orientamento prevalente, attesa la ratio dell'art. 199 c.p.p., per individuare i soggetti titolari della facoltà di astensione per segreto famigliare occorre peraltro aver riguardo non al momento della consumazione del reato bensì al momento della deposizione, considerato che è in quel momento che si pone il problema della lacerazione psicologica del dichiarante.

Le soluzioni giuridiche

Dall'analisi sinottica del diritto pretorio sul tema è agevole osservare come siano frequenti situazioni, come quella in analisi, di intreccio di posizioni soggettive recanti obblighi giuridici di segno diverso e confliggente.

Si pensi in proposito alla questione del riconoscimento della facoltà di astensione al prossimo congiunto dell'imputato in procedimento connesso.

A differenza dell'art. 350 c.p.p. 1930, che riconosceva espressamente la facoltà di astensione anche al prossimo congiunto del coimputato, l'art. 199 c.p.p. non contiene alcuna indicazione sul punto.

In proposito occorre ricordare l'intervento della Corte costituzionale, che ha dichiarato manifestamente inammissibile una questione di costituzionalità dell'art. 199 c.p.p., sul presupposto della possibilità di pervenire in via interpretativa ad una soluzione conforme alla Costituzione: soluzione che dovrebbe comportare il riconoscimento della facoltà di astensione anche al prossimo congiunto dell'imputato in procedimento connesso o collegato, qualora l'esame del testimone riguardi fatti che comunque coinvolgono la responsabilità penale del congiunto (vd. Corte cost., ord. 30 gennaio 2003).

Secondo la giurisprudenza di legittimità – parimenti richiamata dalla decisione in commento – la ratio della facoltà di astenersi dal deporre, attribuita al prossimo congiunto del testimone si identifica nella finalità di prevenire situazioni nelle quali l'eventuale falsa testimonianza sarebbe scriminata dall'art. 384 c.p. (vd. Cass. pen., Sez. VI, 28 maggio 2008, n. 27060, Amodeo).

Come si è già accennato, la facoltà di astensione viene meno per i prossimi congiunti dell'imputato (e i soggetti loro equiparati) che abbiano presentato denuncia, querela o istanza (art. 199, comma 1, secondo periodo c.p.p.).

La legge presuppone dunque che, con le iniziative anzidette, il prossimo congiunto abbia dato prova di aver superato a monte i sentimenti di solidarietà famigliare che la facoltà di astensione mira a tutelare e di aver risolto quei turbamenti psichici e quel conflitto di coscienza che la previsione normativa intende evitare.

L'obbligo di testimoniare riprende vigore anche nell'ipotesi in cui il prossimo congiunto dell'imputato o del testimone rivesta la qualità di persona offesa dal reato.

Poiché il testimone, che sia anche persona offesa nel procedimento a carico di un prossimo congiunto, è obbligato a rendere testimonianza, nessun avvertimento è a lui dovuto in ordine alla facoltà di astenersi dal deporre.

L'argomentazione della Cassazione a sostegno dell'affermata validità processuale delle dichiarazioni in parola prende le mosse dal preliminare rilievo di sostanziale unitarietà della condotta ascritta all'imputato, ciò che renderebbe inscindibili le dichiarazioni del prossimo congiunto rese in qualità di persona offesa obbligata a deporre ex art. 199 c.p.p. da un lato e, dall'altro, quelle rese quale mero testimone con riferimento al contestuale reato commesso in danno di un terzo.

La Cassazione richiama poi la già descritta ratio della disposizione di cui all'art. 199 c.p.p. di prevenire false testimonianze scriminate ex art. 384 c.p. affermando che la stessa, come non riguarda i coimputati del prossimo congiunto del testimone alla stregua del dictum di cui a Cass. pen., Sez. VI, 28 maggio 2008, n. 27060, Amodeo, così non riguarda l'imputato di un'unica condotta plurioffensiva, nei casi in cui la legge esclude la facoltà di astensione del congiunto, poiché all'obbligo di deporre – e di dire la verità non può che conseguire la necessità di una rappresentazione completa ed esaustiva di ciò che è a conoscenza del testimone, nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi.

– a giudizio della Corte – è predicabile, nella specie, una inutilizzabilità relativa delle dichiarazioni (con riguardo a quelle che toccano i rapporti tra l'imputato e il terzo), giacché non si è di fronte, in casi siffatti, a prove acquisite illegittimamente (posto che sussiste un vero e proprio obbligo di deporre a carico del testimone-congiunto).

Osservazioni

La questione affrontata dalla S.C. non appare di agevole risoluzione nel suo riguardare non problematiche interpretative intese nel senso tradizionale del termine di attribuzione di significati a testi giuridici bensì delicate problematiche di bilanciamento tra poli assiologici opposti e confliggenti: da un lato, l'esigenza ordinamentale di accertamento della verità e, dall'altro, quella di salvaguardia di taluni rapporti di natura famigliare.

Trattasi di una tipica attività di giuridica ponderazione tra principi che presenta tratti inevitabilmente discrezionali, suscettibili di rendere più rilevanti del solito, nell'individuazione di una certa regola giuridica in luogo di un'altra, i valori di riferimento del singolo interprete.

Con la pronuncia in commento la S.C., prendendo in particolare spunto dalla qualità di persona comunque offesa del testimone-fratello dell'imputato, mostra di ritenere assiologicamente preminenti le esigenze di accertamento completo ed esaustivo della vicenda criminosa e, di converso, recessive quelle di salvaguardia dei rapporti famigliari. Ciò che appare inscriversi nel consolidato orientamento ermeneutico che qualifica l'art. 199 c.p.p. quale vero e proprio ius singulare, insuscettibile di estensioni analogiche e/o letture estensive (vd. Cass. pen., Sez. IV 21 aprile 1997, Romeo nonché Cass pen., Sez. VI 16 febbraio 1994, P.M. in c. Grandinetti).

Particolarmente rilevante appare dunque, nell'ottica della Cassazione, la qualità di persona offesa dal reato.

Nell'ambito della Relazione al progetto preliminare del c.p.p. si sottolinea, qualora l'imputato sia accusato di aver commesso un reato in danno del testimone suo prossimo congiunto, il venir meno del ragioni di tutela di quei motivi di ordine affettivo che giustificano la facoltà di astensione; anche nell'ipotesi in cui offeso dal reato sia un prossimo congiunto del testimone non si giustificherebbe la facoltà di astensione, poiché analoghi motivi di ordine pubblico sarebbero individuabili nel testimone nei confronti del prossimo congiunto offeso dal reato con necessità di essere tutelati mediante l'obbligo testimoniale.

De iure condito la pronuncia in commento appare corretta non destando perplessità la diagnosi di ius singulare dell'art. 199 c.p.p., ciò che impone di considerare l'accertamento della verità quale principio da preservare e la tutela di rapporti famigliari quale eccezione da intendersi in senso opportunamente restrittivo conformemente alle direttive ermeneutiche evincibili dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale.

Quello delineato non è ovviamente l'unico bilanciamento astrattamente ipotizzabile.

Già in relazione alla valutazione legislativa che esclude in astratto il segreto famigliare di fronte alla qualità di persona offesa si è rilevata la preferibilità dell'affidare al teste la scelta sul se della deposizione e, dunque, su quale dei legami affettivi fare concretamente prevalere; ad esempio, con riferimento a colui che sia prossimo congiunto tanto dell'imputato che dell'offeso, la scelta legislativa di far riespandere l'obbligo di deporre muove dalla discutibile idea di una presunzione di una equidistanza sentimentale del dichiarante nei confronti della vittima e dell'accusato.

Il riferimento operato dalla pronuncia della Corte alla (esclusa) categoria giuridica dell'inutilizzabilità parziale della deposizione nei confronti del terzo estraneo offeso appare poi logico e, nondimeno, tecnicamente discutibile.

La violazione dell'art. 199 c.p.p. pone, per espresso disposto di legge, questioni di nullità della deposizione e non di inutilizzabilità. La stessa pronuncia, nel respingere in definitiva la doglianza dell'imputato, ne rileva infine, dopo aver richiamato l'inutilizzabilità, l'intempestività dell'eccezione ex art. 199 c.p.p. alla stregua della disciplina delle nullità.

Le strutture delle due invalidità non sono invero equiparabili.

La prova nulla, pur non potendo essere lato sensu “utilizzata” a fondamento dell'affermazione di responsabilità non è inutilizzabile in senso strettamente tecnico. Il codice non ripropone (contenuta nell'art. 182 comma 2 Progetto preliminare 1978) in cui si prevedeva l'inutilizzabilità delle prove nulle.

Diversa è la causa scatenante delle due patologie processuali: per l'inutilizzabilità è imprescindibile la violazione di un divieto, per la nullità l'inosservanza di una prescrizione sostenuta da tale sanzione in via generale (art. 178 c.p.p.) o speciale.

La nullità peraltro non esclude, anche quando assoluta, la rinnovazione dell'atto, qualora possibile. L'inutilizzabilità è tale invece da impedire che l'atto sia ripetuto, ostandovi la natura stessa della violazione che la determina: essa non è sanabile, per cui la prova inutilizzabile non può essere reintrodotta attraverso la sanatoria e quando il difetto riguarda l'an della prova, è escluso per definizione che questa possa essere rinnovata.

Il richiamo della suprema Corte riflette comunque un disagio diffuso, in giurisprudenza come in letteratura, nell'individuare i confini tra i nullità e inutilizzabilità a fronte di una disciplina positiva che genera sovente talune sovrapposizioni di disciplina da risolvere caso per caso in difetto di un raccordo normativo adeguato.

In questa prospettiva, ad esempio, vi potrà essere l'ipotesi di una stessa prova inutilizzabile e, contemporaneamente, nulla ove su di essa convergano un'inutilizzabilità per vizio di forma e una nullità.

Si può fare l'esempio, in proposito, del caso di interrogatorio reso senza l'avvertimento circa i diritti to remain silent e di non divenire witness against himself.

In tali casi l'atto è nullo ex art. 178, lett. c) c.p.p. potendosi tuttavia ipotizzare altresì l'inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p.

Diventa dunque assai discutile, in tali ipotesi, individuare il regime giuridico concretamente applicabile alla patologia.

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