Diffamazione on-line e su social network. Mezzo stampa o mezzo pubblicitario?

27 Marzo 2017

La questione che si pone è se l'utilizzo di social network o altri nuovi mezzi tecnologici di comunicazione per veicolare notizie diffamatorie possa essere ricondotta o meno al concetto di stampa qualora oggetto della diffusione online siano informazioni c.d. professionali.
Massima

La pubblicazione di un messaggio diffamatorio sulla bacheca Facebook con l'attribuzione di un fatto determinato configura il reato di cui all'art. 595, commi 2 e 3,c.p. ed è inclusa nella tipologia di qualsiasi altro mezzo di pubblicità e non nella diversa ipotesi del mezzo della stampa giustapposta dal Legislatore nel medesimo comma. Deve, infatti, tenersi distinta l'area dell'informazione di tipo professionale, diffusa per il tramite di una testata giornalistica online, dall'ambito – più vasto ed eterogeneo – della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo. In caso di diffamazione mediante l'utilizzo di un social network, non è dunque applicabile la disciplina prevista dalla l. 47/1948, ed in particolare, l'aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 13.

L'uso dei social network, e quindi la diffusione di messaggi veicolati a mezzo internet, integra un'ipotesi di diffamazione aggravata con altro mezzo di pubblicità – anziché con il mezzo della stampa – ai sensi dell'art. 595, comma 3,c.p. in quanto rientrante in una categoria più ampia, comprensiva di tutti quei sistemi di comunicazione e, quindi, di diffusione – dai fax ai social media – che, grazie all'evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione di dati e notizie ad un consistente numero di persone. In caso di diffamazione mediante l'utilizzo di un social network, non è dunque applicabile la disciplina prevista dalla l. 47/1948, ed in particolare, l'aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 13.

Il caso

Cass. pen., Sez. V, 14 novembre 2016 (dep. 1 febbraio 2017), n. 4873. L'imputato è stato raggiunto da richiesta di rinvio a giudizio per il delitto di cui all'art. 595, commi 1, 2 e 3, c.p., per avere il medesimo pubblicato sul proprio profilo Facebook un testo con il quale offendeva la reputazione della persona offesa attribuendogli un fatto determinato tramite l'uso di internet. All'udienza preliminare, il Gup ha pronunciato ordinanza ai sensi degli artt. 33-quinquies e 33-sexies c.p.p., con la quale ha disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero affinché provvedesse alla citazione diretta a giudizio dell'imputato, trattandosi di reato rientrante nella fascia di reati prevista dall'art. 550, comma 1, c.p.p. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione il procuratore della Repubblica presso il tribunale sostenendo l'abnormità dell'ordinanza impugnata, che aveva provocato un'indebita regressione del procedimento. Secondo il pubblico ministero, la contestazione all'imputato del reato di diffamazione aggravata ai sensi del comma 2 e del comma 3 dell'art. 595 c.p. avrebbe comportato l'applicazione della pena massima edittale della reclusione fino a sei anni stabilita dall'art. 13 l. 47/1948 e, pertanto, non ricompresa nell'elenco dei reati a citazione diretta ex artt. 550 ss. c.p.p. Tali conclusioni trovavano fondamento nel fatto che l'uso di Facebook per arrecare discredito alla reputazione altrui fosse qualificato come mezzo della stampa anziché come qualsiasi altro mezzo di pubblicità – categoria, quest'ultima, ben distinta e più ampia rispetto alla prima.

Cass. pen., Sez. V., 23 gennaio 2017 (dep. 22 febbraio 2017), n. 8482. L'imputata, professoressa universitaria, assolta in primo grado, è stata condannata in appello per il delitto di cui agli artt. 81 comma 2, 595 commi 1, 2 e 3 c.p., perché con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, utilizzando internet – in particolare diversi siti, tra cui i blog delle testate La Repubblica e L'Espresso – e quindi tramite un mezzo di pubblicità – offendeva in più occasioni la reputazione di una collega, accusando la medesima di plagio per aver pubblicato un libro consistente – in sintesi – in una copiatura della tesi da ella precedentemente redatta. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell'imputata lamentando, per quanto qui di interesse, l'applicabilità alla rete internet delle disposizioni sulla diffamazione a mezzo stampa mentre, per l'effetto, si sarebbe dovuto contestare all'imputata una diffamazione “ordinaria” ai sensi del primp comma dell'art. 595 c.p.

La questione

La questione che si pone è se l'utilizzo di social network o altri nuovi mezzi tecnologici di comunicazione per veicolare notizie diffamatorie possa essere ricondotta o meno al concetto di stampa qualora oggetto della diffusione online siano informazioni c.d. professionali.

Le soluzioni giuridiche

La Sezione V della Corte di Cassazione – in entrambe le pronunce qui annotate – ha rigettato i ricorsi depositati affermando la non estendibilità del concetto di stampa agli scritti veicolati tramite internet, sebbene questi, in particolare nell'ambito dei social network, possano invece contemplare l'aggravante dell'altro mezzo di pubblicità previsto dal comma 3 dell'art. 595 c.p.

Nel primo caso (Cass. pen., n. 4873/2016), infatti, la Suprema Corte, riproponendo un precedente della medesima sezione (Cass. pen. Sez. V n. 8328/2016; conf. Cass. pen. Sez. V, n. 16262/2008, Cass. pen. Sez. V, n. 44980/2012 e Cass. pen. Sez. I, n. 24431/2015), ha ritenuto che il Gup non avesse qualificato erroneamente il fatto contestato all'imputato in quanto la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook può integrare l'ipotesi di reato prevista dall'art. 595, comma 3,c.p. poiché questa modalità di comunicazione di un contenuto informativo suscettibile di discredito alla reputazione altrui, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, perché attraverso questa “piattaforma virtuale” gruppi di soggetti valorizzano il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un numero indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione. Proprio tale finalizzazione alla socializzazione conduce – a parere della Corte – a qualificare la fattispecie in esame nell'ipotesi aggravata di cui al comma 3 della norma incriminatrice ma non in quanto diffusione di notizie a mezzo della stampa, bensì includendola nella tipologia di qualsiasi altro mezzo di pubblicità. A sostegno della propria tesi, i giudici di legittimità, richiamano il principio di diritto affermato dalla sentenza n. 31022, pronunciata dalle Sezioni unite nel 2015, in tema di distinzione tra testate giornalistiche telematiche e tutti i nuovi mezzi – informatici e telematici – di manifestazione del pensiero (forum, newsletter, newsgroup, blog, mailing list e social network). In particolare, in tale occasione la suprema Corte, nella sua composizione più autorevole, aveva ritenuto il social network Facebook non inquadrabile nel concetto di stampa definendolo un servizio di rete sociale che trasmette notizie e informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo e, pertanto, ben distinto dall'area dell'informazione di tipo professionale veicolata dalle testate giornalistiche online.

Partendo dall'esame sulla natura della comunicazione, la suprema Corte ha ritenuto le testate giornalistiche online come assimilabili alla stampa cartacea in quanto caratterizzate dai medesimi requisiti, ossia a) la struttura, che deve essere costituita dalla “testata”, che è l'elemento che lo identifica, e dalla periodicità regolare delle pubblicazioni (quotidiano, settimanale, mensile) nonché b) la finalità, che deve consistere nella raccolta, nel commento e nell'analisi critica di notizie legate all'attualità (cronaca, economia, costume, politica) e dirette al pubblico, perché ne abbia conoscenza e ne assuma consapevolezza nella libera formazione della propria opinione.

Con la seconda sentenza qui in esame (Cass. pen., 8482/2017), la Corte di cassazione ha ribadito tali considerazioni, contestando alla difesa ricorrente di aver impropriamente considerato sovrapponibili le due aggravanti indicate al comma 3 dell'art. 595 c.p., ossia il mezzo della stampa e altro mezzo di pubblicità. La seconda, infatti, – sostiene la Corte – appare non succedanea alla prima, bensì fattispecie più ampia del concetto di stampa in quanto consultabile da una platea ben più ampia di soggetti o addirittura indeterminata. Dunque, l'offesa procurata utilizzando strumenti online, quali blog, social network e altri siti internet ben potranno rientrare nella categoria dei mezzi di pubblicità e non risiedere, invece, all'interno del perimetro dell'ambito di stampa.

Osservazioni

Le pronunce della suprema Corte delineano un quadro che sebbene a prima vista possa sembrare preciso e compiuto nel senso del rispetto dei principi di determinatezza e tassatività, cela invero un non perfetto allineamento tra la teoria giuridica e la realtà dell'utilizzo degli strumenti informatici.

Da una parte, infatti, la suprema Corte fornisce una precisa distinzione tra la comunicazione effettuata mediante un giornale online e quella operata mediante i nuovi mezzi tecnologici di comunicazione (blog, social network, forum, etc.) fondata sul diverso strumento di veicolazione dell'informazione.

Ebbene, tale discrimine – inaugurato dalle citate Sezioni Unite e recepito dalle sentenze in commento – non appare tuttavia trovare un solido fondamento giuridico-normativo nel momento in cui si evidenzia che, fino ad oggi, il Legislatore non ha mai provveduto a definire compiutamente una nozione di informazione professionale né a livello ordinario né a livello costituzionale.

Dall'altro lato, l'esperienza ed il continuo progresso tecnico-informatico ci ha insegnato che la l'informazione c.d. professionale ben può essere veicolata mediante i nuovi strumenti di comunicazione, come i social network e, paradossalmente, proprio dalle stesse testate giornalistiche che comunicano per carta stampata o mediante siti online propri.

A questo proposito basti pensare ad esempio ai c.d. Instant Articles, la nuova feature dell'app di Facebook che consente la pubblicazione di singoli contributi dalle tesate direttamente su Facebook, permettendo agli utenti di collegarsi ad essi e di leggerli senza disconnettersi dal social network ma semplicemente cliccando sopra la notizia in evidenza nella propria timeline, oppure alle Accelerated Mobile Pages di Google, delle speciali pagine telematiche che si caricano più velocemente da mobile, in modo simile ai predetti Instant Articles.

Secondo l'orientamento espresso dalle Sezioni unite – ripreso nelle conclusioni della sentenza 4873/2016 – in forza di un'interpretazione (asseritamente) evolutiva della nozione di stampa, le disposizioni previste per la carta stampata si applicano anche alla rete (nella specie trattasi delle guarentigie costituzionali in tema di sequestro stabilite dall'art. 21, comma 3, Cost.), purché si tratti di contenuti a carattere giornalistico professionale, al chiaro fine di evitare un contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della nostra Costituzione.

Per tale ragione, la giurisprudenza di legittimità successiva ha ritenuto applicabile ai giornali online la disciplina penale prevista per la stampa: dalla responsabilità per omesso controllo del direttore responsabile di un periodico ex art. 57 c.p., all'aggravante prevista dall'art. 13 della legge 47 del 1948 (c.d. legge sulla stampa), sino al reato di stampa clandestina di cui all'art. 16 della medesima legge, in caso di omessa registrazione presso la cancelleria del tribunale della testata telematica (cfr. VIMERCARTI, La Cassazione conferma l'inestensibilità ai blog delle garanzie costituzionali previste per gli stampati in tema di sequestro, in Diritto Penale Contemporaneo).

Rispetto a siffatta operazione esegetica svolta dai giudici di legittimità, il confine tra ricostruzione analogica e interpretazione estensiva-evolutiva è parso molto sottile, se non evanescente.

Non sarebbe fuori da ogni logica, infatti, sostenere che la suprema Corte possa aver ecceduto i suoi poteri, avuto in particolare riguardo al fatto che l'oggetto della suddetta operazione ermeneutica attiene a norme incriminatrici, quindi sfavorevoli, e pertanto si tratterebbe di un'analogia legis in malam partem, non ammessa – come noto – nel nostro ordinamento penale.

Secondo la dottrina dominante, stante la ratio del divieto dell'analogia, da ravvisarsi nell'esigenza di tutela della libertà individuale delle persone, è ammissibile unicamente l'analogia in bonam partem, ossia relativa a norme di favore, salvo verificare se la norma, della quale si richiede l'applicazione analogica, non abbia carattere eccezionale, ricadendo, in tal caso e per altro verso, nel divieto di cui all'art. 14 delle Preleggi.

Sotto diverso profilo, accogliendo pienamente quanto statuito dalla suprema Corte si perviene ad un vero e proprio paradosso non solo nel caso concreto affrontato dalle Sezioni unite in tema di sequestro preventivo, ma anche qualora concorra la circostanza aggravante dell'attribuzione di un fatto determinato ai sensi dell'art. 595, comma 2,c.p. (come peraltro avvenuto nelle due pronunce qui in commento) in quanto – in entrambe le ipotesi – si giunge ad applicare un regime penalistico differente e più grave a chi pubblica un articolo dal contenuto diffamatorio su una testata cartacea e/o telematica rispetto a chi invece “carica” lo stesso identico scritto su Facebook o su altro social network.

Se a concorrere sono l'aggravante dell'attribuzione di un fatto determinato e quella del mezzo della stampa, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni stabilita dall'art. 13 l. 47/1948; qualora, invece, la medesima circostanza concorra con la veicolazione del messaggio diffamatorio con l'utilizzo di qualsiasi altro mezzo di pubblicità si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave, ma il giudice può aumentarla a norma dell'art. 63 commi 3 e 4 c.p. (cfr. PEZZELLA, La diffamazione, UTET Giuridica, 2016, pp. 80 e 81).

In che modo dunque affrontare un caso riguardante articoli (o commenti) diffamatori pubblicati sulle pagine dei social network create appositamente dalle testate giornalistiche stesse?

La suprema Corte propone una distinzione fondata sul veicolo della comunicazione (testata online da una parte, social network dall'altra), quando sarebbe stato forse più appropriato imperniare il discrimine sulla qualità e la natura (professionale o meno) della notizia e della sua la fonte, piuttosto che sullo strumento informatico utilizzato per la sua diffusione, in quanto il giudice di legittimità sembra fondare il suo ragionamento sul postulato che l'informazione veicolata attraverso i social network non possa essere qualificata o professionale.

La Corte nell'intento di dare attuazione al principio costituzionale di uguaglianza, sembra giungere paradossalmente a disciplinare diversamente situazioni di fatto uguali. Peraltro, la veicolazione della notizia o della comunicazione attraverso i nuovi strumenti di comunicazione appare perfino più performante e diffusiva rispetto a quella giornalistico-redazionale online. Ne è prova la recente proliferazione di “pagine” di testate giornalistiche anche autorevoli all'interno di social network.

Il noto social network Facebook, ad esempio,attualmente vanta un bacino di utenza immenso e presenta un sistema in costante evoluzione, capace di trasmettere una vastissima gamma di notizie, anche “qualificate” con una rapidità e un'immediatezza sempre più incisive, le quali vengono consultate quotidianamente da un numero di visitatori di gran lunga maggiore rispetto ai siti ufficiali dei quotidiani e che non necessitano di “recarsi” sul sito online della testata giornalistica, “subendo” la notizia stessa solo con l'accesso al canale social.

In altre parole, gli utenti di Facebook o di altri social network percepiscono le notizie de visu in quanto compaiono automaticamente sulla rispettiva bacheca non appena “caricate” online dai gestori delle pagine. A ciò si aggiunga la circostanza che l'uso delle app relative ai social è assolutamente gratuito e permette di accedere con facilità ad ogni contenuto proposto nella sua interezza, diversamente da quanto avviene per le app dei singoli quotidiani, che spesso sono a pagamento e consentono una visualizzazione solo parziale delle notizie. Fuori da interpretazioni schematiche di tipo ermeneutico, non appare dunque giustificata l'attuale disparità di trattamento tra un articolo dal contenuto diffamatorio pubblicato, ad esempio, su LaRepubblica.it ed il medesimo articolo “postato” sulla corrispondente pagina Facebook “La Repubblica”. Tale considerazione, come si vedrà nel proseguo, non può essere circoscritta all'articolo stesso in quanto analogo ragionamento può essere riproposto nel caso di inserimento di un commento all'interno di un sito online di una testata giornalistica, piuttosto che all'interno della corrispondente pagina social.

Quanto ai profili di responsabilità penale personale che emerge dall'oggetto della trattazione, non può tralasciarsi – soprattutto con riferimento al caso di cui alla sent. 8482/2017) – l'ulteriore ed interessante tematica relativa al rapporto tra la pubblicazione dell'articolo sulla testata giornalistica e il ruolo del direttore della testata stessa.

In proposito, occorre, innanzitutto, premettere che in caso di pubblicazione di articoli di giornale a contenuto lesivo della reputazione altrui, il primo soggetto a rispondere del reato di cui all'art. 595, commi 2 e 3,C.p. è, come noto, il giornalista autore dello scritto, con il quale inevitabilmente concorre il direttore della testata che recepisce la pubblicazione.

Con riguardo alla posizione di quest'ultimo va detto che, contrariamente all'inizio del fenomeno di affiancamento alla carta stampata delle corrispondenti pagine web e della relativa app con la versione digitale, ad oggi molti siti internet di quotidiani disponibili anche in edicola hanno un direttore responsabile diverso rispetto a quello designato per questi ultimi.

Infatti, mentre un tempo i siti web riproponevano notizie che andavano anche in stampa e per le quali vi era un unico direttore responsabile in quanto le notizie diffuse in rete erano comunque riportate anche sulla carta stampata, oggi molte notizie trovano spazio esclusivamente online. Da qui la duplicazione delle figure dirigenziali (cfr. PEZZELLA, La diffamazione, UTET Giuridica, 2016, p. 603).

Anche su questo tema, il Legislatore sembra aver peccato di incompletezza, non essendo mai intervenuto ad adattare la disciplina esistente all'”era di internet” e alle sue conseguenze. Dunque, la giurisprudenza di legittimità, trovandosi del tutto priva di appigli per orientarsi sul punto, ha operato in senso evolutivo adeguandosi alle novità proposte dalla realtà dei fatti e giungendo ad escludere la responsabilità del direttore del giornale online sulla base della non assimilabilità del prodotto di internet a quello stampato, da cui deriverebbe l'inapplicabilità dell'art. 57 c.p. in caso di omissione di controllo sui contenuti pubblicati.

Stante, infatti, l'evidente inerzia del legislatore in proposito, la suprema Corte non ha potuto che prendere le mosse dal dato normativo esistente – seppur scarso –, ossia l'art. 1 della l. 47/1948, rilevando, in primo luogo che la telematica è carente dell'elemento indefettibile proprio della stampa, ossia la destinazione alla pubblicazione, di cui alla norma citata e che – come detto sopra – nel nostro sistema penale vige il principio di tassatività, secondo cui è vietata l'analogia in malam partem. Secondariamente, la Suprema Corte ha sottolineato l'impossibilità per il direttore della testata online di impedire la pubblicazione di contenuti diffamatori “postati” direttamente dall'utenza.

Non sono mancati negli anni passati i casi in cui i giudici hanno cercato di equiparare al direttore giornalistico i gestori e direttori di un blog o di forum o di altri siti internet diversi, formulando imputazioni a carico di tali soggetti ai sensi dell'art. 57 C.p. o degli artt. 593, commi 1 e 3, e art. 40 C.p. (si veda, ad esempio, la nota vicenda Google/ViviDown, conclusasi con l'assoluzione degli host provider per insussistenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento diffamatorio: la vicenda ha ad oggetto un fatto accaduto nel 2006, quando su Google Video veniva pubblicato un video che mostrava alcuni ragazzini in un edificio scolastico umiliare un compagno affetto dalla sindrome di down e insultare l'associazione Vivi Down. Il video in questione veniva rimosso due giorni dopo, a seguito di numerose segnalazione di utenti e dopo la richiesta della polizia postale. Nei confronti dei manager di Google venivano rivolte le accuse di non aver impedito il delitto di diffamazione verso il minore e l'associazione e di aver trattato illecitamente dati personali riguardanti lo stato di salute del ragazzo), che tuttavia non hanno resistito ad un vaglio di legittimità.

Come sempre accade, la suprema Corte è portata ad “estendere” il proprio raggio d'azione nel momento in cui si riscontra, come in questo caso, una evidente lacuna legislativa.

In proposito, merita di essere accennata, da ultimo, la conseguente ed inevitabile problematica relativa ai commenti (spesso penalmente censurabili) postati dai lettori alle notizie direttamente sui siti di quotidiani, i quali spesso consentono tali interventi senza anteporre un sistema di log in o di screening, ed anzi, permettendo, il più delle volte, interventi da parte di soggetti identificati semplicemente da soprannomi o nomi di fantasia.

Accade sempre più spesso, infatti, che i siti o i social network riportino contenuti di carattere ingiurioso, diffamatorio, istigatorio, calunnioso o minatorio all'interno dei commenti dei “fruitori” anziché nel testo delle notizie giornalistiche.

A questo proposito, sebbene dal punto di vista strettamente giuridico la Suprema Corte abbia limitato ai soli contenuti redazionali le disposizioni normative vigenti per la stampa (cfr. Cass. pen., Sez. unite, n. 31022/2015; conf. Cass. pen., Sez. III,n. 39354/2007 e Cass. pen., Sez. V, 11895/2013; contr. Cass. pen. Sez. V, n. 10594/2013), esentando il direttore del giornale online dalla responsabilità ex art. 57 C.p., occorre valutare idonei presidi al fine di evitare simili episodi ed un qualunque coinvolgimento del giornalista o del direttore responsabile, introducendo – attraverso l'emanazione di una normativa ad hoc o in via interpretativa – un obbligo di rimozione degli scritti diffamatori (su richiesta di parte o in via autonoma), particolarmente efficiente ed efficace nonché incisivo a seconda dell'evidenza e della gravità dell'offesa all'altrui reputazione.

La suprema Corte, consolidando l'orientamento successivo alla pronuncia delle Sezioni unite del 2015, qualifica la comunicazione diffamatoria effettuata mediante internet non attribuendole il carattere di stampa bensì quello di altro mezzo di pubblicità.

L'indirizzo interpretativo seguito dalla Suprema Corte – quasi obbligato vista l'inerzia legislativa sul tema delle comunicazioni online – non appare tuttavia conforme alla realtà digitale che vede con sempre maggiore frequenza la presenza di notizie di carattere professionale e giornalistico all'interno dei nuovi strumenti di comunicazione, come i social network.

Questa incoerenza, difficilmente rimediabile dall'operatore giuridico per via del divieto di interpretazione analogica, suggerisce la necessità di un intervento legislativo in materia al fine di regolamentare un quadro chiaro sulle responsabilità in caso di propalazione online di contributi penalmente censurabili.