Scissione negativa e valutazione dell’insolvenza della società scissa e di quella beneficiaria

Danilo Galletti
23 Aprile 2014

Non è ammissibile la scissione mediante assegnazione a società neocostituita di elementi dell'attivo e del passivo della società scissa aventi valore negativo.
Massima

Non è ammissibile la scissione mediante assegnazione a società neocostituita di elementi dell'attivo e del passivo della società scissa aventi valore negativo.
Ove una tale ipotesi di scissione abbia comunque a verificarsi, ed i creditori della società beneficiaria non si avvalgano del potere di opposizione, deve trovare integrale applicazione l'art. 2506-quater c.c., sicché l'insolvenza della società scissa e della beneficiaria devono essere valutate separatamente, avendo riguardo rispettivamente alle obbligazioni in concreto rimaste imputate e transitate a ciascuna di esse.

Il caso

Una società di capitali si scinde, assegnando ad un'altra appositamente costituita un compendio di elementi del proprio attivo e del proprio passivo, in concreto avente valore negativo.
I creditori dell'una e dell'altra società non si avvalgono del potere di opposizione di cui all'art. 2503 c.c. e così la scissione si perfeziona con l'iscrizione nel Registro delle imprese dell'atto di scissione.
Viene in seguito chiesto il fallimento tanto dell'una, quanto dell'altra società.
Il Tribunale e la Corte di Appello considerano le due società responsabili in solido delle obbligazioni imputate alla società beneficiaria, e dunque dichiarano il fallimento di entrambe.
La Suprema Corte stima che la scissione, realizzata con assegnazione di patrimonio netto “negativo” a società di nuova costituzione, sarebbe stata illegittima ed incompatibile con l'ordinamento societario.
Ciononostante, non essendosi avvalso alcuno dei soggetti interessati e legittimati dei poteri tipici di reazione, l'operazione si è ormai consolidata.
Deve dunque trovare integrale applicazione l'art. 2506-quater, comma 3, c.c., in forza del quale ciascuna società deve rispondere dei debiti non soddisfatti da quella cui essi sono stati imputati in forza del progetto di scissione soltanto nei limiti del valore effettivo del patrimonio trasferito o rimasto.
La sentenza di fallimento viene dunque cassata, con rinvio alla Corte distrettuale affinché ripeta la valutazione in questione, in applicazione del principio di diritto enunciato.

Le questioni giuridiche

La dottrina ritiene per lo più che la scissione con assegnazione di patrimonio netto negativo sia in linea di principio valida, purché ciò non comprometta altri valori inderogabili dell'ordinamento societario (cfr. per tutti Magliulo, La scissione delle società, Milano, 2012, 169 ss.). E questo benché si possa così avere un caso di scissione senza rapporto di cambio, circostanza non completamente anomala, soprattutto nell'eventualità in cui le due compagini, della società scissa e della beneficiaria, coincidano.
Bisogna tuttavia distinguere fra valore contabile del patrimonio trasferito e valore effettivo negativo dello stesso (Scognamiglio, Le scissioni, in Tratt. Colombo- Portale, Torino, 2004, 150 ss.).


Nel primo caso non è da escludere che gli elementi dell'attivo, se rivalutato, possano compensare lo sbilancio contabile del compendio assegnato, ed allora il problema attiene solo all'applicabilità delle disposizioni in tema di tutela dell'effettività del capitale (artt. 2343 ss. c.c.).
Nel secondo, invece, il problema può presentarsi in termini critici, ma non necessariamente insuperabili.
Ad esempio, può darsi che la società beneficiaria sia preesistente, e così che disponga di un proprio patrimonio netto positivo, in grado di assorbire gli effetti negativi dell'assegnazione.
Quando la società sia di nuova costituzione, è altresì possibile che contestualmente partecipino all'operazione soggetti terzi che conferiscano propri beni, di valore tale da consentire comunque di dotare la società beneficiaria di un capitale sufficiente.
In caso contrario, la scissione non soddisfa le norme inerenti alla costituzione della società beneficiaria e non è comunque possibile.
Nell'ipotesi in cui il patrimonio netto assegnato sia effettivamente negativo, l'applicazione dell'art. 2506-quater, comma 3, c.c. non è pure evidentemente possibile (così Magliulo, op. cit., 587), o meglio, la beneficiaria non può rispondere in alcun modo delle obbligazioni rimaste in carico alla scissa e non adempiute.


Si vede bene come apparentemente l'operazione possa danneggiare solo i creditori della beneficiaria, preesistenti se detta società sia già esistente, o successivi se invece essa sia di nuova costituzione.
Nel primo caso essi potrebbero avvalersi del potere di opposizione ex art. 2503 c.c.; nel secondo essi dovrebbero valutare la capacità patrimoniale del debitore al momento in cui contraggono l'obbligazione.
Non vi sarebbe quindi alcun ulteriore interesse meritevole di tutela.
In realtà la scissione costituisce un tipico strumento potenzialmente elusivo della responsabilità patrimoniale, assai pericoloso, anche per la scarsa applicazione (ed appetibilità) dell'istituto delle opposizioni, laddove l'iscrizione dell'atto di scissione nel Registro delle Imprese consolida gli effetti dell'operazione, impedendo qualsiasi accertamento successivo di invalidità e/o patologia, e financo di inesistenza (Cass., 1 giugno 2012, n. 8864).
Ma anche i creditori della società scissa possono riportare potenzialmente un pregiudizio, ove gli elementi dell'attivo trasferiti fossero idonei a produrre potenzialità positive se rimasti nel patrimonio della società-madre.

Il pregiudizio di cui all'art. 2503 c.c., tuttavia, viene interpretato tradizionalmente in termini patrimoniali e statici, così l'istituto non risulta concretamente sufficiente a “coprire” tutte le istanze di tutela.
Residua pertanto un potenziale spazio applicativo per la revocatoria.
E' nota al riguardo la disputa dogmatica in ordine alla natura giuridica della scissione, all'interno della quale si collocano coloro che sostengono la natura meramente “modificativa” della stessa (per tutti, autorevolmente, Ferro- Luzzi, La nozione di scissione, in Giur. comm., 1991, I, 1066 ss.; più recentemente Scognamiglio, Le scissioni, cit., 200 ss.), la quale avrebbe efficacia soltanto sull'organizzazione oggettiva della società, laddove nulla muterebbe a seguito dell'operazione in ordine al momento ed all'aspetto soggettivo della vicenda.
Pur nel caso in cui la scissione abbia natura parziale, e così lasci permanere il soggetto originario, il fenomeno troverebbe spiegazione in un fenomeno di successione a titolo universale, benché sui generis, per cui non potrebbe mai dirsi che la società beneficiaria, soprattutto se di nuova costituzione, sia un soggetto realmente diverso dalla scissa; e l'effetto costituito dal trasferimento di assets dal patrimonio della scissa a quello delle beneficiarie troverebbe spiegazione in un fenomeno di riorganizzazione della struttura e dell'attività della società scissa, che il Legislatore, anche sulla scorta di sollecitazioni comunitarie, intenderebbe incentivare, attraverso la consapevole sottrazione di tale successione alle norme che regolano in via generale la circolazione dei beni e dei diritti.
A fronte di tale ricostruzione concettuale, stanno gli interpreti che enfatizzano il momento alienativo e traslativo (cfr. ancora in senso autorevole Belviso, La fattispecie della scissione, in Giur. comm., 1993, I, 521 ss.; più di recente Picciau, Della scissione, in Trasformazione, fusione, scissione. Commentario a cura di Bianchi, Milano, 2006, 1032 ss.), che ha per oggetto una parte del patrimonio della società scissa, collocando gli aspetti riorganizzativi sullo sfondo dei motivi economici che animano l'operazione, e talvolta l'argomento testuale costituito dal raffronto fra le norme sulla fusione, che specificano come la società risultante “prosegua” i rapporti delle società originarie, “assumendone” i diritti ed obblighi (art. 2504-bis), laddove invece nella scissione si discorre di “assegnazione” del patrimonio (art. 2506 c.c.).

Osservazioni

Ritengo che l'impostazione in termini “organizzativi” debba essere certamente privilegiata nella ricostruzione della fattispecie, e che la stessa corrisponda alla sistematica attuale del diritto della scissione, dovendosi svalutare l'argomento letterale riferito all'art. 2506 c.c., anche alla luce della natura ambivalente dell'espressione “assegnare” (a mio avviso ben predicabile anche in situazioni caratterizzate pure da successioni a titolo universale altrettanto “atipiche”, come nella liquidazione della società con assegnazione del residuo ai soci).
L'ordinamento, infatti, ha istituito la scissione al precipuo fine di agevolare le operazioni di riorganizzazione di attività societarie, in modo da consentire ristrutturazioni e ricomposizioni dei compendi imprenditoriali esercitati in tale forma in modo più snello rispetto alle forme alternative del trasferimento o del conferimento di azienda.


Ciò si ricava dalla ricostruzione delle finalità della Direttiva comunitaria 89/281, che fu attuata in Italia con il d.lgs. n. 22/1991, nonché dall'esame sistematico della disciplina, che sul punto non risulta modificata dalla Riforma del 2003-2004.
Talune indicazioni normative si possono ricavare ad es. da discipline settoriali, come quella in tema di assicurazioni private, ove l'art. 1684 cod. ass. ha cura di precisare che il trasferimento di portafogli mediante scissione non può importare risoluzione del contratto.
Attraverso la scissione pertanto la società continua ad esistere, anche se attraverso le beneficiarie, ponendo in essere una mera riorganizzazione della sua struttura oggettiva.
Tale ricostruzione ben si coniuga del resto con le impostazioni, ancora dominanti, sul tema della personalità giuridica descritta in termini “analitici”, che enfatizzano la strumentalità del concetto al perseguimento di fini specifici, volti a rendere più solleciti i traffici commerciali attraverso la instaurazione di “categorie di sintesi”, idonee a semplificare determinate operazioni.
Essa mi pare inoltre risultare dominante nella letteratura moderna (cfr., soltanto per una rassegna aggiornata delle posizioni, Centonze, Il trasferimento d'azienda nella scissione di società, Milano, 2012, 13 ss.; recepiscono l'impostazione come dominante, al fine di studiare il fenomeno della successione nelle posizioni passive, Minneci, Trasferimento di azienda e regime dei debiti, Torino, 2007, 98; La Porta, L'assunzione del debito altrui, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da Schlesinger, Milano, 2009, 443. L'esposizione più completa degli argomenti, e la dimostrazione più convincente, tuttavia, è ancora quella di Scognamiglio, op. loc. citt.), e non contrastante con le scarse indicazioni della giurisprudenza (cfr. ad es. Cass., 6 ottobre 2008, n. 9897, che risolve una fattispecie in realtà intermediata dall'art. 2112 c.c., la cui applicazione alla scissione, per la specialità degli interessi coinvolti, non può essere revocata in dubbio; Cass., 27 aprile 2001, n. 6143, sia pure in tema di scissione “totale”).
La soluzione al quesito generale-ricostruttivo, tuttavia, non sembra dover influenzare la questione relativa alla revocabilità, posto che comunque non è dubbio che l'operazione comporti un'attribuzione patrimoniale, ciò che appare sufficiente al fine di predicare l'applicabilità degli artt. 67 ss. l. fall.


La giurisprudenza più recente (Trib. Catania, 9 maggio 2012, in Fall. 2013, 983; Trib. Palermo, 26 gennaio 2004, in Giur. comm., 2005, II, 250; Trib. Livorno, 2 settembre 2003, in Fall., 2004, 1138) sembra determinata nell'affermare la compatibilità della revocatoria fallimentare con la scissione, svalutando gli argomenti relativi alla natura “organizzativa” e non scambistica dell'atto (pacifica è del resto la revocabilità del conferimento in società), della preclusione ex art 2504-quater c.c. alla possibilità di invalidare l'atto dopo l'iscrizione nel Registro delle Imprese (poiché l'accoglimento della revocatoria non annulla l'atto di scissione, ma solo dichiara l'inefficacia del trasferimento), nonché in ordine alla disponibilità dell'istituto dell'opposizione ex art. 2503 c.c. (sottoposto a brevi termini di esercizio, e condizionato da una nozione di pregiudizio incompatibile con la funzione antindennitaria della revocatoria).
Assai discutibile tuttavia è l'applicazione dell'art. 67, comma 1, n. 1, l. fall., in tema di atti “sproporzionati”, al caso di assegnazione di patrimonio con attività di valore inferiore al quarto rispetto alle passività, atteso che non esiste in realtà alcuna corrispettività nella struttura dell'atto.
E così pure assai “critica” appare l'applicabilità della revocatoria “ordinaria”, anche se esercitata dal curatore fallimentare ai sensi dell'art. 66 l. fall., atteso che il concetto di pregiudizio posto a fondamento dell'istituto non si differenzia troppo da quello dell'opposizione ex art. 2503, sicché la ratio di tutela dell'istituto potrebbe essere già “assorbita”, a differenza del rimedio di diritto concorsuale, che invece dovrebbe sfuggire al barrage di cui all'art. 2504-quater c.c.

Riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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