La configurabilità del reato di molestie attraverso Facebook
20 Luglio 2015
Massima
Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 660 c.p., il requisito della "pubblicità" del luogo sussiste nell'ipotesi in cui il responsabile invii una pluralità di messaggi molesti sulla pagina pubblica del profilo Facebook del soggetto passivo, accessibile e visibile a tutti gli utenti del social network. Il caso
La vicenda in esame ha visto come protagonista il caporedattore di una pubblicazione periodica, che aveva ripetutamente raggiunto la redattrice con volgari apprezzamenti verbali e a sfondo sessuale sul luogo di lavoro e, soprattutto, con numerosi messaggi di analogo tenore sul profilo Facebook. All'esito del giudizio di primo grado, il tribunale territorialmente competente assolveva l'imputato dagli episodi avvenuti presso la redazione del quotidiano, escludendo che si trattasse di luogo pubblico o aperto al pubblico, nonché dalle ulteriori condotte riguardanti l'invio di messaggi sul profilo Facebook, perché la comunicazione era avvenuta mediante l'utilizzo della posta elettronica in un ambito non qualificabile come “luogo pubblico o aperto al pubblico”. A diverse conclusioni era invece pervenuta la Corte di appello che, nel condannare l'imputato alla pena ritenuta di giustizia, aveva qualificato la redazione del giornale come luogo aperto al pubblico e, soprattutto, connotato dal requisito della pubblicità anche il profilo Facebook, in quanto tale social network (costituente una community aperta) era incondizionatamente accessibile a tutti gli utenti della rete globale. Avverso tale sentenza di condanna l'imputato proponeva ricorso per cassazione deducendo che il reato di molestie o disturbo alla persona non era configurabile nel caso di utilizzo di messaggistica elettronica e, comunque, la comunicazione intercorsa con la persona offesa aveva carattere esclusivamente privato e non presentava i requisiti della pubblicità e della accessibilità a chiunque. La questione
La Suprema Corte è stata chiamata a risolvere la questione giuridica relativa alla possibilità di qualificare come “luogo pubblico o aperto al pubblico” il profilo Facebook, utilizzato come veicolo di comunicazione per molestare le persone o per diffondere il proprio pensiero.
Il reato di molestie. L'art. 660 c.p. punisce chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo. Il reato di molestia o disturbo alle persone mira a prevenire il turbamento della pubblica tranquillità attuato mediante l'offesa alla quiete privata, e la relativa contravvenzione è procedibile d'ufficio (Cass. pen., Sez. I, 27 giugno 2014, n. 31265). Si intende per molestia ciò che altera dolosamente, fastidiosamente o inopportunamente la condizione psichica di una persona, non essendo rilevante se ciò avvenga mediatamente, immediatamente, durevolmente o momentaneamente. La condotta sanzionata consiste in qualsiasi condotta oggettivamente idonea a molestare o disturbare terze persone, interferendo nell'altrui vita privata e di relazione, non essendo rilevante che il soggetto passivo sia presente all'atto, in quanto è comunque sufficiente la percezione del disturbo. L'azione vietata deve svilupparsi in luogo pubblico o aperto al pubblico e, cioè, in ambiti di fatto o di diritto accessibili a tutti ovvero in cui chiunque possa entrare seppure a certe condizioni o entro certi limiti. Secondo la giurisprudenza, si intende “aperto al pubblico” il luogo cui ciascuno può accedere in determinati momenti ovvero il luogo al quale può accedere una categoria di persone che abbia determinati requisiti (Cass. pen., Sez. I, 16 giugno 2009, n.28853). Il requisito della "pubblicità" del luogo sussiste tanto nel caso in cui l'agente si trovi in luogo pubblico o aperto al pubblico ed il soggetto passivo in luogo privato, tanto nell'ipotesi in cui la molestia venga arrecata da un luogo privato nei confronti di chi si trovi in un luogo pubblico o aperto al pubblico (Cass. pen., Sez. I, n. 11524/1986). La contravvenzione in esame richiede che l'agente sia mosso da biasimevole motivo o da petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone.
Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte per risolvere il quesito giuridico sottoposto alla sua attenzione ha premesso che, ai fini dell'art. 660 c.p., per “luogo pubblico” deve intendersi uno spazio di diritto o di fatto continuativamente libero a tutti, o a un numero indeterminato di persone; per “luogo aperto al pubblico”, quello anche privato ma al quale un numero indeterminato, ovvero un'intera categoria di persone può accedere, senza limite o nei limiti della capienza ma solo in certi momenti o alle condizioni poste da chi esercita un diritto sul luogo. Pertanto, sulla base di queste premesse, è stata ritenuta fondata la prospettazione dei giudici di appello, che avevano qualificato il profilo Facebook come un luogo pubblico, trattandosi di una social community aperta, evidentemente accessibile a tutti, considerata la immediata percepibilità e la diretta invasività del mezzo di comunicazione. La riconduzione del social network alla fattispecie di cui all'art. 660 c.p. non dipenderebbe tanto dall'assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica, quanto dalla natura stessa di "luogo" virtuale aperto all'accesso di chiunque utilizzi il network globale e la piattaforma per la creazione di una comunità in rete. Per i giudici di legittimità è innegabile che la piattaforma sociale (disponibile in oltre 70 lingue, che già ad agosto del 2008 contava i suoi primi cento milioni di utenti attivi, classificata come primo servizio di rete sociale) rappresenti una sorta di agorà virtuale: una "piazza immateriale" che consente un numero indeterminato di "accessi" e di visioni, resa possibile da un evoluzione tecnica e scientifica, che certamente il legislatore non era arrivato ad immaginare. Ma che la lettera della legge non impedisce di escludere dalla nozione di luogo e che, a fronte della rivoluzione portata alle forme di aggregazione e alle tradizionali nozioni di comunità sociale, la sua ratio impone anzi di considerare. Va tuttavia chiarito che il reato in esame è configurabile a condizione che gli apprezzamenti o i giudizi molesti, veicolati attraverso la “rete sociale” più diffusa al mondo siano inseriti o “postati” sulla pagina del soggetto passivo in modo da risultare leggibili da parte dagli utenti e, comunque, da tutti i c.d. “amici”, e non invece nella sezione della messaggeria, che resta riservata alla lettura del solo destinatario. Soltanto nella prima ipotesi, infatti, secondo la Suprema Corte, si sarebbe nella condizione di ritenere pubbliche le molestie perpetrate ai danni della persona offesa, dovendo invece, in caso contrario, le comunicazioni considerarsi private. Osservazioni
La Corte di cassazione, con una interpretazione evolutiva, nella prospettiva dell'integrazione del reato di molestie o disturbo alla persona, ha qualificato una “rete sociale” come “luogo pubblico” o “aperto al pubblico”, in base alla variabile possibilità di accesso riconosciuta agli utenti della rete Internet. Si tratta di una esegesi della norma che tende ad estendere la sfera di tutela della vittima rispetto alle condotte di aggressione alla propria sfera di libertà privata e di tranquillità morale, che possono essere attuate mediante utilizzo di invasivi mezzi di comunicazione e di trasmissione del pensiero. Così, ad esempio, è stata ritenuta punibile la molestia commessa col mezzo del telefono e, quindi, anche la condotta connotata da petulanza posta in essere attraverso l'invio di short messages system (SMS) trasmessi attraverso sistemi telefonici mobili o fissi (Cass. pen., Sez. I, 24 giugno 2011, n. 30294). Tuttavia, in dottrina non è stata condivisa la soluzione giuridica volta a considerare Facebook come un luogo fisico, la cui natura è invece contraddetta proprio dalla considerazione che la rete Internet è per definizione un “non luogo” o un “ambito virtuale” privo di fisicità. È stato, così, osservato che anche il fondamento giuridico della norma sembrerebbe porsi in contrasto con l'interpretazione fornita dalla sentenza in commento, in quanto la diffusione di messaggi in forma virtuale non pare rendere inderogabile la necessità di assicurare “l'ordine pubblico di polizia”, ossia il buon assetto o il regolare andamento del vivere civile, al quale corrispondono, nella collettività, l'opinione e il senso della tranquillità e della sicurezza. Per tali motivi, se anche appare apprezzabile lo sforzo interpretativo della Suprema Corte di adattare le norme esistenti all'evoluzione della tecnologia, sarebbe preferibile, in attesa di un adeguamento normativo, optare per una soluzione volta a ricostruire la piattaforma Facebook come semplice strumento di comunicazione del pensiero o di invio della corrispondenza.
Guida all'approfondimento
L. Diotallevi, Reato di molestia e Facebook tra divieto di analogia in materia penale, (presunta) interpretazione ”evolutiva” dell'art. 17 Cost. e configurabilità di un diritto di accesso ad Internet, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 5, 2014, pag. 4104. |