Esclusione della ricorribilità in Cassazione dell’ordinanza che vieta la contestazione di un reato concorrente
27 Luglio 2015
Massima
Non è impugnabile per cassazione, in quanto non è abnorme, l'ordinanza con la quale il giudice dell'udienza preliminare nega al pubblico ministero, nel corso della stessa udienza, la possibilità di contestare – a norma degli artt. 423, comma 1, e 12, comma 1, lett.b),c.p.p. – nuovi fatti di reato legati col vincolo della continuazione a quelli già contestati, in quanto tale provvedimento – per quanto possa essere errato in ordine alla qualificazione giuridica della nuova contestazione – non priva il pubblico ministero della possibilità di esercitare separatamente l'azione penale e rientra nell'ambito delle prerogative del giudice dell'udienza preliminare, che ha il dovere di controllare se la contestazione del P.M. non riguardi un “fatto nuovo” e non sia impedita dalla negazione del consenso da parte dell'imputato. Il caso
Nel corso di una udienza preliminare emerge un fatto nuovo ma legato a quello contestato dal vincolo della continuazione; nessun dubbio circa la sussistenza del medesimo disegno criminoso dal momento che emergono nuove truffe nel medesimo arco temporale nei confronti della stessa persona offesa e commesse dagli stessi imputati. Il pubblico ministero procede, dunque, alla contestazione suppletiva ma il G.U.P. inquadra erroneamente la fattispecie nel secondo comma dell'art. 423 c.p.p. – ovvero fatto nuovo privo di collegamento – e non autorizza la contestazione per mancanza di consenso dell'imputato.
La questione
Le ordinanze endoprocessuali non rientrano tra i provvedimenti avverso i quali – ai sensi dell'art. 606, comma 2, c.p.p. – può essere proposto ricorso per cassazione; tuttavia, nelle ipotesi di inibizione al pubblico ministero della facoltà di modificare o integrare l'imputazione quando si tratti di contestare in via suppletiva il “fatto diverso” (Cass. pen., Sez. VI, 15 ottobre 2010, n. 37577) o una circostanza aggravante (Cass. pen., sez. V, 2 giugno 1999,n. 2673) si profila una abnormità che consente l'impugnazione. I termini della questione possono essere così sintetizzati: nel caso di fatto nuovo emerso nel corso della udienza preliminare l'ordinanza che erroneamente non consente la contestazione deve essere considerata abnorme, come nel caso di fatto diverso o circostanza aggravante, oppure semplicemente errata e quindi non suscettibile di impugnazione? Le soluzioni giuridiche
In forza delle modifiche dell'art. 12, comma 1, lett. b), (avvenute con l'art. 1 del d.l. 20 novembre 1991 n. 367, convertito nella legge 20 gennaio 1992, n. 8) e del loro riflesso sul disposto degli artt. 423 e 517 c.p.p., il pubblico ministero può contestare, senza il consenso dell'imputato e senza l'autorizzazione del giudice, sia nell'udienza preliminare sia nel dibattimento, una condotta materialmente distinta da quella per cui si procede, se eseguita nell'ambito di quel progetto unitario previsto dall'art. 81 c.p. L'interesse della sentenza non riguarda l'evidente errore commesso dal G.U.P. nel negare la continuazione (trattandosi di truffe con stessi soggetti, vittime, modus operandi) ma l'impossibilità del pubblico ministero di poter attivare un strumento di impugnazione che rimedi all'errore. Il pubblico ministero confidava nel ricorso per cassazione richiamando il concetto di abnormità pacificamente riconosciuto per il fatto diverso e la circostanza aggravante; ma la soluzione proposta non tiene conto della mancanza di una eadem ratio, perché nel caso di reato continuato è possibile l'esercizio di una azione penale separata, come nel caso del fatto nuovo; mentre non è possibile il separato esercizio dell'azione penale – con la conseguente stasi insuperabile dell'abnormità – nel caso in cui il fatto sia diverso o emerga una circostanza aggravante perché in queste ipotesi, non mutando il fatto contestato, vi è la preclusione del ne bis in idem sancita dall'art. 649 c.p.p. Ciò comporta che l'errore del G.U.P. non profila una abnormità perché la indebita inibizione dell'azione penale è comunque superabile con un nuovo esercizio dell'azione penale, unico rimedio previsto dal nostro ordinamento alla inibizione della contestazione dovuta all'emergere di un quid novi in udienza preliminare o in dibattimento. Osservazioni
L'abnormità dell'atto processuale, secondo la costante giurisprudenza di legittimità richiamata in sentenza, può presentarsi sotto due forme: l'atto può non essere previsto dal nostro ordinamento oppure – ove previsto – può determinare una indebita regressione o stasi del processo, non altrimenti superabile. Il significato di tale patologia dell'atto, non espressamente prevista dal codice, è di estrema importanza se si pone mente al fatto che essa legittima la possibilità di ricorrere per cassazione anche al di là dei casi tassativamente previsti. Nel presente caso l'ordinanza del G.U.P. sulle nuove contestazioni del pubblico ministero è espressamente prevista dall'art. 423 c.p.p. e, pertanto, non ricorre l'abnormità “in senso strutturale”; più complesso è determinare quando si verificare una stasi del procedimento e la insuperabilità della stessa, ovvero l'abnormità “in senso strutturale”. Tale complessità ha origine dal fatto che la categoria concettuale dell'abnormità non ha una disciplina codicistica organica ma nasce dagli sforzi di dottrina e giurisprudenza per completare in via interpretativa un impianto normativo che, in determinati casi, rischiava di “bloccare” i propri ingranaggi in una empasse inaccettabile che imponeva un rimedio. Solo in quest'ottica si comprende come sia stata riconosciuta l'abnormità dell'ordinanza del G.U.P. che inibisce al pubblico ministero la contestazione della circostanza aggravante: a ben vedere, infatti, nessuna stasi del “processo” si verifica perché l'imputazione può proseguire anche in mancanza di un elemento accidentale; e tuttavia, nella nozione di stasi processuale si fa rientrare la possibilità di contestare correttamente il reato, perché l'imputazione è strettamente collegata al processo e ne segna l'ambito della cognizione. L'abnormità è quindi difficilmente contenibile nelle definizioni giurisprudenziali presentando una flessibilità dogmatica che consente all'interprete di rimediare a errori significativi e non diversamente superabili, anche se non strettamente legati al processo intenso nella accezione più ristretta. Nell'ipotesi di inibizione di un fatto nuovo, tuttavia, l'abnormità non può trovare giustificazione per la facilità dello strumento alternativo di risoluzione dell'empasse: il pubblico ministero potrà esercitare l'azione penale con una apposita iscrizione, soluzione meno immediata e più dispendiosa nei tempi rispetto alla contestazione immediata ma pur sempre una alternativa praticabile che non giustifica il ricorso alla categoria dell'abnormità, extrema ratio nel nostro ordinamento.
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