La rilevanza della buona fede nelle contravvenzioni ambientali

Livio Meo
24 Marzo 2017

Il quesito sottoposto allo scrutinio della Cassazione è il seguente: in materia di contravvenzioni, la buona fede può escludere l'elemento soggettivo del reato se manca un "fattore positivo esterno" che abbia determinato l'erronea convinzione della liceità della condotta?
Massima

In materia contravvenzionale, la buona fede dell'agente può costituire causa di esclusione dell'elemento soggettivo qualora il convincimento della liceità della condotta sia stato determinato da un fattore positivo esterno.

Il caso

Con la sentenza di primo grado, il Gip presso il tribunale di Cuneo assolveva l'imputato dal reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata previsto dall'art. 256, comma 1, d.lgs. 152 del 2006 (c.d. Testo unico ambiente), a norma del quale è punito chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione.

Nel caso in esame, l'imputato, pur non essendo iscritto all'Albo nazionale dei gestori ambientali, aveva raccolto, trasportato e rivenduto rifiuti metallici per una quantità di 300 kg. Nello specifico, l'autore del fatto aveva individuato un centro di recupero disposto ad acquistare irregolarmente il materiale metallico e, allo scopo di trarne profitto, aveva provveduto alla vendita dei rifiuti.

Il giudice di prime cure aveva escluso la penale responsabilità del prevenuto per mancanza dell'elemento soggettivo del reato, individuando una serie di elementi ritenuti indicativi della buona fede dell'imputato. Tra questi elementi venivano inclusi la complessità della normativa che disciplina la materia dei rifiuti, il modesto guadagno che l'imputato avrebbe tratto dalla cessione dei rifiuti, la qualità di privato cittadino e la circostanza che l'agente aveva declinato in modo corretto le proprie generalità al centro di raccolta.

A parere del Gip, l'imputato aveva confidato sulla liceità della propria condotta ed era incorso in una situazione di errore inevitabile, scusabile ai sensi dell'art. 5 c.p. e idoneo ad escludere la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.

Avverso la sentenza assolutoria di primo grado, pronunciata a seguito di richiesta di emissione di decreto penale di condanna, proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica in base a tre motivi di censura.

Ai fini che qui interessano rileva solo la doglianza avanzata con il secondo motivo, tramite il quale veniva lamentata violazione di legge in relazione all'art. 5 c.p.

Secondo il P.M. ricorrente, infatti, la buona fede idonea ad escludere l'elemento soggettivo ex art. 5 c.p. richiede che l'agente venga indotto in errore da un fattore positivo esterno, il quale può consistere in un comportamento positivo dell'autorità amministrativa o in un orientamento giurisprudenziale consolidato. La Pubblica Accusa non riscontrava nel caso di specie alcun fattore positivo esterno funzionale all'esclusione dell'elemento soggettivo e chiedeva pertanto l'annullamento della sentenza impugnata.

La questione

Il quesito sottoposto allo scrutinio della Cassazione è il seguente: in materia di contravvenzioni, la buona fede può escludere l'elemento soggettivo del reato se manca un fattore positivo esterno che abbia determinato l'erronea convinzione della liceità della condotta?

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione ha fornito una risposta negativa al quesito.

Con la sentenza in commento, la suprema Corte ha infatti ribadito il consolidato orientamento secondo il quale la buona fede che esclude l'elemento soggettivo nei reati contravvenzionali deve essere determinata da un fattore positivo esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole (ex multis, tra le pronunce più recenti: Cass. pen., Sez. III, 13 luglio 2016 – 20 gennaio 2017, n. 2996; Cass. pen., Sez. III, 20 maggio 2016 – 23 agosto 2016, n. 35314).

A giudizio della Corte, gli elementi richiamati dal Gip come indici della buona fede dell'imputato non sono idonei a dimostrare che l'autore del fatto sia incorso in un errore inevitabile sulla liceità del comportamento. Ai fini del riconoscimento della scusante, la Cassazione attribuisce un valore decisivo alla sussistenza di un fattore positivo esterno: l'agente può invocare la buona fede soltanto qualora la convinzione di porre in essere una condotta lecita sia maturata sulla base di un provvedimento autorizzativo della pubblica amministrazione o di un pacifico orientamento giurisprudenziale.

L'impostazione seguita dai giudici di legittimità si fonda sulla valorizzazione del dovere di informazione gravante sul soggetto agente, il quale non può invocare la scusante della buona fede qualora non si sia attivato per verificare la conformità alla legge della propria condotta.

Dopo aver richiamato i principi in materia di ignoranza della legge penale enucleati nella storica sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale (Corte cost., 23 marzo 1998 – 24 marzo 1988, n. 364), la Cassazione ha ribadito che i limiti della inevitabilità dell'ignoranza penale devono essere individuati in relazione allo specifica tipologia di soggetto agente (Cass. pen., Sez. unite, 10 giugno 1994 – 18 luglio 1994, n. 8154).

Un soggetto che svolge professionalmente un'attività in un determinato settore deve assolvere un obbligo di informazione particolarmente rigoroso: l'ignoranza incolpevole può essere invocata soltanto qualora l'agente qualificato dimostri di aver fatto tutto il possibile per richiedere i chiarimenti necessari alle autorità competenti e per informarsi in proprio ricorrendo ad esperti giuridici.

In linea di principio, il cittadino comune è gravato soltanto da un obbligo di informazione di tipo generico che è sufficientemente adempiuto mediante la corretta utilizzazione dei normali mezzi di indagine e di ricerca di cui egli dispone. Nel caso in cui il privato cittadino svolga un'attività di gestione di rifiuti a fini di lucro, però, l'obbligo di diligenza viene definito “simile” a quello imposto al professionista.

In particolare, il privato-non professionista ha l'obbligo di rivolgersi alla pubblica amministrazione competente e non può invocare la scusante della buona fede qualora la condotta antigiuridica sia stata posta in essere in assenza di un riscontro positivo proveniente dalla P.A.

Nel disporre l'annullamento della sentenza impugnata, la Suprema Corte ha pertanto affermato che la pura e semplice ignoranza dell'agente “non confortata da provvedimenti espressi dell'autorità amministrativa né da richieste di chiarimenti sul punto” non è idonea ad escludere l'elemento soggettivo del reato.

Osservazioni

La sentenza in esame si pone in linea di continuità con un granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di buona fede nelle contravvenzioni.

Nel solco tracciato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988, con la quale è stata dichiarata l'incostituzionalità dell'art. 5 c.p. nella parte in cui non prevede la scusabilità dell'ignoranza inevitabile della legge penale, la Cassazione ha riconosciuto che i doveri di solidarietà sociali affermati dall'art. 2 Cost. impongono a ciascun consociato l'assolvimento dell'obbligo strumentale di informazione e di conoscenza della legge penale.

In materie settoriali come la disciplina della gestione dei rifiuti, l'obbligo di informazione grava in modo pregnante nei confronti di un soggetto titolare della qualifica di professionista, ma anche in capo al privato cittadino è previsto un innalzamento del dovere di adeguamento alla normativa. In una pronuncia particolarmente approfondita, la Corte ha infatti affermato che la complessità della normativa settoriale e la qualità di privato cittadino non rappresentano elementi di per sé idonei a scusare l'ignoranza della legge, ma che, a maggior ragione trattandosi di persona priva di specifiche competenze settoriali, incombe sull'agente un dovere di informarsi sulla disciplina di settore che si intende porre in essere, assolvendo agli obblighi del c.d. homo eiusdem professionis et conditionis (Cass. pen., Sez. III, 7 gennaio 2016 – 8 febbraio 2016, n. 4931).

In questa prospettiva, la valutazione sull'inevitabilità/scusabilità dell'errore viene ancorata all'assolvimento del dovere di informazione da parte del privato cittadino e la giurisprudenza di legittimità sostiene che l'errata convinzione della liceità della condotta è scusabile soltanto se risulta determinata da un fattore positivo esterno (Cass. pen., Sez. III, 19 marzo 2015 – 8 luglio 2015, n. 29080).

Sul punto può osservarsi che la Corte prescrive un metodo rigoroso per valutare l'efficacia scusante della buona fede: il giudice non deve operare una ricognizione delle circostanze che nel caso concreto potrebbero risultare indicative della buona fede (complessità della normativa, esiguità del guadagno, immediata identificabilità del soggetto, qualifica di privato cittadino) ma è chiamato a verificare se il comportamento antigiuridico dell'imputato sia stato indotto da un elemento positivo esterno.

La Cassazione ha inoltre precisato che la prova della sussistenza di tale elemento positivo deve essere data dall'imputato, il quale ha anche l'onere di dimostrare di aver compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Cass. pen., Sez. IV, 5 febbraio 2015 – 2 marzo 2015, n. 9165; Cass. pen., Sez. III, 5 ottobre 2004 – 1 dicembre 2004, n. 46671).

Con l'espressione fattore positivo esterno la Cassazione intende una circostanza estranea all'agente che ne abbia orientato il comportamento antigiuridico. L'elemento in questione può consistere in un orientamento giurisprudenziale consolidato oppure, come nel caso in esame, in un comportamento della autorità competente alla tutela dell'interesse protetto.

A titolo esemplificativo può richiamarsi un precedente in materia di detenzione di armi in cui la Corte ha riconosciuto l'efficacia scusante della buona fede. Nel caso sottoposto al giudizio della suprema Corte, l'imputato aveva posto in essere la condotta antigiuridica prevista dall'art. 697 c.p. perché, al momento della denuncia dell'arma ereditata dal padre, aveva omesso di denunciare le munizioni. Dall'istruttoria era però emerso che l'omissione era stata determinata da una prassi vigente presso la Stazione dei Carabinieri competente, formalizzata in una nota del Comandante nella quale era prevista una norma di esenzione. La Cassazione ha affermato che la parte che ebbe a denunciare regolarmente l'arma venne indotta in errore circa l'esatta conoscenza del precetto (quanto al dovere di denunzia delle munizioni), risultando pertanto non rimproverabile (Cass. pen., 15 luglio 2015 – 2 dicembre 2015, n. 47712).

Anche in materia di rifiuti si segnalano diverse pronunce in cui viene attribuita rilevanza scusante alla buona fede determinata da un comportamento della pubblica amministrazione. In una decisione del 2009, ad esempio, la suprema Corte ha ritenuto che la condotta antigiuridica contestata all'imputato fosse stata tenuta in conseguenza di un comportamento positivo dell'autorità competente, la quale, in risposta ai chiarimenti richiesti dall'imputato, si era sempre espressa per la non necessità dell'autorizzazione prevista dalla legge sui rifiuti. Nello specifico, la Corte ha affermato che l'atteggiamento della pubblica amministrazione ha creato o ha potuto creare nei prevenuti la convinzione della non necessità dell'autorizzazione prevista per la gestione dei rifiuti (Cass. pen., sez. III, 4 novembre 2009 – 30 dicembre 2009, n. 49910).

Infine, la Cassazione ha precisato in modo perentorio che l'erroneo convincimento soggettivo sulla liceità della gestione dei rifiuti non ha efficacia scusante qualora sia derivato da un fatto negativo dell'amministrazione competente. La mancata espressione di un diniego o la mancata rilevazione di irregolarità da sanare non possono infatti assurgere a elementi idonei a concretizzare la buona fede dell'agente (Cass. pen., Sez. III, 18 luglio 2014 – 9 ottobre 2014, n. 42021).

In conclusione, dall'indagine sulla cospicua casistica giudiziaria in materia di contravvenzioni ambientali emerge un quadro ormai chiaro e compiutamente delineato sull'efficacia scusante della buona fede, il cui riconoscimento resta rigidamente subordinato all'incidenza di un fattore positivo esterno.

Guida all'approfondimento

Per un approfondimento sul reato ambientale previsto dall'art. 256, comma 1, T.U.A. si segnalano C. RUGA RIVA, Diritto penale dell'ambiente, III ed., Torino, 2016, p. 145 ss., e L. RAMACCI, Rifiuti: la gestione e le sanzioni, Piacenza, 2014, p. 201 ss.

Per un'impostazione alternativa rispetto a quella seguita dalla giurisprudenza, una parte della dottrina invoca l'applicabilità della c.d. teoria degli elementi psicologici ultimi, prospettando un'indagine sulla natura dell'errore sulla legge extrapenale richiamata dalla norma penale in bianco dell'art. 256, comma 1, T.U.A. Un inquadramento della disciplina dell'errore sulla legge extrapenale in tema di norme penali in bianco può trovarsi in F. MANTOVANI, Diritto Penale. Parte generale, IX ed., Padova, 2015, p. 376. In materia di gestione non autorizzata di rifiuti suggerisce questa diversa impostazione G. TEDESCO, Errore nelle contravvenzioni ambientali, in Dir. pen. proc. 2016, 5, p. 635 ss.

In riferimento alla rilevanza della buona fede nelle contravvenzioni si indicano inoltre B. IANNUCCELLI, Il problema della rilevanza della buona fede in tema di reati contravvenzionali, in Foro ambr. 2001, I, p. 99 ss.; V. NORMANDO, Riflessioni in tema di buona fede nelle contravvenzioni, in Riv. pen. 1988, p. 97 ss.; G. FORNASARI, Buona fede e delitti: limiti normativi dell'art. 5 c.p. e criteri di concretizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen. 1987, 2, p. 449 ss.

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