Il “diritto vivente” come parametro di riconoscimento della sentenza penale straniera
21 Luglio 2016
Massima
Stante la natura sanzionatoria delle conseguenze derivanti dalla condanna straniera, se resa produttiva di effetti in Italia, la regola, sancita dall'art. 733, comma 1, lett. e), c.p.p., per cui non è possibile il riconoscimento della sentenza estera quando il fatto per il quale è stata resa la decisione non è previsto come reato dalla legge italiana, va letta congiuntamente al principio di irretroattività della norma penale, previsto dall'art. 2, comma 1, c.p. Il caso
La Corte d'appello di Venezia riconosceva, ai sensi dell'art. 12 c.p., una sentenza del tribunale federale di Bellinzona (Svizzera) che condannava un cittadino italiano alla pena di quattro anni e undici mesi di reclusione per reati in materia di stupefacenti, di falso e di riciclaggio. A seguito del riconoscimento, il collegio veneziano applicava al condannato le pene accessorie dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici per cinque anni, del ritiro della patente e del divieto di espatrio per un anno. La questione
Il riconoscimento della sentenza elvetica era stato domandato – ed ottenuto – all'esclusivo scopo di consentire, in Italia, l'applicazione di pene accessorie e, quindi, degli stessi effetti penali che la legge nostrana avrebbe ricollegato alla condanna se fosse stata pronunciata nel nostro Paese. Si pone, quindi, il problema del fatto sottoposto alla giurisdizione straniera e commesso in epoca nella quale non era reato per la legge italiana: problema, questo, che dev'essere affrontato sempre ricordando che il riconoscimento non occorre allorché sia in contrasto con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano. Sotto altro profilo, la sentenza straniera è solo la premessa storica, necessaria a valutare se, in Italia, possano da essa scaturire effetti identici a quelli che deriverebbero da una pronuncia di egual tenore, resa dal giudice italiano. S'aggiunga, infine, l'ovvia considerazione – incarnata nell'art. 2, comma 1, c.p. e, a livello costituzionale, dall'art. 25, comma 2, Cost. – per cui – si riprenda il dettato costituzionale –nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Da ciò deriva, quasi secondo un sillogismo, che dovendo valutare la produttività di effetti penali della sentenza straniera da riconoscere in Italia, il riconoscimento non può avere luogo quando la pronuncia estera riguardi fatti che, all'epoca in cui furono commessi, erano privi di rilevanza penale secondo la nostra legge. Le soluzioni giuridiche
La suprema Corte giunge ad una soluzione rispettosa dell'ordine pubblico italiano, annullando la decisione veneziana e rinviando al collegio lagunare affinché verifichi se i fatti addebitati al ricorrente costituissero reato secondo la legge italiana al momento della loro commissione. Vengono, altresì, indicati alla Corte veneta i principi di diritto ai quali deve attenersi nel valutare la rilevanza criminale dei fatti accertati dal giudice elvetico: altrimenti detto, il giudizio richiesto in sede di riconoscimento non può limitarsi al nomen iuris attribuito dal diritto penale straniero alla fattispecie addebitata al condannato in territorio estero, ma deve tenere conto del nostro diritto vivente, ossia dell'interpretazione delle regole penali, resa dalla giurisprudenza italiana, in primis, di legittimità. Guardando al caso di specie, il giudice del rinvio non deve accontentarsi di considerare che la condanna elvetica riguardava fatti compresi tra il marzo 2003 e l'ottobre 2009, e potenzialmente integranti il c.d. autoriciclaggio, aggiungendo che solo con l. 15 dicembre 2014, n. 186 il nostro codice penale si è dotato di una norma – l'art. 648-ter.1 – dedicata ad una fattispecie delittuosa così denominata. Dice il supremo Collegio che occorre tenere conto anche dei principi espressi in tema di “auto” riciclaggio e reimpiego dalle Sezioni Unite, prima della novella della L. n. 186 del 2014 (Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, Rv. 259590, Iavarazzo, secondo cui l'assenza nel D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinques, di una clausola di esclusione della responsabilità per l'autore dei reati che hanno determinato la produzione di illeciti proventi consente di affermare che il soggetto attivo del reato può essere anche colui che ha commesso o ha concorso a realizzare il delitto presupposto, qualora abbia predisposto una situazione di appartenenza giuridica e formale difforme dalla realtà circa la titolarità o disponibilità dei beni di provenienza delittuosa al fine di agevolare la commissione dei delitti di riciclaggio o di reimpiego). Insomma, il giudice del rinvio valuterà la concreta fattispecie già portata all'attenzione della corte straniera e, per quella via, deve considerarne la rilevanza in termini di sussumibilità ad una fattispecie criminale di diritto interno, tenendo conto degli arresti giurisprudenziali che, nel tempo e all'epoca in cui l'asserito reato fu commesso, ne definivano i tratti costitutivi. Sotto un profilo, invece, procedurale, la suprema Corte evidenzia come l'eccezione relativa alla mancata previsione, in Italia, tra il 2003 e il 2009, dell'ipotesi di autoriciclaggio, era stata sottoposta alla Corte d'appello, senza, però, che la stessa vi prendesse posizione. Da qui, la necessità di un annullamento con rinvio, essendo la verifica richiesta dalla difesa un prerequisito imprescindibile della delibazione. Osservazioni
Il formante giurisprudenziale integra il legislativo, così offrendo una nuova versione del principio di legalità formale: pur in assenza di una norma che individui una specifica fattispecie di autoriciclaggio, la suprema Corte aveva adottato un'esegesi estensiva – ammessa in diritto penale, quando non ricade nell'analogia in malam partem – delle disposizioni su riciclaggio e reimpiego, tale da punire, nelle circostanze esplicitate dalle Sezioni unite Iavarazzo, pure l'autore di condotte che, dopo la novella del 2014, rientrano nel reato previsto dall'art. 648-ter.1 c.p.. In tal senso, alle condizioni stabilite dalla giurisprudenza, un certo fatto può essere riconosciuto come previsto quale reato dalla legge italiana – così nulla ostando alla delibazione della relativa condanna allogena – anche se la sua antigiuridicità deriva dal percorso interpretativo della giurisprudenza. Il pregio di un tale orientamento è che consente il continuo adeguarsi del diritto penale all'evoluzione del pensiero giurisprudenziale, senz'altro più attento agli sviluppi del sentire sociale e più veloce dell'attività legislativa nel dichiarare l'irrilevanza di talune condotte, ormai avvertite dai più come non lesive. Esiste, però, un sicuro lato negativo: gli orientamenti della suprema Corte sono ondivaghi, spesso incerti e talora contraddittori. Si guardi ad un settore contiguo a quello richiamato dalla pronuncia che qui si annota, e cioè alla responsabilità del prestanome di una società coinvolta in reati fiscali. La giurisprudenza è assai lontana da approdi sicuri: ora s'è detto che la “testa di legno” risponde tanto quanto l'amministratore di fatto (ad esempio, Cass. pen., Sez. VI, 27 agosto 2014, n. 36182, sulla legittimità della confisca per equivalente al prestanome), altrove è rimasto indenne il formale gestore dell'impresa quando ne sia stata dimostrata l'estraneità all'effettiva amministrazione (tra le tante, Cass. pen., Sez. III, 28 maggio 2012, n. 20286 o, nella giurisprudenza di merito, Trib. Milano, 24 ottobre 2013, n. 11706). Se la Corte d'appello riconosce la sentenza straniera quando la legge italiana – intesa come diritto vivente che esce dalle aule di tribunale – prevede il fatto concretamente dedotto in condanna come reato, in presenza di orientamenti giurisprudenziali incerti, il rischio è di rendere altrettanto incerta la delibazione, così stravolgendo la ratio dell'art. 733, comma 1, lett. e), c.p.p., teso, invece, ad assicurare un presupposto certo per l'ingresso in Italia degli effetti derivanti da condanna d'oltre confine. Il paradosso è evidente: la Cassazione esalta quella di irretroattività della legge penale a regola fondamentale, giacché corollario del principio di legalità formale. Tradurre il sintagma “legge” in “diritto vivente”, però, crea una zona grigia, di confine tra ciò che è reato e ciò che non lo è, la cui definizione è rimessa alle non sempre uniformi letture dei giudici. Di qui, il rischio che casi simili vengano trattati in modo difforme e, con richiamo all'art. 733 c.p.p., vengano ora riconosciute sentenze straniere per taluni fatti che, altrove, non sono intesi come delittuosi, sulla scorta di un qualche orientamento, con opposte conseguenze sulla delibazione. Bibliografia essenziale in tema di riconoscimento delle sentenze straniere e dei requisiti per la delibazione: DE AMICIS, Il principio del ne bis in idem europeo nel contesto della cooperazione giudiziaria: primi orientamenti della corte di giustizia, in Giur. merito, 2009, 3177 ss.; GALANTINI, Una nuova dimensione per il ne bis in idem internazionale, in Cass. pen., 2004, 3474 ss.; NUZZO, I limiti del giudicato nei reati associativi e nel concorso di persone, in Cass. pen., 2004, 1494 ss. PISANI, Francesco Carrara e il ne bis in idem internazionale, in Riv. dir. int., 2005, 1022 ss.; UBERTIS, La prova acquisita all'estero e la sua utilizzabilità in Italia, in Cass. pen., 2014, 696 ss.
In tema di irretroattività e reato di autoriciclaggio: P. BRONZO, Introdotto il reato di autoriciclaggio, in Cass. pen., 2015, 26 ss.
Sempre sulla successione di leggi penali nel tempo: BIANCHI, Il problema della “successione impropria”: un'occasione di (rinnovata?) riflessione sul sistema del diritto punitivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 322 ss. |