Inammissibile la questione dell’applicazione retroattiva della confisca per equivalente

07 Luglio 2017

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili, poiché basate su di un erroneo presupposto interpretativo, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 187-sexies D.Lgs. n. 58/1998 e 9, comma 6, L. n. 62/2005, sollevate con riferimento agli artt. 3, 25 comma 2 e 117, comma 1, Cost.
Massima

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili, poiché basate su di un erroneo presupposto interpretativo, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 187-sexies D.Lgs. n. 58/1998 e 9, comma 6, L. n. 62/2005, sollevate con riferimento agli artt. 3, 25 comma 2 e 117, comma 1, Cost., nella parte in cui prevedono che la confisca per equivalente si applica anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 62 del 2005 che le ha depenalizzate.

Il caso

La Corte di Cassazione Civile, con sei ordinanze di analogo tenore (si veda, sul punto: Minniti, Applicazione retroattiva della confisca per equivalente: la parola alla Consulta, in questo portale), ha promosso il giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 187 sexies D.Lgs. n. 58/1998 e 9, comma 6, L. n. 62/2005, in riferimento agli artt. 3, 25 e 117 Cost, quest'ultimo in relazione all'art. 7 della CEDU.

Più in particolare, la prima norma è impugnata nella parte in cui prevede che nei casi di condanna per un illecito amministrativo previsto dal medesimo testo normativo, si applica la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente, ove non sia possibile confiscare il prodotto o il profitto dell'illecito.

L'art. 9, comma 6, L. n. 62/2005 viene, invece, impugnato nella parte in cui prescrive l'applicazione della confisca per equivalente anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge che le ha depenalizzate e che, contestualmente, ha introdotto delle corrispondenti figure di illeciti amministrativi, salvo che il procedimento penale sia già stato definito.

Il giudice rimettente, nell'ordinanza, ha fatto leva sulla natura sostanzialmente afflittiva della confisca, che eccede le finalità di prevenzione poiché si applica a beni non direttamente collegati con l'illecito.

Tale circostanza comporta, a parere della Corte di Cassazione, l'applicazione del principio di irretroattività della sanzione penale di cui all'art. 25, comma 2, Cost. nonché dell'art. 7 della CEDU, ovverosia del principio di legalità della pena in relazione a sanzioni amministrative aventi natura sostanzialmente penale, secondo i canoni Engel, e da ciò ne deriverebbe l'illegittimità dell'art. 9, nella parte in cui espressamente prevede l'applicazione retroattiva della confisca.

A tale riguardo, il Supremo Consesso osserva che il previgente testo normativo comportava la confisca di quanto utilizzato per commettere l'illecito ed il relativo profitto, ma non anche la confisca per equivalente in subordine di quella diretta e che, pertanto, quest'ultima verrebbe ad integrare una vera e propria pena nuova, non prevista al momento di commissione del fatto.

La costituita parte civile Consob chiede che la questione venga dichiarata inammissibile e, comunque, non fondata.

Nel merito, secondo la Consob, la confisca per equivalente prevista dall'art. 187-sexies D.Lgs. n. 58/1998 non avrebbe natura penale, ma quella di misura di sicurezza, perciò soggetta al principio tempus regit actum.

Del resto, la Corte Europea dei diritti dell'uomo, nella nota pronuncia Italia vs Grande Stevens, richiamata dal ricorrente, avrebbe affermato la natura penale delle sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive, ma non anche della confisca, pertanto l'interpretazione estensiva voluta dal ricorrente si risolverebbe in un ampliamento del diritto penale, inconciliabile con il principio costituzionale di legalità.

La parte civile sostiene, infine, che se anche si volesse conferire natura penale alla confisca per equivalente, risulterebbe essere stato violato il divieto di retroattività perché, nel caso di specie, ci si troverebbe al cospetto di un fenomeno di successioni di leggi nel tempo, con conseguente applicazione di quella più favorevole. Ciò in ragione del fatto che l'introduzione, ad opera della legge n. 62 del 2005, della confisca per equivalente, è accompagnata dalla depenalizzazione dei reati, con la conseguenza che il trattamento risultante dall'intervento normativo sarebbe più favorevole, non prevedendo una pena detentiva.

Per queste ragioni, a detta della Consob, sarebbe irrilevante la circostanza che la confisca non fosse prevista al tempo di commissione del fatto, posto che essa, quale legge più favorevole, dovrebbe essere preferita al previgente regime sanzionatorio, maggiormente afflittivo.

Le parti, con proprie memorie di analogo contenuto, hanno ribadito la natura di sanzione penale della confisca e hanno sostenuto l'irrazionalità di un confronto tra i trattamenti sanzionatori previsti prima e dopo la depenalizzazione, perché contrario alla voluntas legis.

Le questioni

La Corte Costituzionale è stata chiamata a vagliare la legittimità costituzionale dell'applicazione retroattiva della confisca per equivalente, introdotta quale sanzione amministrativa accessoria di un illecito amministrativo, previsto – in precedenza – come reato.

Osservazioni

Primo punto nodale che si presenta da sciogliere al Giudice delle Leggi, per la risoluzione del quesito posto, è quello di determinare se la confisca debba essere trattata come una sanzione penale, oppure come una sanzione amministrativa.

Ancora prima di affrontare il già dibattuto tema della natura della confisca, tuttavia, i Giudici riepilogano in estrema sintesi gli interventi normativi che hanno dato luogo alla questione sollevata.

Ebbene, prima della riforma ad opera dell'art. 9 L. n. 62/2005, la condotta consistente nell'abuso di posizioni privilegiate(c.d. insider trading) configurava un delitto punito con la reclusione sino a due anni e la multa sino a seicento milioni di Lire (corrispondenti circa agli attuali trecentomila euro) e la confisca diretta.

Successivamente, con l'intervento del Legislatore del 2005, l'illecito richiamato è stato depenalizzatoe contestualmente è stato introdotto, all'art. 187-bis, un nuovo illecito amministrativo che sanziona la condotta di abuso di informazioni privilegiate, punendola con una sanzione amministrativa pecuniaria che va da ventimila a tre milioni di euro (ulteriormente quintuplicata dalla L. n. 62/2005) e la confisca per equivalente.

Come si vede, dunque, la Legge del 2005 ha introdotto una nuova forma di confisca, nello specifico quella per equivalente, atteso che in precedenza era prevista la sola confisca diretta.

L'art. 9, comma 6 impugnato, ha previsto, poi, che con riferimento agli illeciti depenalizzati e limitatamente ad essi, la confisca per equivalente si applica anche alle violazioni commesse anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 62, salvo che il procedimento sia già stato definito. Diversamente, nessuna retroattività è stata prevista per gli illeciti di abuso di informazioni privilegiate che continuano a costituire reato e per le quali la confisca per equivalente opera solo per le condotte realizzate successivamente alla modifica normativa introdotta.

Fatta questa doverosa premessa, la Consulta affronta finalmente il tema della natura della confisca per equivalente, affermandone la natura di sanzione penale.

Tuttavia, la Corte si limita a dichiarare l'inammissibilità delle questioni sollevate, per difetto di motivazione, con riguardo all'art. 3 Cost., e per mancanza di lesività della disposizione di cui all'art. 187-sexies del D.Lgs. n. 58/1998. La norma da ultimo richiamata, si limita, invero, a prevedere la confisca per equivalente, quando è invece l'art. 9 comma 6, della Legge n. 62 del 2005 a rendere l'istituto applicabile anche agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore e, perciò a prevedere quell'applicazione retroattiva sospettata di illegittimità costituzionale dai ricorrenti, i quali avrebbero, dunque, effettuato un richiamo improprio alla norma.

Se la Consulta condivide, infatti, la premessa argomentativa da cui muove il rimettente, basata sull'affermazione della natura penale della confisca per equivalente – diversamente da quella diretta dei beni che hanno con il reato un rapporto di pertinenzialità, che avrebbe invece natura prettamente preventiva – rileva, tuttavia, come di tale carattere afflittivo e punitivo si è avveduto anche il Legislatore del 2005, poiché quest'ultimo non ha infatti previsto la retroattività della confisca per equivalente rispetto ai fatti che continuano a costituire reato.

Da queste considerazioni la Consulta trae l'irragionevolezza delle obiezioni mosse dalla Consob, che avrebbe erroneamente ritenuto un ampliamento del diritto penale l'attribuzione alla confisca– come visto, correttamente – delle garanzie proprie della pena.

Il Giudice delle Leggi spende alcune considerazioni in ordine a tale questione, argomentando che riconoscere natura sostanzialmente penale ad un dato illecito, o ad una sanzione, significa solo garantire a quel dato illecito o a quella sanzione l'applicazione dei principi che la Costituzione e la Convenzione Europea dei diritti dell'uomo riservano a tale ambito, senza comportare, in alcun modo, un “ampliamento” del diritto penale, questo si certamente non legittimo.

Ugualmente priva di pregio sarebbe la censura sollevata dalla parte civile, riguardante l'omessa presa in considerazione, da parte della Corte di Strasburgo, nella pronuncia Grande Stevens, della confisca per equivalente.

Secondo il Giudice delle Leggi, infatti, il Giudice comune sarebbe tenuto a sviluppare i principi espressi dalla giurisprudenza CEDU, sulla base dell'art. 7, anche con riferimento ad istituti non oggetto specifico della pronuncia, incontrando il solo limite costituito dalla presenza di una normativa interna di contenuto contrastante.

Appare quindi indubbia l'applicazione, a giudizio della Consulta, delle garanzie poste a tutela della pena, anche alla confisca per equivalente e, dunque, della irretroattività della stessa. Da ciò discende che è fatto divieto al legislatore di sanzionare con effetto retroattivo un fatto che, al tempo in cui fu commesso, non costituiva reato e, ugualmente, applicare un diverso trattamento sanzionatorio anche agli illeciti commessi prima della sua introduzione.

La questione posta all'esame della Corte Costituzionale ha però delle peculiarità. Il fatto che è stato addebitato ai ricorrenti costituiva reato, al tempo in cui fu commesso, successivamente, a seguito della depenalizzazione, ha mantenuto la sua caratteristica di antigiuridicità ma si è tramutato in un illecito amministrativo.

L'intero compendio normativo oggetto della questione rimessa alla Consulta deve essere letto nell'ottica del Legislatore di voler applicare, a quegli illeciti, un più mite trattamento sanzionatorio, partendo dal presupposto, espresso dal Legislatore, che la sanzione amministrativa è di per sé sempre più favorevole rispetto a quella penale.

La Consulta non sembra granché critica verso questa impostazione, benché si mostri dubbiosa sulla natura più favorevole del nuovo trattamento sanzionatorio, affermando che non è possibile determinare – aprioristicamente – che una sanzione amministrativa, per la sua sola natura, sia sempre meno afflittiva di una penale, poiché tale giudizio di comparazione deve essere effettuato, non già basandosi sul mero nomen juris, bensì procedendo ad una valutazione concreta del regime complessivamente più favorevole.

Solo quando il regime introdotto sia più mite, la Corte Europea, che certo non disconosce il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo, prevede l'applicazione della lex mitior.

Su tale punto si annida, a parere della Consulta, l'errore compiuto dal Giudice rimettente, il quale avrebbe omesso di considerare che si trovava al cospetto di un fenomeno di successioni di leggi penali nel tempo e che avrebbe dunque dovuto valutare in concreto quale trattamento risultava essere il più mite. Solo ad esito di tale processo e concludendo che risultava meno afflittivo il previgente trattamento sanzionatorio, avrebbe potuto e dovuto sollevare la questione di legittimità costituzionale in ordine all'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui ordina l'applicazione della confisca di valore ai fatti commessi sotto la vigenza della vecchia norma, ritenuta meno gravosa.

L'omessa valutazione e risoluzione di questo nodo interpretativo rende, dunque, le questioni sollevate inammissibili.

Conclusioni

Nonostante la Consulta non abbia fornito una soluzione definitiva al quesito postole, la pronuncia in commento presenta degli interessanti spunti di riflessione.

Anzitutto, deve osservarsi come il Giudice delle Leggi, nel dichiarare la questione inammissibile, abbia fornito delle indicazione su come, in futuro, la stessa andrà proposta per non “inciampare” nuovamente in un giudizio di inammissibilità.

In secondo luogo, la Corte ha lasciato aperta la valutazione in ordine alla maggiore o minore afflittività del trattamento sanzionatorio introdotto con la Legge n. 62/2005, fornendo tuttavia un principio da seguire nella suddetta valutazione, ovvero di non basarsi unicamente sul nomen juris, bensì di far riferimento ai regimi sanzionatori delle due disposizioni normative in esame.

A tal proposito, se è pur vero che in linea generale si presume che la sanzione amministrativa sia più favorevole rispetto alla sanzione penale, è anche vero che solo procedendo ad una verifica in concreto si può compiutamente valutare se il regime sanzionatorio neo introdotto per gli illeciti amministrativi risulti più gravoso di quello precedente.

Ed infatti è sufficiente avere una minima dimestichezza con il processo penale per sapere che la pena della reclusione fino a due anni, applicata sotto l'egida della vecchia norma, nella maggior parte dei casi e salvo non si tratti di un imputato pluripregiudicato, è destinata ad avere un effetto punitivo quasi inesistente, potendo essere concessa la sospensione condizionale della pena.

Diversamente, il colletto bianco che sarà giudicato e sanzionato in forza della nuova norma, si vedrà applicata una sanzione pecuniaria esorbitante rispetto a quella che gli avrebbe potuto infliggere il giudice penale (si parla di un massimo di 15 milioni di euro) con, in aggiunta – cosa non di poco momento – la possibilità di vedersi confiscati tutti i beni sino alla concorrenza del valore corrispondente al prezzo o al profitto del reato.

Non può sfuggire ad alcuno, dunque, come il regime sanzionatorio previsto dall'illecito amministrativo rischi di essere, nella concreta applicazione quotidiana, maggiormente punitivo.

Sarebbe stato auspicabile che il Giudice delle Leggi, ancorché impossibilitato a pronunciarsi sulla questione sollevata, per inammissibilità del ricorso, si fosse sbilanciato nell'uno o nell'altro senso, per agevolare l'operato dei Giudici.

Recentemente, la Corte Costituzionale, tornando sull'argomento della irretroattività della pena transitoria prevista, nel caso esaminato dai Giudici, da un intervento di depenalizzazione, ha nuovamente perso l'occasione di prendere posizione sul problema della compatibilità tra il principio di legalità della pena e la regola di retroattività delle sanzioni amministrative previste dalla L. n. 689/1981 per gli illeciti depenalizzati.

Si tratta della sentenza n. 109 dell'11 maggio scorso, con cui la Corte, ancora una volta, dichiarando l'inammissibilità del ricorso, non ha preso una posizione definitiva sul punto.

In assenza di un orientamento espresso dalla Consulta, non resta, dunque, che attendere che venga promosso un nuovo giudizio di legittimità, confidando in un esito più fortunato.

Nelle more, il rischio è che la Consob ottenga dei lauti risarcimenti, spianando la strada a possibili ricorsi a Strasburgo contro il nostro Paese.

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