Presunzione assoluta di assoggettamento all'IRAP di società ed enti

Andrea A. Salemme
11 Maggio 2016

Società ed enti vanno sempre soggetti all'IRAP, in quanto, a termini dell'art. 2, secondo periodo, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, l'attività dai medesimi esercitata costituisce in ogni caso presupposto d'imposta; ne consegue che, ai fini dell'imposizione, dinanzi ad una società o ad un ente, si prescinde dall'accertamento della sussistenza del requisito dell'autonoma organizzazione, essendo sufficiente la constatazione della loro natura giuridica collettiva.
Premessa

Società ed enti vanno sempre soggetti all'IRAP, in quanto, a termini dell'art. 2, secondo periodo, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, l'attività dai medesimi esercitata costituisce in ogni caso presupposto d'imposta; ne consegue che, ai fini dell'imposizione, dinanzi ad una società o ad un ente, si prescinde dall'accertamento della sussistenza del requisito dell'autonoma organizzazione, essendo sufficiente la constatazione della loro natura giuridica collettiva.

Fatto e decisione

In una controversia concernente l'assoggettamento all'IRAP di una società semplice esercente l'attività di amministrazione condominiale, Cass. civ., sez. un., 14 aprile 2015, n. 7371, pur ricordato che il presupposto impositivo è rappresentato dall'autonoma organizzazione, enuncia il principio di diritto secondo cui società ed enti indefettibilmente subiscono l'IRAP per il fatto in sé della strutturazione pluripersonale.

Il discorso è ancorato ad una rigorosissima esegesi testuale. A termini del secondo periodo dell'art. 2 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, “l'attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto di imposta”; tanto significa che, a fronte della regola generale per cui, giusta il primo periodo, è “l'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi” a costituire il presupposto dell'imposta, se vengono in rilievo soggetti collettivi eretti nelle forme delle società e degli enti, l'elemento differenziale legittimante l'imposizione non è più l'autonoma organizzazione (per le prospettive, tipicamente economiche, di incremento reddituale che secondo l'id quod plerumque accidit discendono dalla combinazione dei fattori della produzione), ma la conformazione giuridica che dà veste a tipologie peraltro affatto differenti di fenomeni aggregativi.

Il dubbio che – senza pretese di risposte – si cercherà di scandagliare è la compatibilità di siffatta lezione con il tessuto costituzionale. Non si tratta di un esercizio meramente speculativo, atteso che la stessa Sez. VI-T, 25 febbraio 2015, n. 3870 (in Il Fisco, 2015, 12, 1187 nota di DENARO, e in Riv. Giur. Trib., 2015, con nota di BODRITO), nel sollecitare la rimessione alle Sezioni Unite della questione se sia oggetto di necessaria rilevanza ai fini dell'IRAP l'esercizio di attività professionale svolta nelle forme giuridiche societarie (quale che ne sia la tipologia giuridica, ma con particolare riguardo alla società semplice), osserva come, alla luce dell'ossequio prestato dalla giurisprudenza di legittimità all'insegnamento della Corte Costituzionale nella sentenza 21 maggio 2001, n. 156 (tra l'altro in Riv. dir. trib., 2001, 783 con nota di: FALSITTA, Dir. prat. trib., 2001, 659 con nota di: MARONGIU, Giur. it., 2001, 1979 con nota di: SCHIAVOLIN, Rass. trib., 2001, 833 con nota di: BATISTONI FERRARA) in punto di centralità del modo autonomamente organizzato in cui l'attività produttiva è svolta, “non è inibito desumerne – per estensione logica – un principio di carattere generale nel senso che non è prospettabile neppure una corrispondenza biunivoca tra tipologia giuridica scelta per l'esercizio dell'attività produttiva e sottoposizione ad IRAP, dovendosi comunque indagare il presupposto imprescindibile dell'autonoma organizzazione”.

Condizioni della legittimità costituzionale dell'IRAP

La Corte Costituzionale con sentenza n. 156/2001 fa salva la legittimità costituzionale dell'IRAP rimarcando la ragionevolezza della discrezionalità legislativa nell'individuare l'organizzazione quale presupposto impositivo correlato ad un nuovo indice di capacità contributiva, rappresentato dal valore aggiunto prodotto, o VAP, che tale è in quanto letteralmente generato da attività autonomamente organizzate.

Ben noti sono i due passaggi centrali della motivazione: da una parte, il VAP “altro non è che la nuova ricchezza creata dalla singola unità produttiva, che viene, mediante l'IRAP, assoggettata ad imposizione ancor prima che sia distribuita al fine di remunerare i diversi fattori della produzione, trasformandosi in reddito per l'organizzatore dell'attività, i suoi finanziatori, i suoi dipendenti e collaboratori”; dall'altra parte, il carattere di realità dell'imposta, che ne consegue, si esprime attraverso la percussione dell'organizzatore dell'attività, il quale “è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura, concorrono alla sua creazione”.

L'organizzazione è – e non può non essere – autonoma perché il VAP origina dalla singola – e, perciò, anche autonoma (in quanto economicamente circoscrivibile) – unità nella linea di produzione e scambio dei beni e dei servizi: in ciò risiede la ragione per cui l'unità produttiva e per essa il suo organizzatore, che è organizzatore dei fattori della produzione, sono (fors'anche un pò artificialmente) individuati come soggetti passivi, siccome unici attori del processo economico capaci di assumersi il carico impositivo.

La riprova di un'adesione della Corte ad un concettualismo imperniato su un prelievo anticipato, là dove la ricchezza si concentra prima che si disperda nei rivoli della remunerazione dei fattori della produzione, si ha in ciò che l'IRAP è costruita alla stregua di un costo, traslabile solo fattualmente a valle del ciclo produttivo, ma giuridicamente sottratta al meccanismo della rivalsa: invero, “come si verifica per qualsiasi altro costo (anche di carattere fiscale) gravante sulla produzione, l'onere economico dell'imposta potrà essere infatti trasferito sul prezzo dei beni o servizi prodotti, secondo le leggi del mercato, o essere totalmente o parzialmente recuperato attraverso opportune scelte organizzative”. Sono la bravura dell'imprenditore ma soprattutto la sua forza economica a consentirgli di scansare il costo dell'IRAP scaricandolo su chi viene dopo di lui nella catena di immissione al consumo.

La giustificazione teorica dell'IRAP fornita dalla Corte sarebbe tuttavia incompleta ove se ne omettesse una contestualizzazione nella cornice della questione di legittimità costituzionale oggetto di scrutinio, recriminante l'inaccettabilità di un'identica forma d'imposizione riferita a due entità eterogenee quali sono il reddito d'impresa e quello di lavoro autonomo.

Sul versante della chiamata in causa del reddito, la Corte ha buon agio a ribadire che “l'IRAP non è un'imposta sul reddito, bensì un'imposta di carattere reale che colpisce – come già si è osservato – il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate”, specificando che “l'assoggettamento all'imposta … del valore aggiunto prodotto da ogni tipo di attività autonomamente organizzata, sia essa di carattere imprenditoriale o professionale, è d'altro canto pienamente conforme ai principi di eguaglianza e di capacità contributiva – identica essendo, in entrambi i casi, l'idoneità alla contribuzione ricollegabile alla nuova ricchezza prodotta – né appare in alcun modo lesivo della garanzia costituzionale del lavoro”. Essa tuttavia non si ferma qui, giacché, subito in appresso, soggiunge: “È tuttavia vero … che mentre l'elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l'attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un'attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui”.

La chiave di volta concepita per la tenuta dell'intera architettura è additata dalla Corte nella necessità – dinanzi ad un'attività professionale – di un accertamento in concreto, ossia caso per caso, della sussistenza dell'autonoma organizzazione, perché “è evidente che nel caso di una attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione – il cui accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto – risulterà mancante il presupposto stesso dell'imposta sulle attività produttive …, con la conseguente inapplicabilità dell'imposta stessa”.

L'organizzazione come caratteristica costante dell'impresa

Così brevemente ripercorsi i fondamenti dell'IRAP acquisiti nella giurisprudenza costituzionale, vero è che il passaggio sulla connaturalità dell'elemento organizzativo all'impresa e non anche al lavoro autonomo costituisce solo un obiter dictum, ma è anche vero che esso è l'unico snodo in grado di saldare la sostanza economica del presupposto, quale momento di estrinsecazione di una forma di ricchezza novella e perciò tassabile, con la diversità giuridica tra impresa e lavoro autonomo, che, per ragioni storiche e positive, camminano su due binari differenti salvo l'unico punto di contatto rappresentato dall'ipotesi di cui all'art. 2238, comma 1, c.c.; più precisamente: ben può aversi produzione di beni e servizi anche nel caso dell'esercente arti e soprattutto professioni; ma costui è esonerato dallo statuto dell'imprenditore fintantoché, ai sensi dell'art. 2238, comma 1, c.c., “l'esercizio della professione costituisce elemento di una attività organizzata in forma di impresa”. Di solito si fanno gli esempi del medico che gestisce una clinica o una casa di cura o dell'insegnante che gestisce un istituto di istruzione o dell'artista che gestisce il laboratorio di riproduzione delle proprie opere (RAZZOLINI, sub Art. 2238, in ALPA-MARICONDA (a cura di), Codice Civile commentato, Assago, 2013); ma anche del farmacista, che (si avvalga o meno di collaboratori) le leggi sanitarie collocano a capo di una vera e propria azienda finalizzata alla vendita di medicinali e, oggi, non solo (GALGANO, Trattato di diritto civile, III, Padova, 2013). L'esonero in specie del professionista dallo statuto dell'imprenditore – valido, quanto alle professioni intellettuali, solo per quelle protette ex artt. 2229 e 2230 c.c. – comporta tra l'altro che il complesso di beni dal medesimo unitariamente organizzati non è un'azienda, giacché stante l'art. 2555 c.c. per aversi un'azienda occorre che si tratti di beni unitariamente organizzati, sì, ma dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa.

Chiusa la digressione che precede, è la centralità del passaggio sulla natura ontologicamente organizzata dell'impresa nella logica del percorso motivazionale della sentenza n. 156/2001 della Corte Costituzionale ad imporre di tenerne conto in via diretta in ogni ragionamento concernente l'IRAP.

Tale del resto è l'avviso costantemente espresso dalla S.C., che, sin dai tempi del c.d. IRAP-day, è esalta nella trama dell'impresa l'immanenza dell'organizzazione onde assoggettare sempre l'impresa all'IRAP. Per esempio, nella motivazione di Cass. civ., sez. trib., 16 febbraio 2007, n. 3678 si legge che … per le imprese (nelle quali vanno fiscalmente inquadrati anche i soggetti che operano in contabilità semplificata redigendo il quadro G della dichiarazione dei redditi) il requisito della autonoma organizzazione è intrinseco alla natura stessa dell'attività svolta (art. 2082 c.c.) e dunque sussiste sempre il presupposto impositivo idoneo a produrre VAP tassabile. A maggior ragione per le società per le quali l'attività esercitata è dalla legge presunta iuris et de iure costituire presupposto di imposta …. Del resto la stessa Corte Costituzionale, nella citata sentenza del 2001, non ha affatto ricollegato tale requisito alla sola realizzazione di ricchezza [per il] tramite [di] una organizzazione in forma imprenditoriale ma anzi ha riconosciuto – rispetto all'attività di lavoro autonomo in cui la prestazione personale del contribuente è di norma essenziale – la possibile ricorrenza del requisito organizzativo in termini propri e distinti da quelli caratterizzanti l'impresa”.

Val solo la pena di aggiungere che siffatte affermazioni (replicate, per rimanere nell'ambito dell'IRAP-day, in Cass. civ., sez. trib., 16 febbraio 2007, nn. 3676 e 3672) corrispondono – secondo la sez. VI-T, 13 ottobre 2014, n. 21614 – a “principi ormai sedimentali” nella giurisprudenza di legittimità.

L'esempio delle attività ausiliarie

L'impianto per cui l'impresa è organizzata per definizione mentre il lavoro autonomo non lo è ma può esserlo ha trovato il più fulgido esempio di applicazione a proposito delle attività ausiliarie ex art. 2195 c.c.

Con riferimento ad esse, infatti, nelle sentenze addì 26 maggio 2009, nn. 12111, 12110, 12109 e 12108, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno bensì affermato che l'esercizio delle attività di agente di commercio e di promotore finanziario è escluso dall'applicazione dell'IRAP qualora non si tratti di attività autonomamente organizzata; ma in tanto tale conclusione hanno potuto guadagnare in quanto hanno previamente chiarito che, “poiché la persona fisica può svolgere le attività predette, sia come imprenditore individuale, sia come lavoratore autonomo, purché ne risultino accertate le relative condizioni, diventa essenziale verificare quale sia, tra il polo dell'impresa e il polo del lavoro autonomo, la collocazione dell'esercizio delle attività ausiliare di cui all'art. 2195 c.c., nel cui quadro si collocano tanto l'agente di commercio, quanto il promotore finanziario”.

Alla luce di siffatto inquadramento, pertanto, deve essere letto il famoso asserto – linguisticamente ripreso da Corte Costituzionale 26 marzo 1980, n. 42, dichiarativa dell'illegittimità costituzionale degli artt. 4 della Legge 9 ottobre 1971, n. 825, e art. 1 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 599, in quanto assoggettavano all'ILOR anche i redditi di lavoro autonomo, non assimilabili ai redditi d'impresa – dell'esistenza di un'“area grigia” che si estende “tra il ‘territorio dell'impresa' e il ‘territorio del lavoro autonomo'”, altrimenti definita una linea mobile di confine, rappresentata dallo svolgimento delle attività ausiliarie di cui all'art. 2195 c.c., le quali, pur essendo ai fini delle imposte sul reddito considerate produttive di reddito d'impresa, possono essere (e spesso sono) svolte dal soggetto senza ‘organizzazione di capitali o lavoro altrui'. Se, infatti, si considerassero ai fini IRAP queste attività tout court ‘attività di impresa', l'imposta non troverebbe corrispondenza nella sua ratio, e finirebbe per colpire una ‘base fittizia', un ‘fatto non reale', in contraddizione con una interpretazione costituzionalmente orientata del presupposto impositivo. Non è, infatti, la oggettiva natura dell'attività svolta ad essere alla base dell'imposta, ma il modo – autonoma organizzazione – in cui la stessa è svolta ad essere la razionale giustificazione di una imposizione sul valore aggiunto prodotto, un quid che eccede il lavoro personale del soggetto agente ed implica appunto l'‘organizzazione di capitali o lavoro altrui': se ciò non fosse, e il lavoro personale bastasse, l'imposta considerata, non solo non sarebbe vincolata all'esistenza di una ‘autonoma organizzazione', ma si trasformerebbe inevitabilmente in una sostanziale ‘imposta sul reddito'”.

Riflessioni problematiche

Le maglie dello schema modellato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 156/2001, si attagliano perfettamente al terreno delle attività ausiliarie, giacché su detto terreno non si pongono questioni qualificatorie, ma solo problemi di verifica fattuale. Per convincersene basti considerare che, sussistendo in astratto la possibilità della concorrenza delle due qualificazioni dell'imprenditore e del lavoratore autonomo, una volta accertati gli elementi inducenti all'una o all'altra, ne discende l'applicazione del pertinente statuto: se si tratta di imprenditore, questi va soggetto all'IRAP; se si tratta di lavoratore autonomo, questi può andarvi soggetto alla sola condizione che – similmente ma non identicamente all'imprenditore – possieda un'organizzazione per dimensioni e qualità idonea ad accrescerne le potenzialità produttive.

Come si può vedere, il lavoratore autonomo pone l'esigenza di un duplice accertamento di fatto: un primo per stabilirne la qualifica ed un secondo, proprio solo della sua qualifica, per stabilirne l'eventuale natura organizzata.

Ma, tornando all'IRAP, il presupposto impositivo rimane sempre lo stesso sia in confronto dell'imprenditore, che è organizzato per definizione, che in confronto del lavoratore autonomo, che, se lo è, subisce la medesima sorte del primo, perché diversamente si realizzerebbe un'irragionevole disparità di trattamento rilevante ex art. 3, comma 2, Cost.

Le maglie di detto schema, tuttavia, non sono in grado di incasellare criticità rispetto alle quali a venire in rilievo non è una teorica convergenza esterna di figure soggettive, risolvibile in maniera netta a fronte della disamina della realtà, ma l'impianto interno delle categorie su cui le qualificazioni di per se stesse si fondano. In tale secondo caso, infatti, l'area grigia, ben lungi dal risolversi in un concorso formale di fattispecie, penetra gli ambiti delle loro definizioni per minarne a priori la capacità descrittiva della realtà.

La vicenda (anche degli enti ma soprattutto) delle società, sottoposta alla cognizione delle Sezioni Unite nella sentenza che si commenta, ne è un esempio eclatante; ma forse ancor di più lo è quella dei piccoli imprenditori, che, secondo la definizione dell'art. 2083 c.c., si identificano con “i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio o dei componenti della famiglia”.

Nell'uno ed in maniera ancora più evidente nell'altro caso, l'area grigia, anziché costituire occasione di esercizio di criteri semplificatori, diviene terreno di contrapposizione tra i dogmi del diritto civile, che ricama sulla connaturalità dell'organizzazione all'impresa per rimarcare – con l'avallo della giurisprudenza costituzionale – che l'imprenditore è organizzatore (o compositore, nel senso letterale del termine) dei fattori della produzione, e la versatilità del diritto tributario, che, dovendo confrontarsi con il canone dell'autonoma organizzazione come momento focale della meccanica impositiva dell'IRAP, si domanda se davvero il concetto di impresa implica sempre e comunque una correlazione sinonimica con quello di organizzazione viepiù autonoma.

Occorre subito sgombrare il campo da un possibile equivoco, derivante dal rilievo che il diritto tributario di per sé conosce una nozione d'impresa finanche più lata di quella civilistica. Ci si riferisce alla circostanza che, “mentre in forza dell'art. 2082 c.c. è imprenditore colui che ‘esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi', l'art. 55 del d.P.R. n. 917/1986 e l'art. 4 del d.P.R. n. 633/1972, prescindendo … dal concetto di organizzazione (il quale ha carattere residuale), considerano imprenditori coloro che svolgono una delle attività indicate dall'art. 2195 c.c. e, ai soli fini dell'Irpef, coloro i quali svolgono una delle attività agricole di cui all'art. 32, lett. b) e c), del TUIR, eccedendo i limiti ivi indicati, mentre, ai fini Iva, anche coloro che svolgono qualunque attività di cui all'art. 2135 c.c. (compresa, quindi, a differenza dell'Irpef, l'attività di coltivazione e senza alcun limite quantitativo per l'allevamento e le attività agricole connesse) …. La conseguenza sta nel fatto che, con riferimento ai tributi suddetti, saranno considerati imprenditori tutti quei soggetti che il codice civile annovera tra i lavoratori autonomi per il solo fatto di svolgere una delle attività sopra indicate” (ODOARDI, Esclusa l'IRAP per i piccoli imprenditori: spunti per una nuova lettura del presupposto impositivo, in Riv. dir. trib., 2011).

È facile osservare che, sebbene la riforma degli anni '70, intervenendo ai fini dell'IRPEF e dell'IVA, producesse indirettamente effetti anche sull'ILOR, per certi versi antesignana dell'IRAP, a fronte di un'ILOR avente natura reddituale, l'IRAP – come visto – non è un'imposta sui redditi e perciò spacca l'unitarietà della definizione tributaria d'impresa. Ciò è tanto vero che in dottrina si osserva che, se il legislatore della riforma, “in poche e scheletriche parole, ritenne di dover assimilare ai redditi d'impresa quelli provenienti dall'esercizio di professioni intellettuali svolte con un'organizzazione similare a quella dell'impresa medio grande”, proprio “questo quadro normativo originario si è mantenuto costante col trascorrere degli anni e solo con la legge sull'Irap ha subito una prima, seppur non radicale, mutazione” (GIOVANNINI, Imprese commerciali e lucro nelle imposte dirette e nell'IVA, in Riv. dir. trib., 2012; id., Sul terzo settore e sul disegno di legge delega: il coraggio della svolta, in Riv. dir. trib., 2014).

Tirando le somme del discorso, il cuore del problema sta in ciò, che il D.Lgs. n. 446/1997, pur non appoggiandosi alla definizione di impresa utilizzabile ai fini delle imposte dirette, non ne enuncia una propria. Di più: neppure prende in considerazione l'impresa in quanto tale, dacché il meccanismo impositivo ruota attorno all'autonoma organizzazione. Nondimeno i conti con il concetto di impresa debbono essere regolati egualmente, perché la Corte Costituzionale afferma che l'impresa è sempre (autonomamente) organizzata.

I piccoli imprenditori

Come accennavasi, la questione della verifica di coerenza della presunzione iuris et de iure di organizzazione dell'impresa è emersa in maniera dirompente a proposito dei piccoli imprenditori. In origine Cass. civ., sez. trib., n. 3678/2007, cit., aveva ritenuto l'intrinsecità dell'autonomia organizzativa all'attività svolta dalle imprese persino in contabilità semplificata. Ma, solo qualche anno dopo, con Cass. civ., sez. trib., 13 ottobre 2010, nn. 21124, 21123 e 21122, rese a proposito, rispettivamente, di un coltivatore diretto la cui attività era imperniata solo sulla sua persona, di un taxista e di raccoglitore di rifiuti speciali privo di dipendenti e capitali e munito soltanto di un autocarro, si è fatta strada una nuova sensibilità, giacché la S.C. ha ritenuto di poter estendere i portati della giurisprudenza relativa ai lavoratori ausiliari anche ai piccoli imprenditori, che si collocano, sul piano civilistico, non nella categoria degli ‘imprenditori' - nella quale rientrano anche gli esercenti le attività ausiliarie di cui all'art. 2195 c.c., comma 1, n. 5 (come gli agenti di commercio e i promotori finanziari) - ma in quella dei ‘piccoli imprenditori' …”, sicché “sarebbe ancor più evidente l'esigenza di evitare l'assoggettamento ope legis all'IRAP di soggetti diversi dagli ‘imprenditori', per i quali ultimi, ai sensi dell'art. 2082 c.c., l'elemento ‘organizzazione' è connaturato alla nozione di impresa …. Non è affatto da escludere, invero, che un piccolo imprenditore … sia dotato di un'organizzazione minimale di beni strumentali e non si avvalga di lavoro altrui (se non occasionalmente): si tratta, molto probabilmente, di una fascia marginale di soggetti, ma ciò è sufficiente a far riconoscere l'esigenza, ai fini del regime di assoggettamento all'IRAP, di una piena assimilazione dei piccoli imprenditori ai lavoratori autonomi, per garantire una parità di trattamento imposta dalla ratio del tributo …” (così dalla motivazione della prima delle citate decisioni).

Si anticipava in apertura che non è questa la sede per dare risposte a domande che pongono questioni esorbitanti la portata della microanalisi. Quel che preme di far rilevare è l'espunzione tout court dei piccoli imprenditori dalla categoria degli imprenditori per farne figli di un dio minore, epperò privilegiati rispetto agli altri, in quanto assimilabili ai lavoratori autonomi, che, ripetesi, imprenditori non sono e non possono essere.

Le ragioni di perplessità sono evidenti sol che si consideri la comune base semantica degli artt. 2082 e 2083 c.c. Verosimilmente proprio per superarle la giurisprudenza ha compiuto un ulteriore passo in avanti. Invero, secondo Cass. civ., sez. trib., 26 luglio 2001, n. 16340, “l'attività imprenditoriale non contiene in sé una autonoma organizzazione, dovendo quest'ultima – in realtà – essere accertata in concreto”, con la conseguenza che “correttamente, pertanto, il giudice del merito esclude sia soggetto all'imposta regionale sulle attività il piccolo imprenditore che svolga (senza l'impiego di beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività e senza avvalersi in modo non occasionale di lavoro altrui) l'attività di commercio ambulante di casalinghi”.

La rivoluzione copernicana, portata dall'enunciato per cui “l'attività imprenditoriale non contiene in sé una autonoma organizzazione”, che invece va “accertata in concreto”, non necessita di molte parole per essere descritta. Condivisibile o meno la soluzione (comunque di indubbia ragionevolezza … empirica) offerta dalla S.C. nel precedente di cui si discute, essa solletica la riflessione, oltreché sull'essenza dell'impresa, sulla constatazione che, come in un castello di carte, eliminato un sostegno, si corre il rischio che crolli tutto: con il che si vuol dire che – a prescindere dalla negazione del valore di interpretazione costituzionalmente vincolate della sentenza n. 156/2001 della Corte Costituzionale – far entrare la verifica in concreto dell'autonoma organizzazione nell'area dell'impresa, pur piccola, significa perdere un elemento qualificante di differenziazione tra impresa e lavoro autonomo.

Conclusioni su società e dintorni

Se i piccoli imprenditori pongono dilemmi di siffatto spessore, le società – in disparte gli enti, specialmente pubblici, che richiederebbero una disamina a sé – li complicano al cubo.

Tanto per cominciare, non tutte le società hanno una strutturazione pluripersonale, poiché da tempo, ormai, anche il nostro ordinamento conosce le s.r.l. unipersonali. In via di prima approssimazione, esse sono assimilabili agli imprenditori neppure piccoli, ma individuali, rispetto ai quali si distinguono solo per il regime separatistico della responsabilità d'impresa.

Inoltre non tutte le società esercitano attività d'impresa, men che meno dopo che, con la (definitiva) liberalizzazione delle professioni di cui all'art. 10, comma 11, della Legge 12 novembre 2011, n. 183, è caduto il divieto di costituire società tra professionisti, divieto che, a termini dell'art. 2 della legge 23 novembre 1939, n. 1815, era uno dei pilastri della disciplina di settore. L'ingorgo interpretativo qui si sposta dal secondo periodo dell'art. 2 D.Lgs. n. 446/1997 al collegamento tra detta disposizione e l'art. 3, comma 1, lettera c), che assoggetta all'IRAP le persone fisiche, le società semplici e quelle ad esse equiparate a norma dell'articolo 5, comma 3, del (d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) esercenti arti e professioni di cui all'articolo 49, comma 1, del medesimo testo unico”, in tanto in quanto, però, “esercitano una o più delle attività di cui all'art. 2, D.Lgs. n. 446/1997.

Infine, pur con riferimento alle società che esercitano ex professo attività d'impresa, se la quasi totalità di esse presenta una strutturazione interna qualificabile come autonoma organizzazione, ne residuano talune che, in punto di fatto, utilizzano beni strumentali ancor più esigui di un professionista impegnato, da solo, nel proprio studio, a ricevere clienti e scrivere atti processuali o riempire dichiarazioni dei redditi o fare progetti ingegneristici o far visite mediche. Si pensi a società meramente gestorie o in limine persino a società di comodo.

L'avviso espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 7371 del 2015 in commento avalla una linea di intransigenza già presente nella giurisprudenza di legittimità: da ultimo Cass. civ., sez. trib., 22 maggio 2015, n. 10600, era parsa scultorea nel ritenere soggetta ipso iure all'IRAP una società in nome collettivo avente ad oggetto la fornitura di servizi professionali e tecnici nel settore edile, rimproverando alla sentenza impugnata di aver violato il principio — focalizzato nella giurisprudenza di legittimità avendo riguardo alla natura di requisito di secondo grado dell'autonoma organizzazione rispetto alla soggettività societaria del contribuente — per cui ‘l'attività svolta dalle società commerciali costituisce in ogni caso presupposto d'imposta ai sensi del d.lgs. n. 446 de11997, art. 2, della cui legittimità non sembra possibile dubitare alla luce di C. Cost. 2001/156 che, com'è noto, ha ritenuto l'elemento organizzativo connaturato alla nozione stessa d'impresa' (Cass. civ., 25741/2009, 25315/2014)” (poco prima identicamente si era espressa Cass. civ., sez. trib., 28 novembre 2014, n. 25315, a proposito di agenti di commercio costituiti in una società in nome collettivo).

Scelta la via di un'interpretazione letterale della seconda parte dell'art. 2 D.Lgs. n. 446 del 1997, è giocoforza sbarrare la strada ad alcuna ricostruzione mediana, volta alla ricerca di una conciliazione tra la lettera della legge e l'insegnamento della sentenza n. 156 del 2001 della Corte Costituzionale attraverso la configurabilità di una presunzione di autonoma organizzazione, sì, non tuttavia iuris et de iure, ma iuris tantum. Scrivono le Sezioni Unite che “un siffatto indirizzo non sembra dare adeguare rilievo al fatto che la ‘prova contraria' può avere qui ad oggetto non l'insussistenza dell'autonoma organizzazione nell'esercizio in forma associata dell'attività, ma piuttosto l'insussistenza dell'esercizio in forma associata dell'attività stessa”.

Ci si permette di osservare che in realtà l'indirizzo di cui si tratta si era affermato, non già in relazione a strutture societarie, ma in relazione a strutture associative, per le quali il problema non riguarda la rigidità della seconda parte dell'art. 2 D.Lgs. n. 446 del 1997 nel focalizzarsi su società ed enti, bensì, come anticipato, la portata anche sistematica dell'art. 3, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 446 del 1997 a proposito dell'“equiparazione” – o assimilazione che dir si voglia – delle associazioni alle società semplici esercenti arti e professioni (tema, questo, pertinente funditus alla sentenza gemella di quella che si sta commentando – ossia Cass. civ., sez. un., 13 aprile 2015, n. 7291 – chiamata a pronunciarsi, tra le associazioni professionali, segnatamente su quelle tra medici sottoforma della medicina di gruppo).

Prova ne è che tutte e tre le pronunce citate dalle Sezioni Unite a sostegno del proprio argomentare non deducono ad oggetto società: Cass., Sez. V, 27 gennaio 2014, n. 1575 concerne l'esercizio in forma associata dell'attività di amministratore di condominio; Cass. civ., sez. trib., 13 novembre 2009, n. 24058, l'esercizio in forma associata dell'attività di ingegnere civile; Cass. civ., sez. trib., 11 giugno 2007, n. 13570, l'esercizio in forma associata dell'attività di dottore commercialista.

Proprio tale considerazione consente conclusivamente di considerare che, rispetto alle società, l'ossequio al canone dell'autonoma organizzazione nei termini enunciati dalla sentenza n. 156 del 2001 della Corte Costituzionale impone, come lucidamente riconosciuto da Cass. civ., sez. trib., n. 10600/2015, cit., una rivisitazione della “natura” della stessa autonoma organizzazione alla stregua di un “requisito di secondo grado” che sussiste esclusivamente in funzione della “soggettività societaria del contribuente”.

Ritenuto di condividere siffatta istantanea dello stato dell'arte, ritornano alla mente i ragionamenti fatti dalla Corte Costituzionale nella già ricordata sentenza n. 42 del 1980: in tale occasione la decisione che “le norme relative all'imposta locale sui redditi, in quanto distraggono i redditi di lavoro autonomo dalla disciplina tributaria del lavoro dipendente al solo scopo di attrarli nella disciplina dei redditi fondati sul patrimonio ovvero misti, contrasta coi principi di eguaglianza e di capacità contributiva, poiché l'esistenza di una zona intermedia tra i redditi sicuramente di patrimonio o di impresa e quelli di solo lavoro autonomo non toglie che questi ultimi debbano restare distinti dai primi sul piano del diritto tributario”, era argomentata dal presupposto che “la discriminazione qualitativa dei redditi non implica soltanto che le rispettive fonti di produzione siano diverse; bensì richiede – per dimostrarsi costituzionalmente legittima – che a questa diversità corrisponda una peculiare e differenziata capacità contributiva, propria dei redditi incisi rispetto ai redditi esclusi dal tributo, a parità di ammontare della base imponibile”: tutto ciò – al fondo – perché (come dalla stessa Corte già chiarito nelle sentt. n. 103 e n. 109 del 1967, n. 99 del 1968, n. 200 del 1976) “le presunzioni tributarie non sono di per sé illegittime, ma debbono fondarsi su ‘indici concretamente rivelatori di ricchezza' ovvero su ‘fatti reali', quand'anche difficilmente accertabili, affinché l'imposizione non abbia una ‘base fittizia'”.

In definitiva, tornando all'oggi, o si ripensa il presupposto in sé dell'IRAP in chiave di pura combinazione dei fattori della produzione, senza più distinzioni tra imprenditori, grandi o piccoli, ed altri produttori che si distinguono sol perché non lavoratori subordinati, ma non è questa la strada intrapresa dal legislatore, che, con l'art. 1, comma 123, della Legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016), modificando l'art. 11, comma 4-bis, del D.Lgs. n. 446/1997, raddoppia il valore delle deduzioni forfettarie per i soggetti minori già agli effetti dell'IRPEF (SCAPPINI, Novità IRAP: esenzione allargata per i produttori agricoli e incremento di deduzioni per i soggetti IRPEF minori, in Il Fisco, 2015); oppure, nell'estrema frammentazione disciplinare di favore che si va delineando in relazione sia a macro (soggetti minori) che a micro-categorie (medici ed imprenditori agricoli), non è da scartare l'ipotesi che, alla lunga, si riproponga l'esigenza di un nuovo intervento della Corte Costituzionale.

Fonte: ilTribuatario.it

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