Il co-liquidatore di una società, dopo un breve periodo di tentativi di risanamento, decide di adire il tribunale per il fallimento in proprio. C'è bisogno secondo voi di una sorta di avallo della assemblea, oppure, come sostengo io, poteva agire di sua iniziativa? E poi, prima del deposito, egli si è sentito in dovere di avvertire i creditori con i quali aveva stabilito un contatto al fine di rendere costoro partecipi dei tentativi di risanamento. Secondo voi ha operato correttamente?
L'art. 2484 c.c. disciplina le ipotesi di scioglimento delle società di capitali. Segnatamente sono: decorso del termine, conseguimento dell'oggetto sociale o sopravvenuta impossibilità di conseguirlo (salvo che l'assemblea non deliberi opportune modifiche statutarie), impossibilità di funzionamento o continuata inattività dell'assemblea, riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, impossibilità di rimborsare il socio receduto, deliberazione dell'assemblea, altre cause previste dall'atto costitutivo o dallo statuto, dichiarazione di fallimento.
All'accertamento della causa di scioglimento della società segue la delibera assembleare di messa in liquidazione; attività, questa, attraverso la quale l'impresa, che non intende rimanere operativa sul mercato, opta per l'ottimizzazione del valore del proprio patrimonio allo scopo, innanzitutto, di soddisfare i creditori sociali, ed in un secondo momento procedere alla distribuzione del residuo tra i soci.
La nomina dei liquidatori è riservata all'assemblea dei soci, che contestualmente è tenuta a deliberare, a titolo esemplificativo, in merito a:
a) numero dei liquidatori;
b) regole di funzionamento del collegio dei liquidatori, se l'organo ha una struttura pluripersonale,;
c) indicazione di coloro che hanno la rappresentanza della società;
d) criteri di svolgimento della liquidazione.
All'assemblea dei soci è, altresì, riconosciuto il potere di revocare la liquidazione (cfr. art. 2487-ter c.c.).
Dall'esposta disamina normativa sembra potersi desumere una forte prerogativa dell'organo assembleare nel rapporto intercorrente con quello liquidatorio, a cui vengono attribuiti poteri ed impartiti criteri guida per la gestione dell'impresa (in liquidazione).
La determinazione di presentare istanza di fallimento non costituisce, però, atto di gestione nell'ambito della liquidazione; ove così fosse l'input da parte della assemblea costituirebbe un passaggio obbligato e propedeutico all'esecuzione della determinazione da parte del liquidatore; si tratta, invece, di una “denuncia di insolvenza”, il cui onere spetta all'organo amministrativo, anche in ragione delle conseguenze giuridiche, a carico di quest'ultimo, in caso di omissione.
La Suprema Corte di Cassazione ha stabilito sul punto: “Il ricorso fallimentare del debitore in proprio (definito "richiesta" nel testo previgente della legge fallimentare, art. 6), nel caso in cui questi sia una società deve essere presentato dall'amministratore dotato del potere di rappresentanza legale. Esso non necessita di alcuna autorizzazione assembleare (…) giacchè non ha natura negoziale, nè tanto meno si configura come atto di straordinaria amministrazione. In realtà, consiste in una dichiarazione di scienza (pur non assurgendo a confessione in senso tecnico, quale prova legale dello stato di decozione), doverosa per l'amministratore; la cui omissione è penalmente sanzionata e che non determina, di per sè, alcun effetto diretto sulla società e sui diritti dei soci, eventualmente ricollegabile solo alla successiva sentenza dichiarativa di fallimento” (cfr. Cass. Civ. n. 19983/09).
Quello che si afferma per l'amministratore, vale naturalmente anche per il liquidatore.
Tuttavia, pur non avendo l'assemblea potere decisionale, non può escludersi la possibilità che avalli la determinazione del liquidatore, ove questi convochi l'assemblea anche al mero scopo di comunicare l'intendimento di presentare istanza di fallimento in proprio.
La non necessarietà dell'avallo dell'assemblea non esclude nemmeno che il Tribunale possa richiedere, tra i documenti da allegare all'istanza per la dichiarazione di fallimento presentata in proprio dall'amministratore/liquidatore, anche il verbale di assemblea dei soci inerente il deposito della istanza di fallimento in proprio.
In merito, poi, al profilo dell'informativa ai creditori circa il deposito dell'istanza predetta, essa è nella discrezionalità dell'imprenditore, il quale dimostra soprattutto di operare correttamente laddove non attui, nel periodo “critico”, condotte in violazione del principio della par condicio creditorum.