Violazione del divieto di tortura: l'Italia condannata dalla Corte Edu per i fatti della scuola “Diaz- Pertini”
30 Settembre 2015
Massima
Con la sentenza del 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia (ricorso n. 6884/11), la Corte Edu ha condannato l'Italia, all'unanimità, per violazione dell'art. 3 della Cedu (rubricato “Proibizione della tortura”), per i maltrattamenti subiti dal ricorrente ad opera della polizia italiana nel corso della sua irruzione presso il plesso scolastico “Diaz-Pertini”, la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001. I giudici di Strasburgo hanno qualificato tali maltrattamenti come veri e propri atti di tortura ed hanno ritenuto la legislazione penale applicata al caso di specie inadeguata e priva di efficacia deterrente idonea a prevenire in modo efficace la reiterazione di possibili violenze da parte delle forze di polizia. Hanno, inoltre, stabilito, ai sensi dell'art. 46 della Cedu, che lo Stato italiano deve adempiere ai propri obblighi convenzionali, adottando una legislazione penale idonea a sanzionare in modo adeguato i responsabili di atti di tortura o di altri maltrattamenti. Il caso
La vicenda traeva origine dal ricorso presentato da un cittadino italiano (di 62 anni all'epoca dei fatti) gravemente ferito dalle forze di polizia a seguito della loro irruzione all'interno dell'istituto scolastico “Diaz-Pertini”, durante il G8 di Genova. L'irruzione veniva giustificata dalla necessità di procedere a perquisizione per raccogliere elementi di prova contro i c.d. black-block. Nel corso dell'operazione, però, i reparti antisommossa della polizia di Stato facevano un uso sproporzionato della forza, colpendo deliberatamente gli occupanti la scuola (molti dei quali sorpresi nel sonno e, pertanto, inermi). In particolare, il ricorrente veniva brutalmente percosso e subiva numerose lesioni, con danni permanenti. Su tali fatti la Procura della Repubblica apriva un'inchiesta, conclusasi con un processo e la condanna da parte del Tribunale di Genova, con sentenza del 13 novembre 2008, di dodici degli imputati per i delitti di falso, di calunnia semplice ed aggravata, di lesioni personali semplici ed aggravate, nonché di porto abusivo di armi da guerra. Il Tribunale condannava, altresì, gli imputati, in solido con il Ministero dell'Interno, al pagamento del risarcimento danni in favore delle parti civili. In appello, la Corte, con sentenza del 18 maggio 2010, riformava parzialmente la sentenza impugnata. In essa, infatti, si disponeva non doversi procedere per intervenuta prescrizione con riferimento a diversi delitti, ma si confermava in toto la ricostruzione fattuale offerta dal Tribunale di Genova. Di analogo e stringente tenore la sentenza della Corte di Cassazione, del 5 luglio 2012, con la quale la Suprema Corte confermava essenzialmente la sentenza impugnata, dichiarando, tuttavia, prescritto il delitto di lesioni aggravate per il quale molti imputati erano stati condannati in primo e in secondo grado. Al riguardo, in particolare, la Cassazione rilevava che, in assenza di un reato di tortura ad hoc nell'ordinamento giuridico italiano, le violenze poste in essere dagli agenti erano state perseguite come delitti di lesioni personali in relazione alle quali, in applicazione dell'art. 157 c.p., era intervenuta la prescrizione nel corso del procedimento. La questione
Invocando l'art. 3 della Cedu, il ricorrente lamentava di essere stato vittima di violenze e sevizie, da parte della polizia italiana, qualificabili come tortura. Invocando, poi, gli artt. 3, 6 e 13 della Cedu, il ricorrente sosteneva che i responsabili di questi atti non erano stati sanzionati adeguatamente a livello nazionale, soprattutto in ragione della prescrizione della maggior parte dei delitti loro ascritti, intervenuta nel corso del procedimento penale, nonché dell'indulto, di cui avrebbero beneficiato alcuni condannati, e dell'assenza di sanzioni disciplinari nei confronti di queste stesse persone.
Le questioni preliminari In via preliminare il Governo italiano richiedeva la dichiarazione d'inammissibilità del ricorso ex art. 35 Cedu, sulla base di un duplice presupposto. Il ricorrente, infatti, da un lato, non rivestiva la qualità di vittima, essendo stato risarcito dei danni in sede penale e beneficiando anche di una somma liquidata a titolo di provvisionale. Per di più, la dichiarazione di prescrizione di alcuni dei reati nell'ambito del procedimento penale in questione non avrebbe privato il ricorrente della possibilità di intentare successivamente un'azione civile, allo scopo di ottenere il pagamento complessivo del risarcimento per il danno subito. Dall'altro, il ricorrente non aveva esaurito le vie di ricorso interne prima di adire il giudice europeo, in quanto il ricorso davanti alla Corte Edu veniva presentato dopo il deposito della sentenza d'appello, ma prima del deposito di quella della Cassazione. Il ricorrente, dal canto suo, in relazione alla prima questione, riteneva che l'avvenuto risarcimento del danno non fosse sufficiente ai fini di escluderne la qualità di vittima di una violazione dell'art. 3 Cedu. Ciò in quanto, in caso di violazione di tale norma, risulta indispensabile, al fine di garantire una adeguata riparazione a livello nazionale e fare perdere in tal modo all'interessato la qualità di vittima, identificare i responsabili e infliggere loro delle sanzioni proporzionate alla gravità dei maltrattamenti perpetrati, cosa non avvenuta nel caso di specie. Pertanto, riteneva che l'argomentazione del Governo, che gli rimproverava di non avere intentato in seguito un procedimento civile, per ottenere il ristoro complessivo del danno subito, non poteva essere accolta. In relazione alla seconda questione, replicava che l'obbligo di esaurire le vie di ricorso interne, ai sensi dell'art. 35 della Cedu, si applica solo quando esistano, a livello nazionale, dei ricorsi che permettano di accertare la violazione della Convenzione in questione e di offrire alla vittima una riparazione adeguata. Nel caso di specie, però, le violenze e i maltrattamenti che sarebbero stati perpetrati dalla polizia durante l'irruzione nella scuola “Diaz-Pertini”, e di cui sarebbe stato vittima il ricorrente, non erano mai stati davvero contestati nell'ambito del procedimento penale, senza adeguata punizione dei responsabili. In relazione, poi, al carattere presumibilmente prematuro del ricorso, il ricorrente indicava che già la sentenza d'appello aveva dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione della maggior parte dei delitti contestati e che, per i delitti in relazione ai quali la prescrizione non era all'epoca ancora maturata, era stato applicato l'indulto. Dunque, il procedimento penale nazionale avrebbe dovuto essere considerato non effettivo, senza la necessità di attendere la pronuncia della Cassazione al fine di presentare un ricorso in sede europea. La Corte Edu, decidendo sulla questione pregiudiziale unitamente al merito, disattende l'eccezione governativa facendo propri, da un lato, gli argomenti addotti dal ricorrente in ordine alla titolarità della qualità di vittima e all'effettività del procedimento penale nazionale a fronte della gravità dei fatti contestati; dall'altro, ricostruendo il presupposto di ammissibilità del ricorso ex art. 35, comma 1, Cedu in chiave evolutiva. Dal primo punto di vista, i giudici di Strasburgo, infatti, riconoscono in capo al ricorrente la qualità di vittima sul presupposto che l'avvenuto risarcimento del danno non sia sufficiente a porre rimedio ad una violazione dell'art. 3 Cedu. In effetti, se la reazione dell'ordinamento nazionale a trattamenti inumani deliberatamente inflitti da pubblici ufficiali si limitasse al riconoscimento del risarcimento del danno, le violazioni dell'art. 3 Cedu resterebbero sostanzialmente impunite e il divieto assoluto di praticare la tortura sarebbe sensibilmente depotenziato (F. Cassiba, Violato il divieto di tortura: condannata l'Italia per i fatti della scuola “Diaz-Pertini”,in www.penalecontemporaneo.it, 2015). Dal secondo punto di vista, i giudici di Strasburgo sottolineano come la condizione dell'avvenuto esperimento delle vie di ricorso interne debba essere valutata tenendo conto del contesto, alla luce dei meccanismi di tutela dei diritti fondamentali che le parti contraenti sono tenute ad attivare. Così, l'art. 35, comma 1, Cedu deve essere inteso con una certa flessibilità; inoltre, la verifica circa l'esperimento delle vie di ricorso interne non riveste natura automatica, né il presupposto ha carattere assoluto; per controllarne il rispetto, bisogna considerare le circostanze della causa. Ciò significa, in particolare, che la Corte deve tenere conto del contesto giuridico e politico nel quale si inseriscono i ricorsi, nonché della situazione personale del ricorrente Le soluzioni giuridiche
Il ricorrente lamentava, anzitutto, che le percosse subite, nel corso dell'irruzione della polizia nel plesso “Diaz-Pertini”, integravano una palese violazione del divieto di tortura, ex art. 3 Cedu. Lo stesso affermava che in quell'occasione era stato insultato, preso a calci e manganellate, riportando ferite per le quali era stato necessario un ricovero ed un'operazione all'ulna destra, e da cui era derivata una invalidità permanente. Il ricorrente aggiungeva che, nel momento dell'irruzione della polizia, egli aveva, come molti altri occupanti, alzato le mani in aria in segno di sottomissione, ma che ciò non aveva impedito agli agenti di polizia, di picchiare le persone presenti sui luoghi. Dal canto suo, il Governo italiano se, da un lato, ammetteva che si trattava di atti “molto gravi … commessi da agenti di polizia, costitutivi di vari reati”; dall'altro, considerava gli stessi non rientranti nell'ambito di una prassi diffusa della polizia italiana. Secondo il Governo, in particolare, tali fatti costituivano un episodio infelice ed eccezionale, che avrebbe dovuto essere visto nel contesto di estrema tensione del G8 di Genova e dell'esigenza di tutela dell'ordine pubblico derivante dalla presenza di migliaia di manifestanti provenienti da tutta l'Europa. Per la Corte europea, però, il ricorso è fondato e le argomentazioni fornite dal Governo non meritano accoglimento. In particolare, la Corte rammenta che, come risulta dalla sua giurisprudenza ben consolidata, in caso di dedotte violazioni dell'art. 3 della Cedu essa deve, per valutare le prove, procedere ad un esame particolarmente approfondito, e quando sono stati condotti dei procedimenti a livello nazionale non deve sostituire la propria versione dei fatti a quella dei giudici nazionali, i quali hanno il compito di accertare i fatti sulla base delle prove da essi raccolte. Nella sentenza i giudici di Strasburgo rammentano, quindi, i tradizionali criteri in forza dei quali si è in presenza di una condotta di tortura, riprendono le ricostruzioni fattuali elaborate dai giudici nazionali e sottolineano come, in occasione dell'irruzione delle forze di polizia all'interno del plesso scolastico, gli agenti abbiano agito con finalità “punitiva, vendicativa e diretta all'umiliazione ed alla sofferenza fisica e mentale delle vittime” (come già chiarito dalla Corte di Cassazione) e che la loro condotta può definirsi “tortura”, ai sensi dell'art. 1 della Convenzione contro la tortura e le altre pene e trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Per la Corte europea, inoltre, le percosse sono state inflitte al ricorrente “in modo totalmente gratuito”, tenuto anche conto della mancanza di un nesso di causalità fra il comportamento di quest'ultimo e l'uso della forza da parte della polizia nei momenti immediatamente precedenti l'arresto. Né si può giustificare l'operato delle forze armate, in quanto nella condotta degli agenti non può sicuramente ravvisarsi uno strumento proporzionato al raggiungimento degli scopi di ordine pubblico cui miravano gli operanti. Depongono in tal senso, peraltro, non solo la finalità punitiva dell'irruzione nel plesso scolastico, ma anche i tentativi delle autorità pubbliche nazionali di giustificare, a posteriori, la perquisizione locale e gli arresti di coloro che si trovavano nella scuola, anche attraverso la costruzione di prove false. Ne consegue che la polizia italiana ha contravvenuto all'obbligo negativo, discendente dall'art. 3 della Cedu, di evitare comportamenti lesivi del diritto all'integrità personale. Il ricorrente lamentava, inoltre, la violazione del divieto di tortura anche sul versante processuale. In primo luogo, il lungo e complesso procedimento penale nazionale relativo ai fatti in esame non era stato effettivo, in quanto terminato con la dichiarazione di prescrizione per numerosi delitti e con pene irrogate ai responsabili ridotte in forza dell'indulto. In secondo luogo, lo Stato italiano aveva contravvenuto all'obbligo di dotarsi di strumenti giuridici per reprimere in modo davvero efficace le violazioni al divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti sancito dall'art. 3 Cedu e, in particolare, quello di introdurre una puntuale fattispecie incriminatrice. Dal canto suo, il Governo replicava di avere rispettato l'obbligo positivo, nascente dall'art. 3 Cedu, di condurre un'indagine indipendente e completa sui fatti in parola e di avere impiegato tutti gli strumenti per giungere alla condanna dei responsabili, irrogando una pena proporzionata ai delitti commessi e risarcendo le vittime. Inoltre, secondo il Governo, l'ordinamento penale interno risultava adeguato allo scopo di condannare gli autori per i reati a loro ascritti. Per la Corte europea, ancora una volta, le doglianze del ricorrente, anche sul versante procedurale, risultano fondate. Ciò in quanto, il combinato disposto degli artt. 1 e 3 Cedu esige che, quando una pubblica autorità sia accusata di avere posto in essere un trattamento contrario all'art. 3 della Convenzione, lo Stato ha il dovere di compiere un'indagine ufficiale ed effettiva idonea a condurre all'identificazione e alla punizione dei responsabili. Le pene e le sanzioni disciplinari, così come il sistema giudiziario, devono, poi, possedere un “effetto dissuasivo”, strumentale alla prevenzione di condotte rilevanti ex art. 3 Cedu e le sanzioni penali, per tali fatti, devono essere coerenti con gli scopi di prevenzione. Ancora, in tema di divieto di trattamenti contrari all'art. 3 Cedu inflitti da funzionari pubblici, “l'azione penale non deve patire gli effetti della prescrizione”, né “sono tollerabili provvedimenti di amnistia e grazia”; analoghe esigenze di effettività devono, poi, valere in sede esecutiva. Infine, è essenziale che la vittima possa partecipare in modo effettivo al procedimento penale, anche in vista del risarcimento del danno. Alla luce di tale inquadramento concettuale, la Corte europea ravvisa una pluralità di violazioni agli obblighi positivi incombenti sullo Stato italiano al fine di assicurare effettività ai valori tutelati dell'art. 3 della Cedu. In primo luogo, le autorità di polizia non hanno collaborato all'identificazione degli autori delle violenze e per alcuni responsabili gli organi giudiziari non sono stati neppure messi in condizione di procedere all'identificazione, ciò ha condotto alla loro impunità. In secondo luogo, tenuto conto degli effetti della prescrizione e dell'indulto, nessun imputato è stato definitivamente condannato con specifico riguardo alle condotte violente tenute in occasione dell'irruzione nel plesso scolastico “Diaz-Pertini”. Dunque, il procedimento penale nazionale non è stato effettivo. Ciò, tuttavia, “non configura il risultato di condotte addebitabili all'ufficio del pubblico ministero o agli organi giurisdizionali”, in quanto la Procura della Repubblica di Genova ha svolto con diligenza un'indagine preliminare molto complessa, in condizioni difficili, derivanti anche dalla mancata collaborazione delle forze di polizia; dal canto loro, gli organi giurisdizionali non hanno sottovalutato la gravità dei fatti. È la legge italiana, piuttosto, a risultare inadeguata in rapporto alla tutela dei diritti fondamentali ex art. 3 della Convenzione (F. Cassiba, Violato il divieto di tortura: condannata l'Italia per i fatti della scuola “Diaz-Pertini”, in www.penalecontemporaneo.it, 2015). Per quanto attiene, infine, alle misure generali per porre rimedio ad un deficit strutturale dell'ordinamento interno, secondo un indirizzo consolidato dei giudici di Strasburgo, spetta, in prima battuta, allo Stato la scelta circa gli strumenti da introdurre nell'ordinamento per adempiere all'obbligo di assicurare un'effettiva tutela ai diritti fondamentali di cui lo Stato stesso è investito come parte contraente, ex art. 46 Cedu. La Corte europea può però indicare allo Stato le misure da adottare per porre rimedio all'individuato deficit strutturale. Osservazioni
A seguito di tale pronuncia il problema che si è spalancato per l'ordinamento italiano è stato quello di come adempiere all'obbligo di dotarsi degli strumenti giuridici idonei a sanzionare in maniera adeguata i responsabili di atti vietati dall'art. 3 della Cedu. In particolare, dopo che, il 5 marzo 2014, il Senato aveva approvato in prima lettura un disegno di legge relativo all'introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano, lo scorso 9 aprile la Camera ha approvato un testo diverso da quello approvato dal Senato, essendo stato lo stesso oggetto di una incisiva rielaborazione durante l'esame da parte della Commissione. È bene precisare, peraltro, che la versione approvata dalla Camera risulta inapplicabile proprio a casi come quello della scuola “Diaz- Pertini”, che la Corte Edu, come ampiamente chiarito, inquadra oggi all'unanimità entro la nozione di tortura, in quanto la norma circoscrive l'ambito dei soggetti passivi alle persone “affidate all'agente, o comunque sottoposte alla sua autorità, vigilanza o custodia”, escludendo così la possibilità di riconoscere la sussistenza del delitto nell'ipotesi di gravi violenze, gratuitamente finalizzate a provocare sofferenza nelle vittime, compiute dalle forze di polizia nell'ambito di operazioni di ordine pubblico prima che le vittime stesse siano tratte in arresto (F. Viganò, La difficile battaglia contro l'impunità dei responsabili di tortura: la sentenza della Corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano, in www.penalecontemporaneo.it, 2015) Attualmente il testo si trova all'esame della Commissione Giustizia del Senato, la quale, lo scorso 9 luglio, ha apportato nuove modifiche, che, se approvate dal Senato, dovranno nuovamente essere votate dalla Camera per l'approvazione definitiva. Il rischio evidente è che il testo continui a rimbalzare fra un ramo e l'altro del Parlamento senza giungere mai all'approvazione definitiva, disattendendo le disposizioni della Corte europea e le esigenze di previsione di una norma ad hoc sulla tortura richiesta da un ordinamento democratico moderno. |