Il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica
05 Ottobre 2016
Premessa
Il D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (pubblicato nella G.U. 8 settembre 2016, n. 210 e in vigore dal 23 settembre 2016) ha riunito in un unico corpo normativo (in seguito: Testo Unico) le diverse disposizioni che nel corso degli anni hanno riguardato, a volte anche con interventi d'urgenza, le società a partecipazione pubblica.
Il Testo Unico recepisce non solo le disposizioni contenute in diversi provvedimenti normativi, che molto spesso non erano di facile individuazione, ma anche alcuni orientamenti dottrinali e giurisprudenziali nazionali ed europei sulle questioni più rilevanti e dibattute. Si è quindi cercato di risolvere, o rendere meno incerti, i dubbi interpretativi e applicativi e contestualmente di tenere conto delle esigenze di rispetto delle regole della concorrenza e di mercato. A tal fine il Testo Unico detta delle norme volte ad individuare i presupposti necessari perché un soggetto pubblico possa partecipare alla costituzione di una società o possa continuare a detenere una partecipazione sociale. È anche previsto un monitoraggio costante destinato a razionalizzare le partecipazioni. Vi sono inoltre, tra le altre, disposizioni che disciplinano la governance, le società in house, la crisi d'impresa, il reclutamento e la gestione del personale.
Si ribadisce che, salvo deroghe espresse, alle società a partecipazione pubblica si applicano le norme sulle società del codice civile e le norme generali di diritto privato, precisando, inoltre, che a quelle quotate in borsa si applicheranno le disposizioni del Testo Unico solo quando ciò sia espressamente previsto. Rimangono escluse dall'applicazione di questa disciplina unitaria le società di diritto singolare. Le amministrazioni pubbliche soggette alle disposizioni del Testo Unico sono quelle di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. 165/2001, i loro consorzi o associazioni per qualsiasi fine istituiti, gli enti pubblici economici e le autorità portuali (art. 2, comma 1, lett. a). In primo luogo è stabilito (art. 3) un limite tipologico: le amministrazioni pubbliche possono partecipare solo a società di capitali (s.p.a. e s.r.l.), anche in forma consortile o cooperativa. E' esclusa quindi la partecipazioni a società di persone anche nelle ipotesi nelle quali ciò non comporti una responsabilità illimitata (socio accomandante).
Al fine di rafforzare il controllo è previsto, derogando al codice civile, che nella società per azioni e nella società a responsabilità limitata a controllo pubblico, non sia possibile affidare la revisione legale al collegio sindacale, nella prima, e, nella seconda, l'obbligatorietà di un organo di controllo o di revisione.
L'assunzione e il mantenimento delle partecipazioni, anche di minoranza e anche indirette, è consentito alle amministrazioni pubbliche solo per le attività aventi ad oggetto la produzione di beni e di servizi strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali. Si individuano inoltre alcune attività che, fermo restando il limite previsto, potranno essere svolte mediante l'assunzione di una partecipazione sociale. Dalla formulazione della norma (“non possono partecipare […] a società aventi per oggetto attività […] non strettamente necessaria per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali”) si evince che la partecipazione alla società per l'amministrazione pubblica non deve essere solamente in linea (e quindi coerente) con le proprie finalità istituzionali ma deve essere anche strettamente necessaria, alla stregua di una condicio sine qua non, per il perseguimento delle stesse. La motivazione posta alla base dell'assunzione o del mantenimento della partecipazione dovrà evidenziare il fatto che per l'amministrazione pubblica non sia possibile perseguire le finalità istituzionali se non attraverso l'assunzione della partecipazione societaria (anche di minoranza). Stando al dato letterale si dovrebbe ritenere che la partecipazione societaria debba essere l'unico strumento attraverso il quale sia possibile il perseguimento delle suddette finalità. Anche qualora non si condivida un'interpretazioni così rigida, è innegabile che gli oneri di motivazione richiesti (art. 5) siano molto puntuali e (se non in termini di condicio sine qua non)dovranno analiticamente giustificare la scelta dell'assunzione o del mantenimento della partecipazione. È necessario infatti che la decisione circa l'assunzione o il mantenimento della partecipazione motivi la (stretta) necessità della società (rectius: della partecipazione) “per il perseguimento delle finalità istituzionali […] evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria e in considerazione della possibilità di destinazione alternativa delle risorse pubbliche impegnate, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato”.La motivazione, inoltre, “deve anche dar conto della compatibilità della scelta con i princìpi di efficienza, di efficacia e di economicità dell'azione amministrativa”. Tale decisione infine deve essere inviata alla Corte dei conti, a fini conoscitivi, e all'Autorità garante della concorrenza e del mercato al fine di verificare che la scelta dell'amministrazione pubblica non sia in contrasto con le norme a tutela della concorrenza e del mercato. È evidente quindi che la richiesta motivazione non potrà prescindere da una valutazione puntuale ed analitica, dalla quale dovrebbe emergere che l'attività svolta per il tramite della partecipazione sociale è anche più conveniente rispetto ad una gestione diretta ma anche ad una gestione esternalizzata.
Entro sei mesi dall'entrata in vigore del Testo Unico le amministrazioni pubbliche dovranno fare la ricognizione di tutte le partecipazioni possedute alla data di entrata in vigore del Testo Unico, individuando quelle che, mancando i presupposti della stretta necessità al perseguimento delle finalità istituzionali, dovranno essere alienate nel rispetto dei princìpi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione (artt. 24 e 10). Per le partecipazioni che invece potranno essere detenute, avendo superato le suddette valutazioni, è prevista una verifica con cadenza annuale al fine di valutare una loro eventuale razionalizzazione, fusione, liquidazione o cessione qualora vengano meno i presupposti per la loro detenzione (art. 20). La composizione, il numero e il compenso dei componenti degli organi sociali sono sempre state questioni al centro dell'attenzione della dottrina, della giurisprudenza nonché della pubblica opinione e, di conseguenza, sono state oggetto di una pluralità di interventi normativi, molte volte ispirati da ragioni un po' populistiche piuttosto che da criteri di razionalità e di corretta gestione. Il Testo Unico, recependo le disposizioni normative emanate nel corso degli anni e, in parte, demandando a futuri DPCM, disciplina espressamente tali aspetti. Un futuro DPCM, di cui non è stato previsto un termine per l'emanazione, dovrà stabilire i requisiti di onorabilità, professionalità e autonomia dei componenti degli organi sociali. Restano fermi i divieti “generali” in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al D.Lgs. 8 aprile 2013, n. 39 (c.d. disciplina anticorruzione) nonché l'inconferibilità di incarichi a coloro che, già lavoratori pubblici o privati, sono collocati in stato di quiescenza (art. 5, comma 9, D.L. 6 luglio 2012, n. 95).
Di default è previsto che l'organo amministrativo delle società a controllo pubblico sia costituito da un amministratore unico. È demandata ad un DPCM, da emanare entro sei mesi dall'entrata in vigore del Testo Unico, la definizioni dei criteri in base ai quali, “per ragioni di adeguatezza organizzativa, l'assemblea della società a controllo pubblico può disporre che la società sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri” ovvero possa adottare il sistema dualistico o monistico, fermo restando, in caso di adozione di uno di questi sistemi, che il numero complessivo dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo non potrà essere superiore a cinque. Nelle more dell'individuazione di tali criteri, la nomina dell'amministratore unico sarà obbligatoria solamente nelle ipotesi di nuove nomine a seguito della scadenza dell'organo gestorio in carica o, più in generale, di sua sostituzione a seguito di dimissioni o revoca. Non sarà quindi necessario operare una riduzione degli organi collegiali in carica.
Per quanto riguarda la determinazione dei compensi dei componenti degli organi sociali, dei dirigenti e dei dipendenti si demanda ad un decreto del Ministro dell'Economia e delle finanze che dovrà definire gli “indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi al fine di individuare fino a cinque fasce per la classificazione delle società” a controllo pubblico: per ciascuna fascia sarà determinato, in proporzione, il limite dei compensi massimi che, secondo criteri oggettivi e trasparenti, potrà essere attribuito. In ogni caso il compenso annuo onnicomprensivo non potrà eccedere il limite massimo di euro 240.000.
Come accennato in precedenza alla base di queste scelte cosi “restrittive” vi sono sia ragioni di contenimento della spesa pubblica sia la necessità di arginare gli abusi, che innegabilmente ci sono stati. Ciò però non significa che la scelta adottata raggiunga il risultato sperato e che, soprattutto, consenta una gestione delle società a partecipazione pubblica più efficiente. Si tratta, infatti, di società alle quali, salvo espresse deroghe, si applica la disciplina di diritto comune e la cui gestione (in aggiunta alle “problematiche ordinarie”) deve tenere conto di tutte le peculiarità dell'attività e dei vincoli derivanti dalla stessa. È evidente che queste specialità, anche in dimensioni medie, non rendono semplice la gestione e richiedono, oltre all'assenza di conflitti di interesse, professionalità adeguate supportate da strutture organizzative interne (rectius: assetti). Le limitazioni introdotte, ancora non tutte definite, potrebbero essere di ostacolo alla creazione di una struttura organizzativa-gestionale adeguata. La complessità della gestione e, quindi, la conseguente potenziale responsabilità, potrebbe infatti scontrarsi con il confronto delle remunerazioni “imposte” con quelle di mercato. Questo, come è facilmente intuibile, potrebbe indurre i potenziali componenti degli organi sociali con adeguata professionalità e competenza a non accettare incarichi in tali società, lasciandoli a coloro che, magari senza adeguata professionalità e competenza o con altri interessi, potrebbero “accontentarsi”. Superato anche l'aspetto relativo all'eventuale remunerazione non di mercato, si potrebbero porre alcuni problemi in merito all'adeguatezza organizzativa della società quale conseguenza dei limiti organizzativi imposti. Un primo aspetto è di carattere numerico.
La scelta di default dell'amministratore unico sembra essere dettata più da ragioni di contenimento dei costi che da valutazioni di stampo aziendalistico. È pur vero che con un futuro DPCM saranno indicati i criteri in forza dei quali sarà possibile nominare un organo gestorio collegiale composto da tre o cinque membri, quindi probabilmente nelle realtà più complesse sarà possibile nominare un organo collegiale. Ciò però non elimina i vincoli posti (art. 11, commi 9 e 13) all'attribuzione di deleghe gestorie, all'istituzione (formale) della carica di vice presidente, alla limitazione e alla costituzione di comitati consultivi o propositivi. Contestualmente però è prevista (art. 6, comma 2) la predisposizione di specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale, ma anche (art. 6, comma 3) la possibilità, in considerazione delle dimensioni e delle caratteristiche organizzative e dell'attività svolta, di adottare regolamenti interni strumentali a tutelare il rispetto delle norme sulla concorrenza nonché un ufficio di controllo interno che collabori con l'organo di controllo statutario.
È inevitabile notare una sorta di contraddizione tra il “rischio” di non avere amministratori professionalmente adeguati e la previsione di dottare la società di un'organizzazione aziendalistica efficiente, ipotizzando (utopisticamente) di fare questo non in un'ottica di contenimento dei costi ma (quasi) di eliminazione degli stessi. Questa finalità, che pare essere stata la linea guida del Testo Unico, non tiene conto delle difficoltà oggettive derivanti dalla gestione di un'attività d'impresa tra regole pubblicistiche e regole privatistiche. Difficoltà che potrebbero essere affrontate strutturando adeguatamente gli aspetti organizzativi e affidando la gestione a soggetti professionalmente adeguati i quali, sotto la propria responsabilità, predisporranno degli assetti e una struttura senza vincoli populistici (quali la soppressione della carica di vicepresidente). Il Testo Unico disciplina (art. 16) anche le società in house, cioè le società che possono ricevere affidamenti diretti dalle amministrazioni che sulle stesse esercitano il c.d. controllo analogo. Come è noto il requisito del controllo analogo è sempre stato oggetto di dubbi e di interpretazioni contrastanti in merito ai presupposti necessari per la sua integrazione. Sul punto infatti è necessario confrontare le esigenze pubblicistiche con le regole privatistiche; ciò in quanto per controllo analogo deve intendersi un potere di ingerenza sulle questioni strategiche e rilevanti da parte del socio pubblico nelle scelte gestorie della società superando il potere gestorio esclusivo, derivante dalla disciplina comune, degli amministratori. Per superare tali dubbi sono state previste delle specifiche disposizioni.
In primo luogo si riconosce la possibilità di un controllo analogo congiunto, cioè esercitato da più amministrazioni. In tal caso, seguendo l'orientamento giurisprudenziale oramai consolidato, il controllo analogo si dovrà manifestare sul servizio affidato in house dalle singole amministrazioni pubbliche. È venuta meno la necessità, anch'essa basata su interpretazioni giurisprudenziali, della partecipazione totalmente pubblica della società affidataria. Non è di ostacolo all'affidamento diretto (e quindi al controllo analogo) la presenza di soci privati, a condizione che questi non controllino la società, non abbiamo poteri di veto né esercitino un'influenza determinate. Ciò consentirà l'ingresso di privati, magari come soci finanziatori, in società beneficiarie di affidamenti diretti. Naturalmente l'ingresso dei soci privati sarà preceduto da una selezione rispettosa dei princìpi di trasparenza e parità di trattamento. Per superare gli ostacoli della disciplina comune relativamente al potere gestorio in capo agli amministratori è stata prevista la possibilità di derogare statutariamente alle disposizioni (artt. 2380-bis e 2409-novies c.c.) che prevedono tale potere esclusivo di gestione. Nelle società a responsabilità limitata è stato “suggerito” (non prevedendo niente di nuovo e non rimuovendo nessun limite), codificando alcune soluzioni adottate dalla prassi, di assegnare ai soci pubblici particolari diritti ex art. 2468, comma 3, c.c. al fine di attribuire poteri gestori integranti il controllo analogo. Va specificato che dalla disposizione non emerge la necessità né di una deroga alla competenza esclusiva degli amministratori nella gestione né dell'attribuzione di diritti particolari al socio pubblico. Si tratta di due possibili strumenti attraverso i quali realizzare gli assetti organizzativi delle società in house.
Un'ulteriore possibilità attraverso la quale sarà realizzabile il controllo analogo è rappresentata dai patti parasociali che, derogando alla disciplina civilistica, potranno avere una durata superiore a cinque anni. Dovrebbe essere evidente che la sottoscrizione del solo patto parasociale non è idonea a derogare all'esclusività della gestione in capo agli amministratori. Tutto ciò conferma la possibilità di integrare il controllo analogo anche utilizzando, con cognizione di causa, le “sole” disposizioni societarie di diritto comune, come evidenziato da parte della dottrina, già prima del Testo Unico, opponendosi a ricostruzioni che, aprioristicamente e superficialmente, non consideravano né i vincoli derivanti dal diritto societario né le opzioni che lo stesso offre.
Le società in house dovranno avere un oggetto sociale esclusivo, consistente nello svolgimento delle attività che sono state affidate e, inoltre, statutariamente devono vincolarsi a prevedere che oltre l'ottanta per cento del fatturato sia effettuato per lo svolgimento dei servizi affidati direttamente. La produzione ulteriore rispetto a quella destinata ai soci pubblici affidanti è consentita a condizione che “la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell'attività principale”. Il Testo Unico interviene anche sulla disciplina delle società a partecipazione mista pubblica e privata. In primo luogo occorre evidenziare che, a differenza di quanto previsto da alcune disposizione precedenti a quella in commento, la partecipazione del socio privato non può essere utilizzata per “salvare” la partecipazione pubblica. Cioè la privatizzazione di una società a capitale interamente pubblico mediante la cessione ai privati di una partecipazione, anche di maggioranza, non consente sic et simpliciter al socio pubblico di poter mantenere la partecipazione in quanto, in ogni caso, è necessaria la sussistenza della stretta necessità di tale partecipazione per il perseguimento delle finalità istituzionali dell'amministrazione pubblica secondo quanto stabilito dall'art. 4.
La novella normativa (art. 17) non pare riferibile a tutte le società miste, quale forma di parternariato pubblico privato, ma solamente a quelle costituite per le finalità di cui all'art. 4, comma 2, lett. c), e cioè per la “realizzazione e gestione di un servizio di interesse generale” secondo quanto stabilito dall'art. 180, D.Lgs. n. 50/2016.
Per tali società il socio privato, selezionato con una procedura ad evidenza pubblica, non può avere una partecipazione inferiore al 30%. Trattandosi di una società di scopo, il socio privato deve avere i requisiti di qualificazione previsti e richiesti per lo svolgimento dell'attività affidata alla società. È disciplinata attentamente la fase della selezione del socio privato. Il bando di selezione dovrà contenere la bozza dello statuto, degli eventuali patti parasociali oltre a tutti gli elementi essenziali del contratto di servizio. La durata della partecipazione privata è commisurata alla durata dell'affidamento. Lo statuto della società potrà prevedere, in caso di società per azioni, alcune deroghe alla disciplina di diritto comune sulla competenza gestoria (artt. 2380-bis e 2409-novies c.c.) e, in caso di società a responsabilità limitata, l'attribuzione di particolari diritti ex art. 2468 c.c. al socio pubblico e limitare la potenziale competenza gestoria della collettività dei soci.
Le altre possibili previsioni statutarie “autorizzate”, in alcuni casi pleonastiche, riguardano:
Come in precedenza accennato manca una disciplina generale delle società miste diverse rispetto a quelle costituite ex art. 4, comma 2, lett. c. E' da ritenere però che anche tali società possano essere costituite o possano, se già costituite, discendere da una privatizzazione o dall'ingresso di un socio pubblico in una società a capitale privato. A conferma di ciò si può evidenziare che nel Testo Unico si fa riferimento alle società a controllo pubblico non necessariamente totalitario e a partecipazioni pubbliche di minoranza. È quindi in re ipsa l'ammissibilità di una società mista. Naturalmente il presupposto della partecipazione pubblica è sempre la stretta necessità della stessa per le finalità istituzionali del socio pubblico.
La selezione del socio privato dovrà essere effettuata nel rispetto dei princìpi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione, quindi con una procedura ad evidenza pubblica. Il socio privato potrà essere sia un socio industriale sia un socio finanziatore. La procedura di selezione del primo, attraverso una gara a “doppio oggetto”, dovrà necessariamente tener conto delle eventuali qualificazioni richieste per la gestione del servizio nonché delle modalità richieste per lo svolgimento dello stesso. La selezione del socio finanziatore dovrebbe invece tener conto solo dell'aspetto economico e quindi si dovrebbe basare sulla migliore offerta per l'acquisto/sottoscrizione della partecipazione. Come è noto uno dei problemi più dibattuti sulle società pubbliche è stato quello relativo all'applicazione alle stesse della disciplina del fallimento e delle procedure concorsuali. Le interpretazioni (e i precedenti giurisprudenziali) volte(i) a ipotizzare l'esenzione per le società pubbliche dalla disciplina sulla crisi d'impresa, a prescindere dalle deboli argomentazioni giuridiche portate a supporto, non tenevano conto del fatto che il fallimento e le procedure concorsuali rappresentano le modalità attraverso le quali gestire correttamente la crisi d'impresa, tutelando i creditori ma anche gli eventuali assets sussistenti in capo alla società. Il Testo Unico sul punto prende una posizione chiara: “le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi” (art. 14). Tale disposizione è la logica conseguenza del riconoscimento della qualifica di imprenditore commerciale, derivante dallo svolgimento dell'attività d'impresa, in capo alla società a partecipazione pubblica.
A ciò si aggiunga che, come accennato in precedenza, gli assetti organizzativi dovranno prevedere dei programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale, consistenti in dei sistemi di allerta, in forza dei quali gli amministratori dovranno attivarsi per adottare, senza indugio, “i provvedimenti necessari al fine di prevenire l'aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento”. L'inerzia degli amministratori costituisce una grave irregolarità ex art. 2409 c.c. La filosofia del Testo Unico è quindi quella di prevenire la crisi e gestire la stessa aziendalisticamente, evitando, se è possibile, il fallimento della società, molte volte (nel recente passato) dovuto anche a mancate scelte o a ricapitalizzazioni non giustificate da un punto di vista imprenditoriale ma “politico”. In proposito è previsto che non rappresenti un provvedimento adeguato alla gestione della (emersa) crisi un ripianamento delle perdite, da parte dei soci pubblici, che non sia inserito nell'ambito di un piano di ristrutturazione aziendale, dal quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell'equilibrio delle attività svolte. Di conseguenza non saranno più possibili ricapitalizzazioni non motivate ovvero che non tengano conto delle modalità attraverso le quali si vorrebbero superare le cause che hanno portato la società in disequilibrio economico. In sostanza il ripianamento delle perdite da parte del socio deve essere preceduto da un piano economico finanziario che giustifichi l'operazione di copertura pubblica delle perdite. Anche se non è espressamente stabilito è da ritenere che questa giustificazione aziendalistica debba essere presentata in sede di deliberazione interna dell'amministrazione pubblica socio e che, quanto meno per ragioni tuzioristiche, il piano di ristrutturazione sia predisposto dagli amministratori coadiuvati da un professionista che ne garantisca (senza la necessità di attestazione) la fattibilità astratta. La mancanza del piano di ristrutturazione e quindi la copertura di perdite eseguita senza lo stesso non dovrebbe avere delle conseguenze societarie relative all'operazione sul capitale sociale, ma solo eventualmente in termini di responsabilità degli amministratori in caso di successiva crisi della società. Diversamente si potrebbe ipotizzare una responsabilità interna in capo al soggetto che nell'amministrazione pubblica ha autorizzato la ricapitalizzazione in assenza del suddetto piano e quindi a utilizzato denaro pubblico senza il rispetto dei vincoli (rectius: presupposti) di utilizzo.
La sussistenza del piano di ristrutturazione non dovrebbe essere sufficiente ad “autorizzare” la ricapitalizzazione qualora la società abbia registrato “per tre esercizi consecutivi perdite di esercizio ovvero abbia utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali”. L'eccezione a questi divieti -che consente al socio pubblico un aumento di capitale, un trasferimento straordinario di risorse, un'apertura di credito o la concessione di garanzie a favore della società - è possibile qualora la società destinataria gestisca l'attività per via di una convenzione, un contratto di servizio o un programma relativo allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero la realizzazione di investimenti. In tal caso è sempre necessario un piano di risanamento, approvato dall'Autority di settore, ove esistente, e comunicato alla Corte dei conti. In ogni caso il piano dovrà prevedere il raggiungimento dell'equilibrio finanziario entro tre anni.
È evidente quindi che la scelta del legislatore è quella di consentire ulteriori erogazioni di denaro pubblico solo nelle ipotesi in cui le società partecipate non siano cronicamente in perdita (da almeno tre anni) o che non abbiano pianificato aziendalisticamente l'uscita dalla situazione di squilibrio finanziario.
Come norma di chiusura sulla crisi (comma 6) si prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni controllanti di società fallite di costituire o partecipare, anche quali soci di minoranza, in società che abbiano la stessa attività di quella dichiarata fallita. |