Dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile in estensione del fallimento implicito di società di persone

Chiara Ravina
28 Aprile 2015

Ove una società personale, nella specie società in accomandita semplice, si sia sciolta ex art. 2272 n. 4 c.c., per il venir meno della pluralità dei soci (non ricostituita nel termine di sei mesi), ma non sia ancora estinta ed il socio superstite abbia continuato l'impresa già sociale come imprenditore individuale, la dichiarazione di fallimento di questi implica la dichiarazione di fallimento della società.
Massima

Ove una società personale, nella specie società in accomandita semplice, si sia sciolta

ex

art. 2272

n. 4 c.c., per il venir meno della pluralità dei soci (non ricostituita nel termine di sei mesi), ma non sia ancora estinta ed il socio superstite abbia continuato l'impresa già sociale come imprenditore individuale, la dichiarazione di fallimento di questi implica la dichiarazione di fallimento della società.

Il caso

Il caso preso in esame dalla Suprema Corte di cassazione nella pronuncia in oggetto prende le mosse dalla seguente vicenda.
Una società in accomandita semplice si scioglieva ai sensi dell'art. 2272 n. 4 c.c. a seguito del recesso di uno dei due soci – precisamente il socio accomandante – e, nel termine dei successivi sei mesi, non si ricostitutiva la pluralità dei soci. Il socio accomandatario continuava a svolgere l'attività di impresa sotto forma di impresa individuale nella quale “confluivano” tutti i rapporti commerciali e di debito/credito facenti capo in precedenza alla società sciolta.
Il Tribunale di Pistoia con sentenza n. 17/08 dichiarava il fallimento dell'impresa individuale (già società in accomandita semplice) in quanto nel termine di sei mesi normativamente previsto non era stata ricostituita la pluralità dei soci.
Successivamente, il curatore del fallimento presentava istanza di estensione del fallimento al socio accomandante receduto, sul presupposto che lo stesso dovesse essere considerato socio illimitatamente responsabile della società in accomandita semplice; società che, secondo il curatore, era stata dichiarata fallita in uno con l'impresa individuale omonima (come si poteva evincere, tra l'altro, dal fatto che il ricorso di fallimento fosse stato presentato dalla “ditta individuale x y, già x s.a.s.”). La responsabilità illimitata discendeva da comportamenti assunti dal socio accomandante in contrasto con le disposizioni dell'art. 2320, comma 1, c.c., sanzionati appunto con l'assunzione di responsabilità personale illimitata e solidale.
Il socio accomandante si costituiva eccependo, fra l'altro, la mancata dichiarazione di fallimento della società in accomandita semplice al momento della dichiarazione di fallimento dell'impresa individuale e, dunque, la mancanza dei presupposti per la richiesta di estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile.
Il Tribunale di Pistoia respingeva le eccezioni del socio accomandante sul presupposto che la dichiarazione di fallimento di cui alla sentenza n. 17/08 avrebbe riguardato “quell'impresa già costituita in forma societaria che, al momento della dichiarazione di fallimento, sopravviveva quale impresa individuale: infatti, come ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, «una siffatta vicenda non integra una trasformazione nel senso tecnico inteso dall'art. 2498 c.c.bensì un rapporto di successione tra soggetti distinti»; non si determina, allora, alcuna modificazione soggettiva dei rapporti facenti capo all'ente la titolarità dei quali si concentra nell'unico socio rimasto (Cass. civ. 3670/07)”.
In altri termini, la sentenza n. 17/08 avrebbe dichiarato il fallimento («esplicito») di un unico soggetto commerciale, sotto due differenti strutture organizzative: la società in accomandita semplice non ancora estinta e l'impresa individuale nella quale erano “confluiti” tutti i rapporti facenti capo in precedenza alla società.
Sulla base di quanto sopra, il tribunale accoglieva le richieste del curatore e dichiarava il fallimento del socio accomandante, divenuto illimitatamente responsabile, in estensione del fallimento della società in accomandita semplice; fallimento, quest'ultimo, che si riteneva essere stato dichiarato «esplicitamente» dalla sentenza n. 17/08.
Il socio accomandante proponeva reclamo avanti la Corte d'Appello di Firenze, ritenendo illegittima la sua dichiarazione di fallimento «in estensione», in quanto il Tribunale avrebbe dovuto previamente dichiarare anche il fallimento della società cessata.
La Corte d'Appello rigettava il reclamo avallando, sostanzialmente, la linea del tribunale; ovverosia riteneva che la declaratoria di fallimento individuale dell'unico socio di una s.a.s. cessata per mancata ricostituzione della pluralità dei soci implicasse il fallimento della s.a.s., perché tale società non poteva dirsi ancora estinta e perché la titolarità di tutti i rapporti facenti capo alla società si era trasferita in capo all'unico socio (divenuto imprenditore individuale, ma non per questo svincolato dall'insolvenza della società). Anche secondo i giudici fiorentini: “Si trattò allora di una declaratoria esplicita di fallimento di un unico soggetto commerciale, sotto due differenti strutture organizzative”.
Ciò detto, la Corte d'Appello andava poi anche “oltre” la tesi della duplicità dei soggetti sostenuta dal tribunale fallimentare richiamando anche la figura della declaratoria implicita di fallimento della S.a.s. (arg. ex Cass. civ. sez. trib. 16 febbraio 2007, n. 3670): “Oggi, volendo aderire alla tesi della duplicità dei soggetti (di cui alla sentenza Cass. n. 3670/07) come ha fatto il Tribunale nella seconda sentenza del luglio 2008, deve comunque riconoscersi la legittimità della declaratoria implicita di fallimento della S.a.s.” (sottolineato aggiunto).
In altri termini, secondo i giudici fiorentini, la legittimità del fallimento in estensione del socio illimitatamente responsabile potrebbe essere argomentata in maniera duplice: da un lato, seguendo la ricostruzione del tribunale, ovverosia ritenendo che la prima sentenza abbia dichiarato esplicitamente il fallimento non già della sola impresa individuale, bensì di due soggetti (l'impresa individuale e la S.a.s. non ancora estinta); dall'altro lato, seguendo la teoria della dichiarazione di fallimento implicita della società, secondo cui la dichiarazione di fallimento di un soggetto nella qualità di socio di una società di fatto e/o occulta con altro soggetto in precedenza dichiarato fallito quale imprenditore individuale comporta la implicita dichiarazione di fallimento di tale società, così che il fallimento del socio deve ritenersi dichiarato in estensione del fallimento della società ai sensi dell'art. 147 l. fall. (Cass. 6 dicembre 1996, n. 10889; Cass. 7 febbraio 1962, n. 251; Cass. 26 aprile 1971, n. 1210).
A seguito del rigetto del reclamo, la vicenda giungeva in Cassazione. Il socio accomandante-ricorrente lamentava che (i) non era mai stato dichiarato il fallimento della S.a.s e (ii) il tribunale, in conformità di quanto previsto ai sensi dell'art. 147, comma 4, l. fall., avrebbe dovuto dichiarare il fallimento della S.a.s. e quindi per estensione il fallimento del socio accomandatario (invece che dichiarare il fallimento di quest'ultimo come imprenditore individuale) e, solo dopo la dichiarazione di fallimento della società, avrebbe potuto dichiarare il fallimento dell'ulteriore socio illimitatamente responsabile ai sensi dell'art. 147, comma 5, l. fall.
La Cassazione respingeva il ricorso ritenendo infondati entrambi i motivi e, richiamandosi a precedenti giurisprudenziali di legittimità che avevano sostenuto l'ammissibilità della dichiarazione implicita di fallimento (in particolare Cass. 6 dicembre 1996, n. 10889 cit.), confermava il principio per cui la dichiarazione di fallimento di un soggetto, in qualità di socio di una società di fatto con altro soggetto in precedenza dichiarato fallito quale imprenditore individuale, comporta l'implicita dichiarazione di fallimento di tale società.
A partire da tale affermazione - cioè dalla legittimità della dichiarazione implicita di fallimento nel contesto sopra descritto - i giudici di legittimità desumevano (con un percorso logico-argomentativo non del tutto lineare, come vedremo infra) il seguente principio di diritto: “Ove una società personale, nella specie società in accomandita semplice, si sia sciolta ex art. 2272 n. 4 c.c., ma non sia ancora estinta ed il socio superstite abbia continuato l'impresa già sociale come imprenditore individuale, la dichiarazione di fallimento di questi implica la dichiarazione di fallimento della società”.

Le questioni giuridiche

La pronuncia in esame offre lo spunto per affrontare il tema dell'ammissibilità della dichiarazione implicita di fallimento di società di persone.
Si tratta cioè di stabilire se - una volta dichiarato il fallimento di un imprenditore individuale e una volta emerso che l'impresa (apparentemente individuale) è, in realtà, riferibile ad una società di fatto/occulta di questi con altro soggetto - sia possibile dichiarare fallito anche questo secondo soggetto, in qualità di socio illimitatamente responsabile della società ai sensi dell'art. 147, comma 5, l. fall., e dunque “per estensione”, senza che la società di fatto/occulta venga previamente dichiarata fallita con apposita sentenza; ovvero – più propriamente – se nella fattispecie di società sottostante all'attività di impresa apparsa in un primo momento come gestita da un imprenditore individuale, dichiarato fallito come tale, l'estensione del fallimento ad altri soci illimitatamente responsabili ex art. 147, co. 5, l. fall. debba essere preceduta o accompagnata dall'estensione “esplicita” del fallimento anche alla società di fatto/occulta.
Il tema in questione è oggetto di un ampio dibattito che vede contrapposte, seppur con delle distinzioni, la dottrina, da un lato, e la giurisprudenza, dall'altro lato. Nella prima, si è formato ormai da tempo un indirizzo (prevalente) contrario alla pronuncia di fallimento sociale implicita e, quindi, alla dichiarabilità del fallimento dei soci (occulti o di fatto) in assenza di espressa dichiarazione di fallimento della società occulta o di fatto; ciò anche considerato il carattere costitutivo della sentenza dichiarativa di fallimento e la sua efficacia erga omnes.
La dottrina prevalente è cioè dell'idea che non sia ammissibile l'istanza di estensione del fallimento di un imprenditore individuale socio di una società di fatto/occulta agli altri soci illimitatamente responsabili se tale istanza non è preceduta o accompagnata dalla richiesta di estensione del fallimento anche alla società e dalla relativa dichiarazione (ex multis, Andrioli, Fallimento sociale implicito e società con duplicità di oggetto, in Cinquant'anni di dialoghi con la giurisprudenza, 1931 – 1981, 2, Milano, 1981, 601 ss.; Fimmanò, Super-società di fatto ed abuso della personalità giuridica, in ilcaso.it, n. 135/2009; Panzani, Imprenditore individuale apparente, società occulta ed identità di impresa, commento a Cass. 30 gennaio 1995, n. 1106, in Fall. 1995, 923; Barbieri, L'estensione del fallimento del socio occulto o di fatto, nota a Cass., 22 febbraio 2008, n. 4529), in Fall. 2008, 916; Cottino, Note minime su società di capitali (presunta) socia di società di persone e fallimento, nota di commento a App. Torino, 30 luglio 2007 (decr.), in Giur. it. 2007, 2219 ss.; Di Gravio, La società di fatto: la fantastica gabbia del fallimento implicito, nota di commento a Cass. 6 dicembre 1996, n. 10889, in Dir. fall. 1997, II, 9 ss.).
Secondo gli Autori citati, la mancanza della sentenza dichiarativa di fallimento in estensione della società di fatto/occulta rappresenterebbe una netta violazione dell'art. 148 l. fall. (che nei casi di fallimento ex art. 147 l. fall. stabilisce che il patrimonio dei soci e quello della società siano tenuti distinti); determinerebbe l'inesistenza giuridica dei fallimenti individuali dei soci illimitatamente responsabili collegati alla società (cfr. Andrioli, cit., 603), inoltre sarebbe incompatibile con alcune norme della legge fallimentare e del codice civile; in particolare con l'art. 149 l. fall., che detta: “Il fallimento di uno o più soci illimitatamente responsabili non produce il fallimento della società” e con l'art. 2288 c.c., secondo cui: “E' escluso di diritto il socio che sia stato dichiarato fallito”.
Di diverso avviso è invece la giurisprudenza, che – fatti salvi alcuni precedenti (App. Torino, 30 luglio 2007, decr.; App. Firenze 2 luglio 1985, in Dir. Fall. 1986, II, 576) - ha ritenuto che la mancanza di una esplicita dichiarazione di fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata non rende illegittima la dichiarazione di fallimento dei suoi soci illimitatamente responsabili, in quanto la dichiarazione di fallimento della società può desumersi implicitamente dalla dichiarazione di fallimento dei soci, nella misura in cui questa venga pronunciata con riferimento al vincolo sociale e per obbligazioni contratte nell'esercizio dell'attività sociale (così Cass. 7 febbraio 1962, n. 251 cit.; nello stesso senso, Cass. 26 aprile 1971, n. 1210 cit.; Cass. 6 dicembre 1996 n. 10889, citata dalla sentenza in commeto; App. Bologna, 20 maggio 1995, in Dir. fall. 1996, II, 662; App. Venezia, 30 ottobre 1993, in Dir. fall. 1994, II, 249).
Dato così atto, in estrema sintesi, del dibattito esistente sul punto, è utile approfondire ora le motivazioni poste alla base dell'orientamento della dottrina contrario all'estensione “implicita” del fallimento.
A questo riguardo, è quanto mai interessante un vivace commento di Virgilio Andrioli alla sentenza Cass. 26 aprile 1971, n. 1210: “L'affermata superfluità del fallimento sociale è priva di seria giustificazione logica (e non mancò di osservarlo uno dei grandi vecchi della scienza del diritto: Carnelutti, in Riv. dir. proc., 1952, II, p. 64) e si spiega soltanto mediante una certa ponderazione degli interessi in conflitto: il rilievo conferito alla mancata dichiarazione del fallimento sociale comporterebbe la revoca dei fallimenti dei soci illimitatamente responsabili, e quindi la caducazione di tutti gli effetti delle relative sentenze di fallimento, per i quali non opera la clausola di salvaguardia degli atti legalmente compiuti dagli organi preposti ai fallimenti medesimi, prevista dall'art. 21, comma 1, l. fall. Ma qual è l'interesse a cui l'orientamento giurisprudenziale in esame conferisce preminenza? (…) Basta porsi questo interrogativo per intendere che il degrado al livello del vuoto formalismo della dichiarazione del fallimento sociale impedisce alla procedura che ne segue, di svolgersi nell'osservanza della regola fondamentale dell'art. 148 l. fall. che, rispetto allo scrutatissimo art. 147, recita a torto la parte del parente povero. La dichiarazione del fallimento sociale è alla base delle due masse, attiva e passiva, su cui fonda lo svolgimento di ogni procedura concorsuale, e proprio l'affiancamento, al fallimento sociale dei fallimenti dei soci illimitatamente responsabili consente di attuare la discriminazione tra creditori sociali e creditori personali dei soci, che permette ai primi di collocarsi, nella ripartizione dell'attivo sociale, con preferenza sui creditori personali dei soci (preferenza che, stante il dissesto sociale, suona esclusione) e di separare i beni sociali dai beni personali dei soci (sottolineato aggiunto). C'è da domandarsi in quale modo possa essere rispettato l'art. 148 in un cumulo di procedure, che il difetto del fallimento sociale rende acefalo: o che forse il giudice delegato investito delle domande di ammissione ai passivi dei soci illimitatamente responsabili discriminerà i creditori sociali dai creditori personali dei singoli soci e, ex officio, compilerà e renderà esecutivo lo stato passivo sociale pur in difetto della sentenza dichiarativa di fallimento? O che forse il curatore pur in difetto della dichiarazione di fallimento sociale erigerà l'inventario dei beni sociali separato e distinto dagli inventari dei beni personali dei singoli soci? Ma la critica dell'implicito (…) va più a fondo spinta affermando che il criticato orientamento giurisprudenziale depaupera coloro che, senza discriminazione, sono coinvolti nelle vicende della crisi d'impresa, solo in un momento successivo e a seguito di più impegnate indagini rivelatasi collettiva, dell'unica garanzia che l'art. 147 gli riserva: l'accertamento sia pure sommario dell'esistenza della società, tanto più difficile per quanto trattasi di organismi di fatto. (…) Ed allora qual è l'interesse cui la dichiarazione di fallimento implicita sociale serve? La sanatoria della pigrizia di cui i tribunali danno prova allorquando affrontano, nell'estrema varietà del concreto, la tematica dell'impresa collettiva. E' ora che l'orientamento giurisprudenziale sia revisionato e, soprattutto, che i tribunali affrontino con più aperto ed impegnato spirito la risoluzione dei problemi che allignano sotto gli artt. 147 e 148; non più fiduciosi della panacea che allo scarso loro impegno somministra la dichiarazione implicita di fallimento sociale”.
Il sopra riportato intervento consente di enucleare il principale motivo di non-ammissibilità della dichiarazione di fallimento implicita: il rischio di violazione dell'art. 148 l. fall. sulla distinzione delle masse attive e passive, rispettivamente, dei fallimenti dei soci illimitatamente responsabili e di quello della società. Parliamo di “rischio di violazione” in quanto non si può escludere che gli organi fallimentari mantengano comunque distinte le masse attive e passive, distinguendo tra creditori personali dei soci illimitatamente responsabili e creditori sociali, ma si tratta pur sempre di una mera eventualità rimessa alla discrezione degli organi del fallimento.
Inoltre, la dottrina si è domandata come i sostenitori del fallimento “implicito” possano superare le eccezioni secondo cui (i) una società (occulta o apparente) non fallisce se fallisce uno dei soci illimitatamente responsabili (art. 149 l. fall.) e (ii) una società composta soltanto da due soci viene a sciogliersi automaticamente (e quindi a cessare la sua esistenza) per effetto del fallimento di un socio, con la conseguenza che in forza dell'esclusione di diritto del socio fallito, prevista dall'art. 2288 c.c., il curatore del fallimento del socio viene ad essere creditore - nei confronti dell'altro socio – della liquidazione della quota societaria ed il socio superstite diventa imprenditore individuale se la pluralità dei soci non viene ricostituita nel termine di sei mesi (così Di Gravio, Ancora sul fallimento implicito, nota a Corte d'Appello Venezia, 30 ottobre 1993, in Dir. fall. 1994, II, 249 ss.).
Un'ulteriore criticità connessa alla dichiarazione implicita di fallimento riguarda specificamente il fallito per estensione, ovverosia colui che, per effetto della sentenza implicita, viene portato davanti al giudice fallimentare.
A tale proposito, è stato acutamente osservato (cfr. Di Gravio, La società di fatto: la fantastica gabbia del fallimento implicito cit., 14-15) come, a causa della mancata dichiarazione di fallimento della società di cui egli sarebbe socio, il fallito in estensione non possa, inter alia:
(i) proporre il concordato fallimentare ai creditori sociali e particolari concorrenti nel suo fallimento ai sensi dell'art. 154 l. fall., secondo cui: “Nel fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata, ciascuno dei soci dichiarato fallito può proporre un concordato ai creditori sociali e particolari concorrenti nel proprio fallimento”. Tale concordato ha l'effetto di liberare soltanto il socio rispetto ai creditori sociali e particolari che lo hanno liberato, ma non ha effetto nei confronti della società. I creditori sociali, cioè, conservano il diritto di concorrere per intero negli altri fallimenti, fino all'integrale pagamento;
(ii) avvalersi della previsione di cui all'art. 153 l. fall., secondo cui: “Salvo patto contrario, il concordato fatto da una società con soci a responsabilità illimitata ha efficacia anche di fronte ai soci e fa cessare il loro fallimento. Tuttavia i creditori particolari possono opporsi a norma dell'articolo 129, comma 2, alla chiusura del fallimento del socio loro debitore”.
E' stato ritenuto che, in seguito al concordato della società, i soci sono tenuti nei confronti dei creditori sociali nei limiti della percentuale concordataria, restando liberati con il soddisfacimento della medesima.
Veniamo ora brevemente a illustrare le motivazioni alla base della posizione (favorevole) al fallimento implicito assunta dalla giurisprudenza prevalente.
In particolare, alle critiche della dottrina secondo cui la mancata dichiarazione di fallimento della società comporterebbe l'inesistenza dei fallimenti dei soci illimitatamente responsabili, la giurisprudenza parla di “mere irregolarità procedurali” facilmente superabili, tanto che il fallimento della società di fatto, non dichiarato espressamente, andrebbe subito dichiarato se la sentenza del fallimento in estensione fosse revocata (così App. Venezia, 30 ottobre 1993, in Dir. fall. 1994, II, 249).
Quanto alla violazione dell'art. 148 l. fall. sulla distinzione tra masse attive e passive, la giurisprudenza ha precisato che la seconda sentenza di fallimento non importa la sostituzione di altri soggetti all'imprenditore individuale dichiarato fallito, ma individua ulteriori soggetti parimenti responsabili per le obbligazioni sociali, e quindi si avrebbe pur sempre una dichiarazione di fallimento autonoma, nonché connessa alla precedente, con conseguente applicabilità dell'art. 148 l. fall. per quanto attiene alla unicità del giudice delegato e del curatore ed alla distinzione tra patrimonio della società e dei singoli soci (così, Cass. 30 gennaio 1995, n. 1106 in Fall. 1995, 919 con nota di Panzani; Cass. 6 giugno 1975, n. 2238; Cass.17 marzo 1976, n. 977).
Infine, vale la pena menzionare la “lettura” che i giudici della Corte d'Appello di Torino nel decreto 30 luglio 2007 cit. hanno dato della giurisprudenza favorevole al fallimento implicito. Nel citato decreto - che esclude l'ammissibilità del fallimento implicito (“L'assoggettamento a fallimento del socio illimitatamente responsabile di una società di persone, nella specie di una s.p.a. socia di una società di fatto, presuppone la dichiarazione di fallimento della società partecipata”) – si sottolinea come tale giurisprudenza si sia (in realtà) limitata ad affermare l'ammissibilità di una dichiarazione implicita del fallimento della società, ravvisabile nella estensione del fallimento all'altro socio.
Senonché un conto è il contenuto della sentenza estensiva di fallimento, altro conto è il contenuto della istanza di estensione. Quanto al primo profilo, sarebbe condivisibile che la sentenza di estensione, ancorchè pronunciata formalmente solo nei confronti del socio illimitatamente responsabile, abbia anche implicitamente statuito il fallimento della società (e ciò perché “presupposto del fallimento del socio è il fallimento della società”). Mentre, quanto al secondo profilo, non sarebbe ammissibile una domanda di estensione che contenesse una richiesta di mero accertamento incidentale di una società di fatto, quale presupposto per la richiesta di estensione di fallimento direttamente all'altro socio. E ciò in quanto, avendo la sentenza dichiarativa di fallimento carattere costitutivo ed efficacia erga omnes, sarebbe inconcepibile un accertamento meramente incidentale di fallibilità.
Nel caso esaminato dalla Corte d'Appello torinese le istanze di estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile non contenevano alcuna richiesta di pronuncia di fallimento rivolta contro la società di fatto, ma soltanto la richiesta incidentale di accertamento dell'esistenza di tale società.
Pertanto, sulla base di quanto detto, la Corte d'Appello ribadiva che “(…) solo sul presupposto di una sentenza costitutiva la quale pronunci il fallimento della società con soci illimitatamente responsabili può pronunciarsi l'estensione del fallimento a questi ultimi” .

Osservazioni

La decisione della Corte di cassazione si muove indubbiamente lungo il percorso tracciato dalla giurisprudenza di legittimità sopra citata e si espone, pertanto, alle “critiche” mosse dalla dottrina ai fautori del fallimento implicito.
Ciò detto, vale anche la pena di evidenziare come il percorso logico-argomentativo svolto dalla Corte a sostegno della propria decisione si basi esclusivamente sulla teoria del fallimento implicito (con l'espresso richiamo del precedente più recente: la sentenza della Cassazione n. 10889/1996), mentre non venga “valorizzata”, ma soltanto accennata, la teoria della duplicità dei soggetti (arg. ex Cass. n. 3670/2007) su cui la dichiarazione di fallimento era basata. Infatti, il tribunale fallimentare di Pistoia ha richiamato esclusivamente questa seconda teoria nella sentenza di fallimento in estensione del socio accomandante divenuto illimitatamente responsabile. A ben vedere, infatti, la teoria del fallimento implicito è stata introdotta dalla Corte d'Appello di Firenze per “rafforzare” quella della duplicità dei soggetti, ad ulteriore conferma della legittimità del fallimento in estensione dl socio accomandante.
Più in generale, venendo al dibattito in essere sulla ammissibilità o meno della dichiarazione implicita di fallimento e volendo svolgere qualche ulteriore riflessione, si può notare come alla base di questa teoria vi sia la “convinzione” che la persona fisica socia illimitatamente responsabile di una società di persone non possa essere, allo stesso tempo, anche un imprenditore individuale.
Come osservato da autorevole dottrina “la spiegazione della sufficienza della dichiarazione implicita di fallimento sociale” sta tutta nel supporre che i soci abbiano investito tutto il loro patrimonio in una sola società di persone (regolare o meno) divenendo solidalmente ed illimitatamente responsabili per i relativi debiti; così che diviene inutile dichiarare il fallimento della società a fianco del fallimento dei singoli soci in proprio, in quanto questi ultimi non hanno beni all'infuori di quelli conferiti nella società stessa. E se non hanno beni personali, non devono neppure avere creditori personali, posto che “nessuno fa credito a chi è privo di beni” (Andrioli cit., 604).
Che questa sia la “ratio” alla base della giurisprudenza favorevole al fallimento implicito pare trovare conferma nella sentenza della Cassazione n. 1106 del 30 gennaio 1995 cit. in tema di fallimento del socio occulto di società occulta. Qui si afferma che “Se, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore apparentemente individuale, risulti che egli era socio di una società di fatto, anche se occulta, esercitante la stessa impresa, deve essere dichiarato il fallimento della società e di altri soci occulti, senza che sia necessario provare l'insolvenza di questi ultimi, essendo il loro fallimento conseguenza automatica del fallimento della società (art. 147, comma 1, l. fall.)”.
Secondo la sentenza, il presupposto affinché tale estensione possa avvenire, senza un nuovo accertamento dell'insolvenza, è per l'appunto l'identità tra l'impresa apparentemente facente capo all'imprenditore individuale e quella che si assume gestita dalla società occulta. Se, invece, tale identità non sussiste, si può ipotizzare uno scenario in cui l'imprenditore individuale sia anche socio di altra società (occulta o meno); in quest'ultimo caso, però, non si potrà riferire l'accertamento dell'insolvenza dell'impresa individuale a quella della impresa societaria occulta partecipata dall'imprenditore e si rientrerà nell'ipotesi disciplinata dall'art. 149 l. fall.: il fallimento di uno o più soci illimitatamente responsabili non produce il fallimento della società, determinando soltanto lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente a quel socio. In tal caso il curatore del fallimento del socio avrà un diritto di credito nei confronti della società avente ad oggetto la quota di liquidazione del socio fallito.

Conclusioni

L'analisi che precede induce a ritenere che molti siano gli argomenti “contro” la dichiarazione implicita di fallimento e di come quest'ultima sia potenzialmente idonea a pregiudicare la posizione di più di un soggetto coinvolto nella procedura fallimentare; ed in particolare non solo quella dei creditori personali dei soci illimitatamente responsabili, ma anche dello stesso socio dichiarato fallito in estensione, il quale, come sopra detto, non può beneficiare, tra l'altro, degli effetti esdebitatori del concordato ex art. 153 l. fall.
Quanto alla possibilità – che pare sottesa alla giurisprudenza sul fallimento implicito - che i soci abbiano fatto confluire tutti i propri beni nel patrimonio della società di fatto, vale la pena evidenziare come, nella realtà, non sia sempre vero che chi non è titolare di beni non possa contrarre debiti. Pertanto, quand'anche ricorresse questa particolare ipotesi, la mancata dichiarazione di fallimento della società potrebbe dar luogo a violazione del disposto dell'art. 148 l. fall.
Infine, quanto alla teoria della duplicità dei soggetti argomentata dal Tribunale di Pistoia sulla base della sentenza della Cassazione n. 3670/2007, anche questa tesi non convince fino in fondo e si espone alle medesime “contestazioni” della teoria del fallimento implicito. Infatti, sostenere che la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore individuale si riferisca in realtà anche alla società di persone a lui facente capo, che sia stata cancellata, ma non ancora estinta, presuppone quantomeno una verifica preliminare sulla coincidenza tra l'impresa gestita dall'imprenditore individuale e quella gestita dalla società. Coincidenza che, ragionevolmente, sussisteva nel caso di specie, in quanto leggendo la sentenza di fallimento sembra di comprendere che tutti i rapporti facenti capo alla società fossero confluiti nell'impresa individuale.
Tuttavia, in linea generale, se anche tale coincidenza ricorresse - cioè se anche l'imprenditore avesse destinato tutti i propri beni nella società - rimarrebbe sempre la possibilità che quell'imprenditore individuale abbia contratto debiti al di fuori dell'impresa (ex) societaria gestita.
In conclusione, la necessità dell'accertamento del presupposto oggettivo dell'insolvenza della società – e dunque la non condivisibilità della teoria del fallimento implicito - discende dal fatto che la società risponde soltanto dei debiti relativi all'impresa mentre l'imprenditore individuale risponde anche dei debiti personali ad essa estranei, di talché è teoricamente possibile che dalla considerazione dei soli debiti relativi all'impresa emerga l'insussistenza dell'insolvenza in precedenza accertata tenendo conto dei debiti personali del soggetto in origine dichiarato fallito come imprenditore individuale.

Riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

Sommario