Trasformazione da associazione a fondazione: un passo in avanti ed uno… indietro

11 Settembre 2015

Il Consiglio di Stato con una sentenza di fine 2014 ed un parere dei primi di quest'anno affronta la vexata quaestio della trasformabilità di associazione in fondazione pervenendo a soluzioni diametralmente opposte. Nel primo caso la V sezione ritiene compatibile con l'ordinamento la trasformazione mentre, nel secondo, la I sezione, su richiesta del Ministero dell'Interno, opina per l'inammissibilità. L'incertezza aumenta e le Regioni sembrano orientate a seguire il parere del Consiglio di Stato. Si impone un intervento del legislatore nel quadro della Riforma del Terzo Settore e della modifica della disciplina del Libro I Titolo II del codice civile.
La questione

Il tema dell'ammissibilità della trasformazione di associazione (riconosciuta e non) in fondazione ha da sempre suscitato l'attenzione di studiosi ed operatori del settore.

In assenza di espressa disposizione di legge sul punto, sino ai primi del presente secolo la dottrina era quasi unanimemente schierata per l'ammissibilità, in pressoché totale assenza di pronunzie del giudice ordinario così come di quello amministrativo, se si eccettua la voce isolata, ma contraria, resa del Consiglio di Sato in sede consultiva, che nel 2000 si era espresso nel senso dell'inammissibilità.

A fronte della crescita esponenziale del mondo non profit e della contestuale “trasformazione”, in senso strutturale ed ontologico, della figura giuridica fondazione, è cresciuta da poco la domanda di trasformazione di organismi associativi in enti fondativi per le ragioni le più diverse, nella gran parte dei casi meritevoli di tutela da parte dell'ordinamento. I giudici paiono invero non aver compreso la portata della questione e tutte le volte, peraltro non numerose, che hanno affrontato la questione ex professo, hanno finito per arroccarsi su posizioni dogmatiche e quanto meno fuori tempo quanto meno sino all'ingresso nel nostro ordinamento delle c.d. trasformazioni eterogenee (da ente non profit ad ente for profit e viceversa: artt. 2500–septies e 2500–octies c.c.).

In un clima quindi molto più aperto a soluzioni in linea con l'evoluzione dei tempi ed in totale assenza di ragioni di ordine pubblico che vi ostassero, il Consiglio di Stato in sede consultiva e la Regione Veneto poi (tra le più ricche di esperienze non profit) hanno “smentito” lo stesso Consiglio di Stato, questa volta in sede giurisdizionale, che nell'ottobre 2014 aveva riformato una sentenza del TAR Toscana aprendo la strada ad una soluzione positiva della questione.

A partire dal codice civile….sino allo stato attuale dell'ordinamento

Associazioni e fondazioni, insieme ai comitati, sono enti del Libro I del codice civile. Là trovano la propria disciplina di fondo, non avendo i vari interventi del legislatore speciale nella materia del not profit intaccato la struttura portante degli enti in parola.

L'associazione (sia quella riconosciuta che quella, apparentemente “residuale” ma largamente prevalente, non riconosciuta) aveva, al momento della sua previsione normativa, natura organizzativa e funzionale diversa rispetto alla fondazione. Era ed è tuttora, un ente che fa perno sulle persone e sul loro naturale coinvolgimento nella vita associativa mentre la fondazione rilevava in quanto titolare di un patrimonio: una volta che il fondatore gli imprimeva la destinazione, essa viveva di vita propria. Tant'è vero che nelle riconosciute il patrimonio, talvolta non necessario (quanto meno sino a che rimase intatto l'impianto codicistico) è un semplice strumento, non coessenziale, mentre nelle fondazione è la ragione stessa dell'ente. Trattavasi di tipi dello stesso Libro I ma all'apparenza tra loro impermeabili ed impenetrabili. Il comitato fungendo un po' da cuscinetto tra i due partecipando di entrambe le nature giuridiche a seconda se lo sbocco fosse quello della fondazione oppure dell'associazione con scopo però non più temporaneo e limitato nel tempo. Né poteva indurre in errore la previsione dell'art. 28 c.c. che, non contempla una vera e propria trasformazione bensì una mera variazione di scopo all'interno dello stesso tipo fondazione.

Le cose nel tempo si sono andate profondamente evolvendo. Il nuovo quadro costituzionale prima (artt. 2, 3 e 18 Cost.), il crescere disordinato dei gruppi associativi, il crescente ruolo del volontariato, la disciplina fiscale in tema di ONLUS e gli status di privilegio prefigurati quasi a pioggia, poi, hanno radicalmente mutato il panorama normativo. Di tutto questo si è reso consapevole il legislatore in presenza, anche, di spinte, di segno nettamente contrario, intese ad utilizzare lo strumento associazione per fini non “ideali” ma meramente speculativi (attraverso il pass-par-tout codicistico si potevano dar vita – fino a poco tempo fa - a vere e proprie imprese commerciali, remunerare le quote di partecipazione talvolta liberamente negoziabili, distribuire attività nel corso della vita associativa, istituire categorie di socio, prevedere compensi per amministratori e sindaci, destinare il patrimonio netto di liquidazione a favore degli stessi soci…. ed altro ancora).

Lo stabilizzarsi del movimento non profit ha condotto a rendere sempre più simili tra loro, anche grazie alle leggi speciali, le associazioni e le fondazioni. Le fondazioni hanno mutato la loro pelle in quella di veri e propri enti organizzati (vedasi le fondazioni di partecipazione o fondazioni organizzazione per non parlare delle fondazioni holding, casseforti di imprese a conduzione famigliare ma non solo….). Sempre più spesso associazione e fondazione, magari nella veste giuridica aggiuntiva di ONLUS, sono espressione dello stesso fenomeno sociale se non addirittura, la seconda, lo strumento operativo di iniziative associative anche imprenditoriali di forte rilevanza ed utilità sociale. Non può quindi che essere condiviso questo passaggio della dottrina secondo la quale “In passato quando la trasformazione era fenomeno più circoscritto, si prospettava anche per gli enti non profit l'esigenza di sopprimere ostacoli alla libera fruizione delle forme, evitando le diseconomie della discontinuità. Questa opzione dovrebbe condividersi a maggior ragione ora che l'istituto sembra essere privilegiato dal legislatore, fino ad assumere il valore di principio generale” (DE GIORGI, Vicende estintive e modificative, in M. BASILE, Le persone giuridiche, Milano, 2014, 596).

Lo stato della dottrina

Si è detto che prima della riforma del diritto societario la dottrina aveva espresso opinioni in larga misura favorevoli alla trasformazione tra enti non lucrativi ed in particolare di un ente associativo in fondazione (VITTORIA, Il cambiamento del tipo per gli enti del libro I del codice civile, in Contratto e impresa, 1992, 1161; RIOLFO, La trasformazione degli enti collettivi dal codice civile alle leggi speciali, in Contr. Impr., 1996, 925 ss. ed ancora IORIO, Le trasformazioni eterogenee e le fondazioni, Milano, 2010, 32 ss. e LAUDONIO, Le trasformazione delle associazioni, Padova, 2013, 175 ss). In alcune decisioni, concernenti lo stesso caso, richiamate da Vittoria, venne messa in evidenza la continuità tra il preesistente comitato e la successiva fondazione. La fattispecie in parola non pare peraltro decisiva proprio perché il comitato partecipa della duplice natura codicistica e da sempre ha costituito l'elemento per così dire di collegamento tra i due enti del Libro primo. Le ragioni a sostegno della tesi della trasformabilità andrebbero ricercate oltre che nel mutamento di assetto organizzativo dell'ente fondazione e nella proliferazione degli enti non profit, anche, in primo luogo, nel mutato atteggiamento del legislatore in punto trasformazioni eterogenee e quindi nel recepimento da parte dell'ordinamento del diverso clima, favorevole al mutamento di struttura giuridica.

La riforma del diritto societario e le trasformazioni eterogenee

La trasformazione di un ente non lucrativo in società incontrava inizialmente il limite invalicabile del rispetto della causa che identifica i rispettivi contratti (CORVESE, Le trasformazioni eterogenee (con particolare riguardo alla trasformazione in società di capitali, in Contributi allo studio della trasformazione a cura di Paciello, Napoli, 2010, 87 ss e LAUDONIO, 23 ss.) .

La riforma del diritto societario per mezzo del D. Lgs. n. 6/2003 non solo ha superato ogni profilo di natura teorica ma ha anche ampliato il numero di norme dedicate alla trasformazione prevedendo con intenti palesemente innovativi, i passaggi, e relative discipline, tra società di capitali ed enti non profit (art. 2500–septies c.c.).

Attraverso quest'ultima norma è espressamente regolata la c.d. trasformazione eterogenea di una società di capitali in consorzi, società consortili, società cooperative, comunioni di azienda, associazioni non riconosciute e fondazione. Non invece in associazione riconosciuta. La legge non prevede questa tipologia di trasformazione, in questo modo secondo taluni volendosi rispettare l'osservanza del procedimento prefettizio del riconoscimento. Una volta decisa la trasformazione in fondazione, quest'ultima, per diventare soggetto di diritto, deve ottenere il riconoscimento con il che la trasformazione s'intende subordinata al riconoscimento, atteso che la delibera di trasformazione in fondazione produce gli effetti propri dell'atto fondativo (art. 2500-septies, comma 4 c.c.)

L'art. 2500-octies invece consente a consorzi, società consortili, comunioni d'azienda, associazioni riconosciute e fondazioni (ma non alle associazioni non riconosciute) di trasformarsi in società di capitali. La Relazione non fornisce spiegazioni di sorta del perché sia preclusa la trasformazione in associazione non riconosciuta. La dottrina spiega tale circostanza con la maggiore garanzia di un'accertata consistenza patrimoniale (GALGANO – GENGHINI, Il nuovo diritto societario, Padova, 2006, 525). L'associazione non riconosciuta dovrebbe quindi transitare nella forma di riconosciuta prima di accedere alla forma societaria.

Il legislatore del 2003 fu invece silente in ordine alla trasformabilità della società cooperativa in associazione non riconosciuta e viceversa pur in presenza di pronunce che avevano evidenziato la vicinanza causale tra i due enti (SARALE, in Riv. dir. comm., 2004, II, 82).

La trasformazione di associazioni in società di capitali può essere esclusa dall'atto costitutivo o, per determinate categorie di associazioni, dalla legge. Il capitale sociale della società risultante dalla trasformazione è diviso in parti eguali fra gli associati, salvo diverso accordo tra gli stessi (art. 2005-octies, comma 3, cc. ). Va ricordata, se non foss'altro per completezza di discorso, la norma secondo la quale le associazioni e le fondazioni costituite prima del 1 gennaio 2004 possono trasformarsi in società di capitali a condizione che ciò non comporti distrazione, dalle originarie finalità, di fondi o valori creati con contributi di terzi o in virtù di regimi fiscali di agevolazione (in quest'ultimo caso, l'operazione è consentita previo versamento delle imposte) (art. 223-octies disp. att. c.c.). Trattasi di norma che vuole evitare impropria sottrazione di vantaggi che in tanto rileva in quanto l'esito del processo sia la fuoriuscita dal sistema dell'ente. E questo potrebbe costituire un ennesimo argomento a favore della praticabilità del processo trasformativo di cui si tratta.

La dottrina formatasi successivamente alla Riforma

Prima di entrare nella disamina delle pronunce del Consiglio di Stato occorre dar conto dello stato delle discussioni a seguito della Riforma del diritto societario.

Il tema della trasformabilità di un'associazione in società e quindi in enti del libro V, a quanto è dato di sapere, venne affrontato in passato da una sola pronuncia della Suprema Corte in una vicenda che riguardava peraltro una società sportiva (Cass. 9257/1977): il legislatore un poco più tardi con la legge n. 91 del 1981 arrivò a ratificarne la piena ammissibilità. L'evidente diversità di causa pareva sino a quel momento ostativa ma parte della dottrina si era pronunciata favorevolmente purché vi fosse il consenso di tutti i soci in quanto né i diritti dei soci né quelli dei terzi sarebbero stato compromessi (lo rammenta GIORGI, 575 che richiama EROLI, Le associazioni non riconosciute, Napoli, 1990, 245 ss, e MARASA', Contratti associativi e impresa (Attualità prospettive), Padova 1995, 224).

Il punto di partenza è come ovvio la disciplina del codice civile. La miglior dottrina pur riconoscendo che “i passaggi tra enti non profit sono… ben lungi dal poter essere costantemente definiti “omogenei” costituendo associazione (riconosciute e non riconosciute), fondazioni e comitati “tipi” diversi…. per assetto organizzativo (flessibile per alcuni, v. l'art. 36, primo comma, più rigido per altri) e anche funzione (poco o nulla significando, in concreto, qualificare l'iniziativa in base al negativo programma dell' “assenza di lucro”), arriva a sostenere che “non avrebbe senso precludere la trasformazione in fondazione dell'associazione con fini analoghi anche se fruitrice di contributi pubblici” (DE GIORGI, 597 che richiama FUSARO, Trasformazione, fusione e scissione tra enti non profit, in Non profit: le sfide dell'oggi e il ruolo del Notariato in Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, Milano, 2011, 99 e LAUDONIO, 217).

Lo stesso Autore rammenta che altri avevano ritenuto possibile la trasformazione di associazione in fondazione a mezzo apposita delibera assembleare poi sottoposta all'approvazione dell'autorità amministrativa, oggi a mente dell'art. 2 del D.P.R. n. 361/2000 (VITTORIA, 1161) e che anzi si era ritenuta possibile anche una sola delibera ex art 16, comma 2, anziché all'unanimità, non producendo la perdita dello status di socio conseguenze economiche più deleterie rispetto allo scioglimento anticipato. Né ancora vi sarebbero state esigenze di tutela dei creditori perché questi sarebbero stati garantiti dalla permanenza del patrimonio in capo alla nascente fondazione (RIOLFO, 925). Patrimonio tra l'altro, che, oggi, per effetto delle discipline regionali vigenti, finirebbe per essere pari anche ad euro 70.000 mentre, come noto, il fondo dell'associazione specie quella non riconosciuta, può anche essere “nominale” o di modestissima entità se non addirittura difettare del tutto.

La giurisprudenza amministrativa

A simili ragionamenti proposti della dottrina, andavano contrapponendosi esigenze di altra natura di cui si erano fatti ben presto portavoce per un verso i giudici amministrativi (soprattutto dopo la riforma della disciplina del riconoscimento della personalità giuridica da parte del Prefetto o da parte delle Regioni) e per l'altro i notai. I primi facendo leva sulla tutela dei creditori della trasformanda (in fondazione) associazione non riconosciuta con conseguente aggredibilità teorica del nuovo patrimonio fondativo necessariamente “adeguato” a mente dell'art. 1 comma 3 del D.P.R. n. 361 del 2000 (T.A.R. Piemonte, 781/2012 e T.A.R. Toscana, 1811/2011 che in qualche misura si adeguavano a Cons. Stato Comm spec. 288/2000, e che concernevano richieste di trasformazione da associazione non riconosciuta in fondazione; ma anche T.A.R. Lazio, ord. 460/2009 e T.A.R. Toscana, 5802/2004 riguardanti fattispecie di trasformabilità di associazione riconosciuta in fondazione), i secondi -prendendo spunto dalla disciplina delle trasformazioni eterogenee- suggerendo il confezionamento di relazione giurata di stima e l'invio di apposite comunicazioni ai creditori dell'ente; queste indicazioni essendo state “codificate” attraverso vere e proprie linee guida concertate tra Consiglio Notarile, Regione Lombardia e Prefettura di Milano.

Va peraltro ricordato che nonostante il trend dominante, altro giudice amministrativo – la cui pronuncia aveva provocato l'intervento del Ministero dell'Interno e quindi del Consiglio di Stato nel parere del gennaio di quest'anno - aveva riconosciuto l'ammissibilità della trasformazione di un'associazione riconosciuta in fondazione (di partecipazione) sulla scorta delle seguenti argomentazioni: a) la regola della generale trasformabilità fra enti diversi appare, a seguito delle novità introdotte dalla riforma del diritto societario, un principio del nostro ordinamento; b) l'essere ragionevole consentire la trasformazione diretta senza l'approdo al passaggio intermedio rappresentato dalla forma societaria per ovvie ragioni di economia dei mezzi giuridici; c) l'insussistenza di ostacoli ricollegabili alle vicende pubblicitarie ed al riconoscimento della personalità giuridica, anche in considerazione del fatto che l'atto di trasformazione produce gli effetti dell'atto di fondazione (T.A.R. Lombardia, 445/2013). Sulla base quindi di un'interpretazione sistematica ed analogica delle norme in materia di trasformazioni eterogenee il giudice amministrativo lombardo aveva accolto il ricorso di un'associazione annullando il provvedimento della Prefettura di Milano con il quale era stata negata la richiesta di trasformazione (quella stessa Prefettura, per incidens, che muovendo dall'esigenza di osservare prassi virtuose aveva sottoscritto le linee guida con la Regione ed il Consiglio Notarile di competenza…). Mi pare doveroso qui segnalare che simile approccio, del tutto in distonia rispetto agli altri giudici amministrativi, era forse condizionato dal fatto che a trasformarsi fosse un'associazione riconosciuta e che l'ente prodotto del processo fosse una fondazione di partecipazione: in primo luogo perché il passaggio era da ente soggetto a controllo pubblico ad altro che veniva assoggettato ad analogo controllo ed in secondo luogo perché l'ente prodotto dalla trasformazione era una fondazione di partecipazione, figura di ente collettivo che presenta elementi associativi, quanto meno nella fase costituzione, con il che i confini strutturali ed organizzativi delle due figure risultavano essere molto labili.

La sentenza del Consiglio di Stato n. 5226/2014

Questo essendo lo stato dell'arte, come vi ha inciso la pronuncia del Consiglio di Stato del 2014 (Cons. Stato n. 5226/2014)?

Il supremo organo di giustizia amministrativa venne chiamato ad apprezzare una richiesta, negata dalla prefettura toscana, di trasformazione di un'associazione (non riconosciuta) in veste di ONLUS in fondazione. Gli argomenti posti a base del provvedimento oggetto di impugnazione erano i soliti: assenza di previsione normativa in punto trasformazione, necessità di verificare l'adeguatezza patrimoniale dell'ente da riconoscere e l'assenza di possibili pregiudizi per i creditori conseguenti al passaggio da un regime di responsabilità illimitata (art. 38 c.c.; argomento peraltro debolissimo perché il regime della responsabilità non è affatto quello di una società di persone!) ad uno di limitazione conseguente all'ottenimento della personalità giuridica (T.A.R. Toscana n. 1811/2011).

Il Giudice di ultima istanza amministrativa, in riforma della sentenza di primo grado, riconosce in via assorbente che a seguito delle modifiche introdotte al codice civile dalla riforma del diritto societario di cui al D. Lgs. n. 6/2003, “la trasformazione degli enti collettivi è un istituto di carattere generale. Essa è infatti non solo analiticamente disciplinata per i casi di trasformazione da ed in società (artt. 24982500-novies cod. civ.) ma anche presupposta per gli enti privi di finalità lucrative, ed in particolare per le fondazioni (art. 28)”. Venendo in rilievo nel caso in parola le norme sulla trasformazione “progressiva” le disposizioni oggetto di attenzione (adde: e di applicazione analogica?) sarebbero l'art. 2500-quinquies in tema di responsabilità dei soci a responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali sorte prima degli adempimenti previsti dal terzo comma dell'art. 2500 se non risulta che i creditori sociali hanno dato il loro consenso alla trasformazione e quella in tema di oneri pubblicitari necessari a perfezionare il procedimento di trasformazione; quella dell'art. 2500-ter, dedicato alla trasformazione di società di persone in società di capitali in punto obbligo di redazione della perizia di stima e quella dell'art. 2500-novies che contempla il rimedio dell'opposizione al fine di evitare pregiudizio per le ragioni dei creditori.

“Le norme…” in parola “depongono chiaramente nel senso dell'ammissibilità di una trasformazione da associazione non riconosciuta a fondazione”. “Come evidenzia l'appellante, si tratta in questo caso di una trasformazione “omogenea” che lascia inalterato il fine lucrativo, ammissibile a fortiori rispetto alle ipotesi di trasformazione eterogenea espressamente previste (art. 2500-septies e octies) ma che determina una modifica del regime di responsabilità per le obbligazioni sociali”.

Quindi secondo il Consiglio di Stato la trasformazione di enti collettivi è un istituto di carattere generale applicabile alle trasformazioni eterogenee ma a maggior ragione a quelle omogenee mentre i meccanismi di tutela dei terzi creditori sociali (relazione giurata di stima, forme adeguate di pubblicità e adozione dell'atto pubblico), applicabili per analogia, consentono di dare all'istituto un assetto globale del tutto adeguato. Identità causale, richiamo ai principi dell'ordinamento e ricorso all'analogia sono quindi reputati necessari e sufficienti per pervenire alla trasformazione. Rimanevano “scoperti” il profilo del particolare regime pubblicistico connesso alle associazioni, non tanto nel caso della trasformazione di associazione riconosciute quanto piuttosto di quelle non riconosciute ed il caso, mai esplorato a quanto consta in sede giudiziale, della trasformazione “regressiva” da fondazione ad associazione.

Il parere del Consiglio di Stato, sezione I, parere 30 gennaio 2015, n. 296

La svolta era però apparente. Il Ministero dell'Interno, in difetto di impugnazione della pronuncia del T.A.R. Lombardia, provocava il parere del Consiglio di Stato a distanza di quindici anni dall'altra presa di posizione (Commissione Speciale, parere n. 288 del 20 dicembre 2000) che aveva costituito il capofila di tutta la giurisprudenza amministrativa surricordata, in questo ancora una volta sollecitato dall'Ufficio della Prefettura di Milano così sensibile alla soluzione negativa (nonostante come detto il protocollo d'intesa con Regione e Consiglio Notarile…).

Ed ancora una volta, la sezione Prima (parere 30 gennaio 2015, n. 296), disattendendo quanto argomentato pochi mesi prima dalla V sezione giurisdizionale, esprime parere negativo circa la trasformabilità di associazione riconosciuta in fondazione.

Partendo dall'adesione alla tesi della tassatività delle fattispecie previste dagli artt. 2498 ss. c.c. (con la conseguenza che non potrebbe mai darsi una trasformazione diretta ed omogenea fra enti del libro I), ad avviso del Consiglio di Stato il legislatore del 2003 non avrebbe codificato regole a carattere generale ma previsto alcuni casi di trasformazione eterogenea impiegando un metodo casistico e selettivo, così facendo implicito riferimento alla disciplina dell'ente interessato alla trasformazione e non a tutte le possibili fattispecie di trasformazione. “In tale quadro gli artt. 2500-septies e octies c.c. rappresentano una deroga, dettando una normativa di favore per la trasformazione diretta, che non può applicarsi alle ipotesi non espressamente contemplate, per le quali riprende vigore la disciplina generale. Ciò implica l'inammissibilità della trasformazione diretta da associazione a fondazione, poiché il procedimento normativamente previsto per la costituzione della fondazione è incompatibile con la preesistenza di una struttura associativa, in particolare con l'art. 3, comma 1, D.P.R. 361/2000 secondo cui “Ai fini del riconoscimento è necessario che siano state soddisfatte le condizioni previste da norme di legge o di regolamento per la costituzione dell'ente, che lo scopo sia possibile e lecito e che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo””.

La stessa prassi virtuosa contemplata nelle linee guida più volte citate, poi, sarebbe priva di fondamento giuridico, non operando nella materia né l'analogia né il principio generale di cui all'art. 1322 c.c.

Viene ancora una volta richiamato l'argomento secondo cui “non può esservi transizione diretta dal modello dell'associazione a quello della fondazione, in quanto i due schemi non sono tra loro permeabili perché fondati su presupposti totalmente diversi tra loro ai quali l'ordinamento ricollega un determinato assetto di poteri, garanzie e di controllo che assumono differente significato alla luce della volontà associativa o fondativa”, argomento già espresso nel parere n. 288 del 20 dicembre 2000, in un'epoca in cui gli studi non avevano ancora raggiunto un sufficiente grado di evoluzione e di affinamento e soprattutto non si era prodotta e/o consolidata la legislazione speciale in tema di non profit.

Nihil sub sole novi? Sì e no. Sì, per quanto concerne il profilo causale liquidato con le battute – non nuove- che precedono. No, per quanto concerne la negazione delle prassi virtuose (che tali sono solo nell'interesse degli operatori ma non evidentemente della Pubblica amministrazione che si lascia trascinare da formalismi del tutto ingiustificati in un mondo, quello del non profit, in profonda mutazione e crescita ma soprattutto laddove cristallizza temi ed argomenti omettendo di tenere in conto che proprio il caso della trasformazione della associazione riconosciuta in fondazione è sub specie controlli la negazione in principio di quelle rigidità.

In effetti il Consiglio di Stato e coloro che reputano inammissibile la trasformazione partono da presupposti discutibili perché i due profili che in effetti rilevano e che devono trovare idonea sistemazione, anche concettuale sono quelli

a) della trasformabilità da associazione non riconosciuta in fondazione e

b) del destino dei privilegi in senso lato che l'ente trasformando trascinerebbe con sé ad esito della trasformazione. Non che gli argomenti in parola siano ad avviso dello scrivente decisivi: ogni ragionamento però é “inquinato” da questi due “impliciti” profili: errerebbe il Consiglio di Stato nel “fare di tutte l'erbe un fascio” (la trasformazione di un ente riconosciuto è cosa diversa di quella di un ente non riconosciuto) e sbaglierebbe chi avvalora la trasformabilità trascurando il problema della sorte degli eventuali benefici accordati all'ente trasformando.

I sostenitori della tesi negativa, ancorandosi ai presupposti meramente codicistici in tema di associazione e fondazione, trascurano di tenere in conto che l'ordinamento evolve, che la legislazione di settore ed anche quella speciale ha inciso sulla causa degli enti del libro I, che la vicenda della fondazione non può essere ricostruita sulla scorta delle sole norme del codice civile visto come un corpus di norme tendenzialmente immutabili. Non palesano in sostanza alcuna sensibilità verso un mondo sostanzialmente omogeneo, grazie agli status di privilegio che spesso accomunano gli enti del libro I. Elevando a sistema le esigenze di tutela dei creditori sociali e degli interessi pubblici quando invero lo stesso ordinamento appresterebbe rimedi e reazioni adeguate ad entrambe le situazioni. Va detto comunque che l'opinione dell'intrasformabilità emerge anche laddove si applichino i principi in materia di trasformazioni eterogenee che vengono sopravvalutati quanto agli effetti ma nel contempo sottovalutati quanto alla loro portata, mentre sono indice di uno spiccato favor dell'ordinamento verso i cambi di veste giuridica da ente in società e viceversa, ormai elevato a sistema con le correlate disposizioni in tema di tutela dei creditori (che quindi possono essere applicate in chiave di garanzie per i creditori degli enti del libro I, non importa se in forma di associazione riconosciuta o di associazione non riconosciuta).

In conclusione: effetti, prassi “non” virtuose, atteggiamenti delle PA e prospettive di riforma

Parrebbe, quindi, di poter concludere come segue. Se il legislatore non ha espressamente affrontato il tema della trasformazione omogenea non per questo l'ha espressamente negata, in assenza di disposizioni o di principi generali sugli enti e le società che forniscano univoche indicazioni in senso contrario. Associazioni, fondazioni e comitati sono enti del libro I i cui tratti causali (non si dimentichi che causa andrebbe intesa come “funzione economico-sociale del contratto”) si sono andati con il tempo omologando o comunque, sostanzialmente ma sicuramente, avvicinando. Non si comprenderebbe poi il perché il legislatore dovrebbe agevolare i passaggi da enti non profit a quelli for profit e non invece quelli interni allo stesso sistema (for profit sì, quelli non profit invece no) in presenza di una disciplina tipo che può essere presa a riferimento in quanto di carattere generale e non speciale ed infine perché, in un quadro di riferimento di siffatta natura, ben può utilizzarsi l'istituto dell'analogia quanto a garanzie per i terzi creditori e formalità pubblicitarie.

Nessuno risulta invece aver preso in esame ex professo l'ipotesi contraria, quello cioè della trasformazione della fondazione, si pensi a quella di partecipazione, in associazione non riconosciuta, che poi si ricollega al fenomeno della trasformazione di comitato (o della c.d. fondazione non riconosciuta) in associazione non riconosciuta. Sarebbe troppo agevole concludere nel senso che gli argomenti di cui sopra, negati dal Consiglio di Stato, siano sufficienti per una risposta affermativa. Invero le esigenze lato sensu pubblicistiche sono, qui, più spiccate ed evidenti posto che in ipotesi come quella qui esaminata, l'ente transiterebbe da un sistema a “certo controllo” ad uno caratterizzato dalla “totale assenza dello stesso” (quanto meno de iure condito). La risposta affermativa potrebbe far leva sulla stessa disciplina generale in tema di trasformazioni eterogenee per così dire “regressive” (art. 2500-septies): in effetti anche simile fattispecie riceverebbe sufficiente copertura da parte dell'ordinamento se non fosse che allo stato della legislazione, anche speciale, non ci sono strumenti atti ad impedire eventuali distrazioni di vantaggi legati alla speciale natura dell'ente, (salvo che non si affermino linee guida del tipo di quelle di cui si è fatto cenno). E salvo, soprattutto, quanto già argomentato, in punto, in sede di trasformazioni eterogenee.

Ma non vanno sottaciute anche ipotesi di trasformazione all'interno degli enti del libro I (si pensi alla trasformazione da comitato in associazione ed in linea del tutto teorica anche viceversa) che possono essere condizionate dal transito in o in regressione dal regime di controllo pubblicistico (con annessi ma subordinati profili di responsabilità nei confronti dei creditori). Il processo di trasformazione da comitato – magari riconosciuto - in associazione non riconosciuta sarebbe totalmente preclusa dal parere del Consiglio di Stato posto che non potrebbe reggere il profilo causale una volta che per esempio venisse rimosso il vincolo di temporaneità dell'ente e lo stesso fosse costituito su base personalistica. Il che obiettivamente evidenzia sempre di più i limiti di una posizione negativa sul tema: come può dirsi che in subjecta materia valga il principio opposto secondo il quale debba essere autorizzato tutto ciò che non è espressamente consentito per legge?

Quali sono gli effetti del parere del Consiglio di Stato? Sotto il profilo operativo c'è il rischio che si vada consolidando la prassi, questa sì non virtuosa, della preventiva trasformazione ex art. 2500-octies in società (ma non si dimentichi che questo vale per le sole associazioni riconosciute) per poi da questa accedere ex art. 2500–septies alla fondazione, con inevitabili quanto diseconomici costi (prassi che avrebbe il solo pregio di rendere evidenti le forme di tutela dei terzi che però potrebbero trovare applicazione in via analogica, in un passaggio di gran lungo precedente sotto il profilo temporale).

Sotto il profilo dell'atteggiamento delle pubbliche amministrazioni, il parere del Consiglio ha indotto la Regione Veneto (terra in cui il non profit ha avuto un sensibile sviluppo) ad adeguarvisi con insospettata rapidità, ed in modo assolutamente acritico, attraverso apposita deliberazione di Giunta Regionale (n. 464/DGR del 7/4/2015) che condizionerà l'operato dei propri funzionari chiamati a valutare eventuali processi trasformativi in sede di riconoscimento della personalità giuridica. E, come la Regione Veneto, c'è il rischio che anche altre Regioni si apprestino ad adottare simili delibere che finirebbero per condizionare pesantemente iniziative meritevoli di tutela da parte dell'ordinamento.

Dal Terzo Settore si sono subito levate voci perché il profilo venga preso in esame e risolto positivamente dal legislatore della “Riforma” (come del resto auspicato dal Consiglio di Stato, consapevole della forte opinabilità della materia).

Trattasi come noto della legge delega di riordino dell'intero Terzo Settore che, una volta approvata dal Parlamento consentirà al Governo di emanare nei successivi dodici mesi dalla sua entrata in vigore, più decreti legislativi nelle materie indicate nell'oggetto della delega.

L'intervento legislativo in parola (già approvato alla Camera ed attualmente all'esame del Senato), ha come fine quello “ … di sostenere la libera iniziativa dei cittadini che si associano per perseguire il bene comune, di elevare i livelli di cittadinanza attiva, coesione e protezione sociale favorendo la partecipazione, l'inclusione ed il pieno sviluppo della persona, di valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa, in attuazione degli articoli 2, 3, 18 e 118, quarto comma, della Costituzione”, per Terzo Settore intendendosi “il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale anche mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale nonché attraverso forme di mutualità” (art. 1)

Con i decreti legislativi surriferiti, il Governo procederà, tra l'altro, alla revisione della disciplina in materia di associazioni, fondazioni e altre “istituzioni di carattere privato senza scopo di lucro”, riconosciute come persone giuridiche o non riconosciute, contenute nel Libro primo, Titolo secondo, del Codice civile.

Per ciò che concerne i principi direttivi riguardanti gli enti del libro primo titolo II del codice civile, essi, secondo l'art. 3, dovranno portare a) a rivedere e semplificare il procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica prevedendo obblighi di trasparenza e di informazione anche verso terzi attraverso forme di pubblicità dei bilanci e degli altri atti fondamentali dell'ente; b) a disciplinare, nel rispetto del principio di certezza nei rapporti coi terzi e di tutela dei creditori, il regime di responsabilità limitata degli enti riconosciuti come persone giuridiche e la responsabilità degli amministratori, tenendo conto del rapporto tra patrimonio netto ed il complessivo indebitamento degli enti medesimi; c) ad assicurare il rispetto dei diritti degli associati con particolare riguardo ai diritti di informazione e di partecipazione, rispettando le prerogative delle assemblee e prevedendo limiti al raccolta di deleghe; c) a prevedere che alle associazioni e alle fondazioni che esercitano stabilmente e prevalentemente attività di impresa si applichino le disposizione del codice civile in tema di impresa in quanto compatibili.

In sede di delega non è possibile pretendere di più. Sarà compito del Governo con i decreti legislativi entrare più nel dettaglio della disciplina anche se una serie di disposizioni potrebbero già adesso, col confermare la tendenza ad un approccio più in linea col mutato clima ordinamentale, costituire il terreno fertile per l'introduzione del principio della libera trasformabilità -magari a certe condizioni- degli enti del libro primo tra loro. Alcuni indizi potrebbero intravedersi alle lettere a), b) e d) dell'art. 3 succitato.

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