Revocati i pagamenti dell’amministratore che nutriva vane speranze di risollevamento
18 Marzo 2015
Ripianare le perdite e deliberare un aumento di capitale, sono azioni che non escludono la consapevolezza dell'amministratore in ordine al dissesto della società di cui è al comando, rappresentando, semmai, delle “mere speranze” nutrite in ordine alla risoluzione della crisi. Con la conseguenza che i compensi percepiti in quello stesso periodo possono essere legittimamente revocati dalla società poi fallita. È questa la sintesi dell'ordinanza di Cassazione depositata lo scorso 16 marzo, n. 5150, con cui viene respinto il ricorso dell'amministratore e confermata la dichiarazione d'inefficacia dei pagamenti nei suoi confronti ex art. 67, c. 2, L.F.
La difesa dell'amministratore, le perdite non provano l'incapacità della società di adempiere.
Vane le tesi difensive avanzate dall'amministratore, che sosteneva l'estraneità delle perdite di esercizio, emerse dal bilancio, rispetto alla capacità dell'impresa di adempiere le proprie obbligazioni, sottolineando, per contro, le accennate decisioni di ripianare le perdite e di aumentare il capitale (deliberazione quest'ultima, peraltro, mai eseguita dai soci).
La scientia decoctionis, un consigliere delegato non può non sapere della crisi della società.
Come chiarito dalla Cassazione, ciò che rileva ai fini della scientia decoctionis è che i pagamenti siano stati ricevuti in data successiva all'emergere del dissesto, fenomeno che non può “sfuggire” a chi riveste il ruolo di consigliere delegato in seno all'organo di gestione. Ruolo che, ricordano i Supremi Giudici, comporta l'immediata disponibilità di quegli stessi dati economici e contabili analizzati dai commissari straordinari successivamente all'apertura della procedura di amministrazione controllata. |