L'accordo concernente un reato prescritto non implica rinuncia alla prescrizione

Luigi Agostinacchio
21 Giugno 2016

In tema di patteggiamento la richiesta di applicazione delle pena da parte dell'imputato ovvero il consenso prestato alla proposta del pubblico ministero non possono valere come rinuncia alla prescrizione, in quanto l'art. 157, comma 7, c.p. richiede la forma espressa che non ammette equipollenti.
Massima

In tema di patteggiamento la richiesta di applicazione delle pena da parte dell'imputato ovvero il consenso prestato alla proposta del pubblico ministero non possono valere come rinuncia alla prescrizione, in quanto l'art. 157, comma 7, c.p. richiede la forma espressa che non ammette equipollenti.

(In motivazione la Corte ha affermato che, qualora il giudice non rilevi l'intervenuta prescrizione ex art. 129 c.p.p., nonostante la richiesta di patteggiamento, l'errore – rilevante ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p. – può essere dedotto con ricorso in Cassazione).

Il caso

Il Gup del tribunale di Velletri, pronunciando ex art. 444 c.p.p., aveva applicato la pena concordata dalle parti per il reato di truffa continuata.

L'imputato aveva in seguito proposto ricorso per cassazione, eccependo, con un unico motivo, la mancata applicazione dell'art. 129 c.p.p., in relazione ad alcuni episodi di truffa contestati, rispetto ai quali era maturato il termine di prescrizione alla data di emissione della richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero procedente.

La questione

La questione è sintetizzata nell'ordinanza in data 1° dicembre 2015 n. 48711 della seconda Sezione penale della Corte di cassazione, cui il ricorso era stato assegnato. Si rilevava in quella sede che nella giurisprudenza di legittimità vi era un contrasto interpretativo sulla possibilità di considerare la richiesta di patteggiamento come rinuncia alla prescrizione; si rimetteva pertanto l'esame del ricorso alle Sezioni unite perché risolvesse il conflitto, incentrato appunto sugli effetti dell'accordo negoziale sull'istituto della prescrizione (in particolare, era controverso se tale accordo, basato su una richiesta dell'imputato accettata dal pubblico ministero, costituisse dichiarazione legale tipica di rinuncia alla prescrizione).

In sintesi, una interpretazione propendeva per la necessità di una manifestazione della rinuncia in forma espressa; l'altra per la possibile deduzione anche per facta concludentia, analogamente a quanto previsto per la prescrizione civile dal terzo comma dell'art. 2937 c.c. qualora nel comportamento del debitore fosse insita, senza possibilità di diversa interpretazione, l'inequivocabile volontà di non giovarsi della compiuta prescrizione.

La prima opzione ermeneutica era incentrata sul dato letterale dell'art. 157 c.p. (la prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall'imputato) e sulle modalità di esternazione insita nell'avverbio utilizzato dal legislatore nonché sulla ratio della previsione della forma espressa (rilevanza dell'atto dismissivo e pregnanza dei suoi effetti sul diritto dell'imputato ad un esito più favorevole del processo, in sintonia con la presunzione di innocenza).

La contrapposta soluzione interpretativa presentava al suo interno due alternative: secondo una tesi la proposta di patteggiamento reca in sé una dichiarazione legale tipica di rinuncia alla prescrizione non più revocabile (di recente Cass. pen., Sez. II n. 42748/2015); secondo altra la richiesta di patteggiamento implica rinuncia implicita (ed es. Cass. pen., Sez. IV, n. 51792/2014). Ambedue le tesi presupponevano una antinomia logico – concettuale tra richiesta di patteggiamento e rinuncia alla prescrizione.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza delle sezioni unite, dopo aver ritenuto paradossale che una richiesta di applicazione della pena sia da preferire ad una causa di estinzione del reato e che in nessun caso possa ritenersi che una volontà “diversa” (racchiusa in un modello legale di richiesta) sia orientata a tutt'altri fini e qualificarsi come “espressa”, ha concluso nel senso che ai fini del valido esercizio del diritto di rinuncia alla prescrizione è necessaria la forma espressa, che non ammette equipollenti, sicché la richiesta di applicazione della pena da parte dell'imputato o il consenso prestato alla proposta del pubblico ministero, non possono, di per sé valere come rinuncia.

Osservazioni

La sentenza in commento è in linea di continuità con un'altra decisione delle Sezioni unite con la quale era stato già affermato il principio di diritto secondo cui la rinuncia alla prescrizione richiede una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti (Cass. pen., Sez. un. 30 settembre 2010, n. 43055). In quella circostanza si era precisato che la rinuncia non si può desumere implicitamente dalla mera proposizione del ricorso per cassazione (si trattava di fattispecie nella quale l'imputato, senza espressa rinuncia alla prescrizione, aveva proposto ricorso per cassazione contro la declaratoria di estinzione del reato pronunciata dal Gip cui era stato richiesto decreto penale di condanna).

L'indirizzo maggioritario aveva ritenuto tuttavia che vi fosse un'incompatibilità logico-giuridica fra la richiesta di patteggiamento e la successiva eccezione di omessa estinzione del reato per prescrizione maturata prima dell'accordo sulla pena.

Le Sezioni unite hanno tuttavia osservato che tale assunto postula la consapevolezza – da parte dell'imputato (o indagato) – dell'esistenza della causa estintiva, potendo ragionevolmente configurarsi una volontà di rinunciare ad un diritto solo in quanto se ne conosca la reale esistenza; la proposta di patteggiamento è invece un'opzione processuale che, di per sé, non presuppone la conoscenza degli effetti della prescrizione sul reato e, quindi, della possibilità di un esito più favorevole del processo,

Sul versante positivo il richiamo è a due norme del codice di rito (oltre che all'art. 157, comma 7, c.p.): l'art. 444, comma 2,c.p.p. assegna al giudice una priorità procedimentale ossia la verifica dell'insussistenza delle cause di non punibilità previste dall'art. 129 c.p.p. da compiersi indipendentemente dalla piattaforma negoziale, sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del procedimento.

Il potere dispositivo delle parti non è dunque illimitato, con la conseguenza che il giudice del patteggiamento è comunque tenuto ad effettuare una verifica preliminare circa la sussistenza di una delle cause di proscioglimento di cui all'art. 129 c.p.p. al cui rilievo deve far luogo, anche d'ufficio, con relativa declaratoria. Tale potere di controllo sarebbe del tutto vanificato se la richiesta di applicazione della pena concordata implicasse rinuncia alla prescrizione.

La giurisprudenza di legittimità ha inoltre precisato che la rinuncia alla prescrizione è un diritto personalissimo riservato all'imputato (e non rientra, pertanto, nel novero degli atti processuali che possono essere compiuti dal difensore a norma dell'art. 99 c.p.p. Cass. pen., Sez. I, 13 dicembre 2012, n. 21666) sì che la modalità di esternazione assuma rilevanza decisiva e deve essere effettuata espressamente, senza possibilità di assegnare al termine una diversa valenza semantica, assumendolo, ad esempio, come sinonimo di univocamente od inequivocamente, avverbi che attengono a differenti ambiti concettuali, afferendo al piano sostanziale della significazione e non già alla sua forma.

D'altra parte – come hanno pure evidenziato le Sezioni unite – la rinuncia a far valere un diritto già maturato si collega all'esercizio del diritto al processo e, quindi, alla prova, nell'ambito dell'inalienabile diritto alla difesa, sancito dall'art. 24 Cost., in sintonia, peraltro, con la presunzione di innocenza di cui all'art. 27, comma 2, della Costituzione ed all'art. 6, par. 2, Cedu.

In definitiva, il giudice che ravvisi una causa di estinzione del reato, ivi compresa l'intervenuta prescrizione, sarà tenuto a prosciogliere l'imputato, ancorché quest'ultimo abbia formulato richiesta di patteggiamento; qualora ciò non avvenga, la successiva sentenza di applicazione della pena sarà affetta da vizio di legge deducibile con ricorso in Cassazione.