Le Sezioni unite sul rapporto tra confisca per equivalente ex d.lgs. n. 231/2001, legittimazione del curatore e diritti dei creditori in buona fede
30 Settembre 2015
Massima
Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001. La verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertare la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare. Il caso
La pronuncia in esame giunge all'esito di un articolato iter giudiziale, iniziato con l'ordinanza del Gip di Bologna che aveva disposto il sequestro ai sensi dell'art. 53 del d.lgs. n. 231/2001, finalizzato alla confisca per equivalente ai sensi del comma 2 dell'art. 19 del decreto medesimo, nei confronti di due società i cui soggetti apicali erano indagati, tra gli altri, anche dei reati previsti dagli artt. 2621, 2622 e 2632 c.c. Nelle more dei gravami interposti avverso la misura reale, le società venivano dapprima ammesse al concordato preventivo e, in seguito, dichiarate fallite. Ciò induceva il pubblico ministero a modificare l'imputazione a carico dei rappresentanti delle società, sostituendo le contestazioni relative ai predetti reati societari con la violazione prima dell'art. 236 l. fall. e, in seguito, dell'art. 223 l. fall. Successivamente il Gip accoglieva l'istanza di revoca del sequestro proposta dalle curatele, poiché gli effetti del sequestro medesimo erano garantiti dalla procedura fallimentare; il Gip inoltre demandava agli organi del fallimento l'accertamento della possibile mancanza di buona fede dei creditori. Il tribunale di Bologna, adito quale giudice d'appello di tale ultimo provvedimento, rilevava l'inidoneità della procedura fallimentare ad assorbire la funzione della misura cautelare reale e poneva in evidenza la sub-valenza delle ragioni dei terzi creditori rispetto alle pretese dello Stato, ribadendo, tra l'altro, la natura obbligatoria dei sequestri ex art. 19 d.lgs. n. 231/2001. Avverso tale ordinanza ricorrevano per Cassazione le curatele delle società fallite, richiedendo l'assegnazione dei giudizi alle Sezioni unite a fronte del contrasto di giurisprudenza in ordine alla necessità di procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni della curatela fallimentare e, segnatamente, dei creditori di buona fede e la pretesa punitiva dello Stato, nell'ambito di sequestri per equivalente funzionali alla confisca disposti ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 231/2001. I ricorrenti ancoravano la tesi difensiva all'orientamento delineato da un precedente indirizzo delle Sezioni unite (Cass. Sez. un. 24 maggio 2004, n. 29951, Focarelli) secondo cui il sequestro (e la successiva confisca) non possono prevalere sulle ragioni della procedura fallimentare se non nei casi in cui abbiano ad oggetto beni intrinsecamente pericolosi. Qualora invece i beni oggetto del provvedimento ablativo non abbiamo natura intrinsecamente pericolosa, compete al giudice la valutazione sulla preminenza delle ragioni punitive dello Stato rispetto agli interessi legittimi dei creditori. Le curatele ricorrenti, applicando tali principi al sequestro delineato dall'art. 19, d.lgs. n. 231/2001, deducevano che, pur trattandosi di misura obbligatoria, tale sequestro sia legittimo solo nel caso in cui il giudice abbia effettivamente proceduto al giudizio di comparazione, bilanciandone le ragioni, tra le pretese punitive della confisca e le ragioni dei creditori in buona fede.
La questione
In via preliminare rispetto alla quaestio iuris portante, le Sezioni unite affrontano due tematiche prodromicihe. Anzitutto, se sia ammissibile il sequestro (e la successiva confisca) ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 231/2001 nel caso di reato complesso (di cui l'art. 223 l.fall. è un'ipotesi) i cui elementi costitutivi, cioè, sono composti anche dagli illeciti autonomamente inseriti nel catalogo dei c.d. reati presupposto previsti dal d.lgs. n. 231/2001. In secondo luogo le Sezioni unite affrontano la questione della legittimazione e dell'interesse in concreto del curatore del fallimento a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi dell'art. 19 del d.lgs.n. 231/2001, osservando che tali problematiche sono da risolvere precisando quale sia il rapporto, sotto il profilo normativo, tra la procedura fallimentare ed i provvedimenti di sequestro e confisca adottati ai sensi del d. lgs. n. 231/2001. Infine la sentenza passa alla trattazione del principale tema di diritto: “Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma dell'art. 19, comma 2, d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato e, in quest'ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica dei sequestri di prevenzione di cui al titolo IV del d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. “codice antimafia”). In definitiva, le Sezioni unite si interrogano sui canoni ai quali ancorare il bilanciamento tra la doverosità della confisca e le ragioni del ceto creditorio danneggiato dal fallimento. Le soluzioni giuridiche
All'esito di una motivazione articolata, le Sez. unite stabiliscono i seguenti principi di diritto:
Osservazioni
Le diverse questioni affrontate puntualmente dalle Sezioni unite, con il riferimento a diversi precedenti giurisprudenziali, meritano di essere analizzate nel dettaglio. 1. Sul tema dell'inammissibilità del sequestro ai sensi dell'art. 19 d.lgs. n. 231/2001 per mancanza del reato presupposto (a seguito, come si è detto della modifica dell'imputazione da reato societario a bancarotta impropria), le Sezioni unite ricordano che non è prevista una estensione di carattere generale alle persone giuridiche della responsabilità da reato, coincidente cioè con l'intero abito delle incriminazioni vigenti per le persone fisiche. Al contrario, secondo il disposto dell'art. 2 del d.lgs. n. 231/2001, l'ordinamento prescrive un doppio livello di legalità: è necessario, cioè, che il fatto ascritto agli esponenti dell'ente sia previsto da una legge entrata in vigore prima della commissione dello stesso e che tale reato sia previsto nel tassativo elenco dei reati presupposto, dai quali soltanto può discendere la responsabilità amministrativa dell'ente (in termini, Cass. pen., Sez. III, 7 ottobre 2008, n. 41329, Galipò). Né tale divieto può essere eluso ricorrendo frazionamento del reato complesso: in buona sostanza, nel caso di specie, si era invocata la possibilità di scomporre il delitto di bancarotta societaria, enucleando il reato societario contenuto e da quest'ultimo far derivare la responsabilità ai sensi del d.lgs.n. 231/2001, essendo tale fattispecie inserita nell'elenco dei reati presupposto. Nel rigettare tale tesi, punto la Corte accoglie un precedente orientamento (Cass. pen.,Sez. II, 29 settembre 2009, n. 41488, Rimoldi) che aveva escluso la possibilità di scomporre il reato complesso, al fine di far derivare, da una parte artificialmente separata dalla complessiva condotta posta in essere ed isolatamente considerata, quelle conseguenze sanzionatorie che solo da essa – e non dalla globalità delle condotta illecita – conseguirebbero. Tale operazione si rivelerebbe, in buona sostanza, nell'applicazione di una sanzione ad una fattispecie di reato che non la contempla, con conseguente violazione del principio di legalità che caratterizza anche la responsabilità delle persone giuridiche. Non si perverrebbe a risultati diversi neppure, prosegue la Corte, invocando il principio di autonomia della responsabilità degli enti, prescritto dall'art, 8 del d.lgs. n. 231/2001: tale norma, infatti, non consente la divaricazione tra il delitto contestato alla persona fisica e quello chiamato a fungere da presupposto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. L'art. 8 del d.lgs. n. 231/2001, infatti, si limita a prevedere l'insensibilità del processo contra societatem alla mancata identificazione o alla non imputabilità della persona fisica e all'estinzione del reato presupposto per una causa diversa dall'amnistia.
2. La natura obbligatoria o meno della confisca nel caso di beni di pertinenza della massa fallimentare concerne il vero cuore del contrasto giurisprudenziale che ha richiesto l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, che giungono a comporre il tema analizzando il panorama delle precedenti sentenze, per poi adottare una soluzione sostanzialmente inedita. La Corte ricorda anzitutto il decisum delle Sezioni unite. Focarelli (n. 29951 del 24 maggio 2004), chiamate a pronunciarsi sulla liceità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di beni provento di attività illecita dell'indagato e di pertinenza dell'impresa dichiarata fallita: la sentenza escluse la radicale insensibilità del sequestro alla procedura concorsuale, affidando al potere discrezionale del giudice la conciliazione dei contrapposti interessi, cioè di quelli propri della tutela penale (impedire che i proventi illeciti possano giovare all'indagato) e di quelli tipici della procedura concorsuale (tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare). In altri termini: in assenza di disposizioni di legge che regolano esplicitamente la materia, qualora il giudice motivi sulla prevalenza delle ragioni di confisca rispetto a quelle dei creditori, il provvedimento di gravame è ammissibile (tra l'altro, sul punto, la Corte osservava che in linea astratta lo spossessamento del bene in favore della procedura concorsuale potrebbe assorbire la funzione del sequestro penale, che è quella di privare il reo del possesso del prodotto o del profitto del reato, ovvero ancora delle cose che sono servite a commetterlo. È tuttavia accaduto che le Sezioni unite Focarelli innescassero, loro malgrado, un ulteriore contrasto nella giurisprudenza di legittimità. Tenendo a mente che tale decisione aveva avuto ad oggetto un'ipotesi di confisca facoltativa, si è creata in seguito una frattura tra chi ha ritenuto che la sentenza Focarelli avesse inteso legare il principio della insensibilità al fallimento della confisca, facoltativa o obbligatoria, o avessero tenuto conto della natura del bene che ne forma oggetto, intrinsecamente pericolosa o meno (natura della confisca). Sul tema, le SS.UU. in commento ripercorrono l'elaborato panorama di decisioni che si è stratificato. Quanto al primo orientamento, la Corte richiama, tra le altre, due sentenze che, analizzando il tema della confisca per equivalente disposta ai sensi dell'art. 19 d.lgs. n. 231/2001, avevano identificato il fondamento del bilanciamento di cui si è detto nel carattere non intrinsecamente pericoloso delle cose sottoposte a confisca (Cass. Sez. V, 8.7.2008, n. 33425 Fazzalari) ovvero nel disposto normativo di cui all'art. 19 d. lgs. n. 231/2001, laddove fa salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede, tra cui devono necessariamente essere compresi i creditori insinuati ed il curatore che li rappresenta (Cass. pen., Sez. V, 9 ottobre 2013, n. 48804, Cur. Fall. Infrastrutture e Servizi). In riferimento al secondo, minoritario, orientamento la Corte segnala una decisione in cui, premessa la natura obbligatoria della confisca ex art. 19 d. lgs. n. 231/2001, si è dichiarata l'assoluta insensibilità al fallimento da parte del provvedimento ablativo (Cass. pen., Sez. VI, 10 gennaio 2013, n. 19051, Cur. Fall. Tecno Hospital s.r.l.). La Corte, in tale contesto, opta per una via alternativa, il cui incipit è la rivisitazione critica delle premesse accolte dalla sentenza Focarelli, che puntualizzavano la mancanza di disposizioni legislative in materia e la necessità di contemperare le diverse – e talora contrastanti – esigenze di tutela penale e garanzia dei creditori. Al contrario, osserva la Corte, in materia le disposizioni di legge esistono e sono complete: l'art. 19 d.lgs. n. 231/2001 consente invero una precisa ricostruzione dell'istituto del sequestro/confisca, nonché la soluzione dei rapporti del vincolo reale con la procedura fallimentare. Il sequestro ex art. 19 d.lgs. n. 231/2001 è strettamente funzionale alla confisca disciplinata dall'art. 53 del medesimo decreto, che ha natura obbligatoria sia nell'ipotesi prevista dal primo comma dell'art. 19 medesimo, sia nel caso c.d. per equivalente, disciplinato dal comma secondo della norma (per riferimenti in giurisprudenza Cass. pen.,Sez. un., 27 marzo 2008, n. 2665; Cass. pen., Sez. VI, 18 marzo 2009, n. 14973; Cass. pen., Sez. VI, 10 gennaio 2013, n. 19051, cit.; sulla natura della confisca di sanzione principale, obbligatoria ed autonoma si veda, tra le altre, Cass. pen. Sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654, Impregilo). In altre parole: una volta accertato il reato presupposto e stabilita la responsabilità dell'ente, il giudice deve confiscare il prezzo e/o il profitto del reato.
3. Il legislatore, tuttavia, sempre all'art. 19 d.lgs. n. 231/2001, pone limiti importanti alla confisca, ancorché obbligatoria, e, conseguentemente anche al sequestro, laddove fa salvi i diritti del danneggiato ed i diritti acquisiti da terzi in buona fede. La logica della norma, osservano le Sezioni unite, è che gli enti resisi responsabili di illeciti amministrativi derivanti da reato debbano essere perseguiti e puniti con la confisca del provento illecito al fine di ristabilire il turbato equilibrio economico; ciò, tuttavia, non deve avvenire in pregiudizio di terzi titolari di diritti acquisiti in buona fede sui beni oggetto di sequestro e confisca. Ciò premesso, la Corte analizza, ritenendole diverse e non confliggenti, le differenze che esistono tra il vincolo derivante dal sequestro preventivo ai sensi degli artt. 19 e 53 d.lgs. n. 231/2001 e quello imposto dalla procedura fallimentare: mentre il primo, in caso di condanna dell'ente, è volto all'esecuzione dell'azione punitiva dello Stato, il secondo, spogliando il fallito o la società fallita dei beni residui, punta a tutelare il ceto creditorio. Entrambe le finalità, conclude la Corte, hanno rilievo pubblicistico meritevole di tutela, con la conseguenza che entrambi i vincoli non possono essere elusi. Ne deriva che, se correttamente interpretato l'art. 19 d.lgs. n. 231/2001, si deve ritenere che i due vincoli possono coesistere. Tale principio è peraltro conforme a quanto stabilito dall'art. 27, comma 2 del citato decreto, che garantendo il privilegio ai crediti dello Stato che derivano dagli illeciti amministrativi dell'ente, “non può che riferirsi anche all'azione endo-fallimentare, che costituisce la forma prevalente di fruizione dell'azione esecutiva indirizzata agli imprenditori collettivi” (Cass. Sez. V, 26 settembre 2012, n. 44824, Magiste International s.a.). Al riguardo, osserva la Corte, non è neppure d'ostacolo l'art. 53 comma 1-bis d.lgs. n. 231/2001, secondo cui in caso di sequestro di società, aziende e beni il custode giudiziario ne consente l'utilizzo e la gestione agli organi societari esclusivamente al fine di garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, in quanto il custode giudiziario consentirà al curatore fallimentare l'utilizzo e la gestione dei beni aziendali, in ragione del suo compito di preservazione del patrimonio societario.
4. La sentenza prosegue individuando nel giudice della cognizione penale, che dispone il sequestro, l'autorità competente alla valutazione dei diritti dei creditori acquisiti in buona fede. Tuttavia, quando sia stata disposta la confisca dei beni dell'ente con sentenza definitiva di condanna, il giudice competente a decidere sull'istanza del terzo è il giudice dell'esecuzione penale che ai sensi dell'art. 656 c.p.p. è chiamato a risolvere su istanza delle parti interessate tutte le questioni che attengono all'esecuzione dei provvedimenti giudiziari definitivi (Cass. Sez. II, 12 febbraio 2014, n. 10471, Italfondiario s.p.a.).
5. L'ultimo punto centrale della decisione delle Sezioni unite. risiede nell'individuazione dei criteri per l'accertamento della sussistenza dei requisiti di buona fede e terzietà, che permettono la salvaguardia dei diritti acquisiti da parte di terzi soggetti. Sul tema la Corte sposa orientamenti del tutto stabili, secondo cui “terzo è la persona estranea al reato, ovvero al persona che non solo non abbia partecipato alla commissione del reato, ma che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità” (Cass., Sez. II, 14 ottobre 1992, n. 11173 Tassinari; si veda anche Corte dost., sent. n. 2 del 1987, che ha escluso la compatibilità con l'art. 27, comma 1, Cost. di norme che prevedono la confisca anche quando le cose risultino di proprietà di chi non sia l'autore del reato “o non ne abbia tratto in alcun modo profitto”). Quanto alla buona fede - requisito soggettivo che integra il dato oggettivo del non aver tratto vantaggio dalla commissione del reato – essa va intesa come “non conoscibilità, con l'uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del predetto rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato” (Cass. Sez. un. 28 aprile 1999, n. 9, Bacherotti; si veda anche Corte cost. n. 229 del 1974; n. 259 del 1976; n. 2 del 1987). Ne consegue, pertanto, che “il concetto di buona fede per il diritto penale è diverso da quello della buona fede civilistica a norma dell'art. 1147 cod. civ., dal momento che anche i profili di colposa inosservanza di doverose regole di cautela escludono che la posizione del soggetto acquirente o che vanti un titolo sui beni da confiscare o già confiscati sia giuridicamente da tutelare”.
6. Sul tema della prova della buona fede, invece, la sentenza prende le distanze dalla giurisprudenza in precedenza condivisa, in particolare dalla citata sentenza a Sezioni unite, Bacherotti, laddove aveva stabilito l'inversione dell'onere probatorio, ponendola tutta a carico del terzo soggetto, sia relativamente alla titolarità dello ius in re aliena, sia relativamente alla mancanza di collegamento del proprio diritto con l'altrui condotta delittuosa o, nell'ipotesi in cui un simile nesso sia configurabile, all'affidamento incolpevole ingenerato da condizioni di scusabilità dell'ignoranza o del difetto di diligenza. Siffatta inversione dell'onere probatorio, osserva la Corte, non trova fondamento in norme giuridiche; ciò che pare ragionevole pretendere è un mero onere di allegazione, a carico del terzo soggetto che voglia far valere un diritto acquisito sul bene, in ordine agli elementi che integrano i requisiti di appartenenza del bene ed estraneità al reato, da cui dipende la limitazione o meno del potere di confisca dello Stato. Tale interpretazione, conclude la Corte, trova giustificazione “nel fatto che la confisca di beni di cui all'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 è disposta perché viene accertato, a seguito di un processo penale, che i beni del provvedimento costituiscono profitto di un illecito amministrativo derivante da reato, cosicchè per vincere tale situazione è l'interessato, che si proclama estraneo al reato, che deve, soddisfacendo l'onere di allegazione, far emergere la regolarità del suo titolo di acquisto e la buona fede soggettiva che lo caratterizzava”.
7. Le curatele ricorrenti avevano dedotto che, nella materia del sequestro previsto dall'art. 19 d.lgs. n. 231/2001, si deve applicare il principio secondo il quale, in analogia con le misure di prevenzione antimafia, il profitto del reato è comunque destinato alla soddisfazione dei creditori e che alla verifica dei crediti provvede in ogni caso il giudice del fallimento e non il giudice penale. Le Sez.un. rigettano la tesi, osservando che, innanzitutto, il sequestro ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 e differente dal procedimento di prevenzione nelle finalità e nelle modalità applicative; in secondo luogo - ed è l'osservazione più rilevante – va ribadito che “non è ravvisabile una vera e propria lacuna normativa colmabile attraverso l'interpretazione analogica in materia sequestro/confisca ex art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 e rapporti di tale istituto con la procedura fallimentare”.
La decisione delle Sezioni unite stabilisce la carenza di legittimazione del curatore fallimentare in relazione al sequestro disposto ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 231/2001, dichiarandone inammissibili i ricorsi, nonostante la riscontrata assenza dei presupposti per l'applicazione del provvedimento ablativo, per contrasto con il principio di stretta legalità correttamente individuato dalla Corte. La sentenza limita i poteri del curatore, osservando che seppure egli sia certamente terzo rispetto al procedimento di sequestro e confisca dei beni già appartenuti alla società fallita, cionondimeno “non può agire in rappresentanza dei creditori, come, invece, parte della giurisprudenza ha frettolosamente stabilito” per opporsi al provvedimento ablativo. Ciò in quanto il creditore (ed il curatore che lo rappresenta) che non abbia ancora ottenuto l'assegnazione del bene a conclusione del procedimento concorsuale non può in alcun modo essere considerato “terzo titolare di un diritto acquisito in buona fede” in quanto prima di tale momento il creditore vanta una mera pretesa, ma non certo la titolarità di un diritto reale su un bene. La sentenza lascia qualche margine di incertezza, anzitutto alla luce del fatto che uno dei punti più interessanti stabiliti dalla Corte è proprio la possibile coesistenza del vincolo imposto dalla confisca con quello richiesto dalla procedura fallimentare. La contemporaneità dei vincoli, tra l'altro, mostra il grande pregio di permettere di non dover decidere, in un unico momento, tra imposizione del sequestro/confisca e simultaneo accertamento di tutti i diritti dei creditori in buona fede, consentendo anche al giudice dell'esecuzione la possibilità di valutare successive pretese di restituzione. In secondo luogo, le SS.UU. riaffermano la necessità che il creditore si attivi processualmente - nel giudizio a carico dell'ente - per dar conto sia della legittimità dei suoi diritti sul bene sia della propria buona fede. Tale onere di attivarsi – seppure proposto dalle Sezioni unite nella forma della mera allegazione e non della prova – suscita qualche perplessità per la possibile evanescenza di tale affievolito standard di accertamento del diritto. |