Imposta di registro: la cessione del diritto di opzione non assoggettabile ad imposizione in misura fissa

Fabio Gallio
23 Giugno 2017

In tema di imposta di registro, l'atto di cessione del diritto di opzione attribuito ai soci ex art. 2441 c.c., in caso di mancato esercizio dello stesso da parte del cessionario, è sottoposto all'aliquota proporzionale del 3% di cui all'art. 9, Tariffa, parte I, allegata al DPR n. 131/1986 e non a quella fissa contemplata dall'art. 11 della stessa tabella...
Massima

In tema di imposta di registro, l'atto di cessione del diritto di opzione attribuito ai soci ex art. 2441 c.c., in caso di mancato esercizio dello stesso da parte del cessionario, è sottoposto all'aliquota proporzionale del 3% di cui all'art. 9, Tariffa, parte I, allegata al DPR n. 131/1986 e non a quella fissa contemplata dall'art. 11 della stessa tabella, posto che, in tale ipotesi, non può parlarsi stricto sensu di negoziazione di partecipazioni societarie.

Il caso

La Corte di Cassazione ha esaminato il ricorso presentato dall'Agenzia delle Entrate, la quale ha contestato ai fini dell'imposta di registro un'operazione di cessione di diritti di opzione, senza che tale diritto fosse successivamente esercitato da parte del soggetto acquirente.

In particolare, l'Ufficio ricorrente ha lamentato che la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, sede di Bari, ha erroneamente sancito che la cessione del diritto di opzione su azioni può essere equiparata ad un atto di negoziazione di partecipazioni ed assoggettata ad imposizione in misura fissa, a norma dell'art. 11 della Tariffa, parte I, D.P.R. n. 131 del 1986.

Infatti, sulla base della natura del diritto di opzione, che consente di acquistare successivamente una partecipazione sociale, ma non equivale in sé al suo acquisto, non si verserebbe, secondo la tesi erariale, in una operazione di negoziazione di quote sociali, ma solo in un caso di cessione di un diritto, sottoposta a tassazione in misura proporzionale ai sensi dell'art. 9 della medesima Tariffa di cui sopra.

Secondo la Suprema Corte, la mera cessione del diritto di opzione non realizza automaticamente l'effetto traslativo della partecipazione sociale, sicché tale operazione non può essere automaticamente assimilata alla negoziazione di partecipazioni societarie.

Per questo motivo, ha affermato che, ai fini dell'imposta di registro, l'atto di cessione del diritto di opzione attribuito ai soci ex art. 2441 c.c., in caso di mancato esercizio dello stesso da parte del cessionario, va sottoposto all'aliquota del 3% a norma dell'art. 9 della Tariffa di cui sopra e non all'imposta fissa di cui all'art. 11 della Tariffa, parte I, allegata al medesimo provvedimento, non configurandosi, a stretto rigore, una "negoziazione" di partecipazioni societarie.

La questione

Con la presentazione del relativo ricorso, viene chiesto alla Suprema Corte di decidere se la cessione del diritto di opzione:

- vada soggetta a imposta di registro fissa (200 euro), a norma dell'art. 11 della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/86, in quanto assimilabile ad un atto di “negoziazione di partecipazioni”, come sostenuto dai contribuenti e dalla Commissione Tributaria Regionale di Bari;

- oppure vada assoggettata ad imposta di registro del 3%, a norma dell'art. 9 della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/86, in quanto atto avente contenuto patrimoniale non riconducibile ad altre norme delle Tariffe allegata al D.P.R. n. 131/86, come sostenuto dall'Agenzia delle Entrate.

E' necessario premettere che la normativa relativa all'imposta di registro non contempla in alcun luogo la cessione del diritto di opzione (o del diritto alla sottoscrizione dell'aumento di capitale), né il diritto di opzione medesimo.

Pertanto, ove l'atto di cessione del diritto di opzione non venga ritenuto assimilabile ad altri atti contemplati dal D.P.R. n. 131/86, sarebbe logico concludere per la sua riconducibilità alla norma residuale recata dall'art. 9 della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/86, che contempla gli atti altrove non indicati aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale.

Aderendo alla tesi sopra esposta, l'atto di cessione del diritto di opzione confluirebbe in questa norma residuale, atteso il suo "carattere patrimoniale" (dato dall'onerosità della cessione del diritto in questione).

Al contrario, invece, si potrebbe obiettare che non sia corretto applicare tale norma alla cessione del diritto di opzione, considerato che tale operazione realizza effetti in tutto simili alla cessione di partecipazioni (in concreto, nel caso di specie, non sarebbe molto diverso il risultato pratico che si otterrebbe se il socio sottoscrivesse l'aumento e, poi, cedesse le partecipazioni ricevute al terzo).

Alla luce di tali considerazioni, si potrebbe ipotizzare che la cessione del diritto di opzione possa essere assoggettato ad imposta di registro fissa (200,00 euro) a norma dell'art. 11 della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/86, assimilando tale atto ad una "negoziazione" di partecipazioni.

Tale tesi sarebbe confermata da altra giurisprudenza di legittimità che, con sentenza del 30 maggio 2005, n. 11466, ha sancito la correttezza dell'applicazione dell'imposta di registro in misura fissa all'atto di cessione del diritto di opzione, ritenendo che la cessione del diritto di opzione possa essere equiparata alla negoziazione di partecipazioni e, quindi, assoggettata all'imposta di registro fissa a norma dell'art. 11 della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/86.

Le soluzioni giuridiche

Per decidere la controversia, la Suprema Corte si è soffermata ad esaminare i caratteri principali del diritto di opzione previsto dall'art. 2441 c.c.

In breve, tale articolo, al comma 1, stabilisce che le azioni di nuova emissione e le obbligazioni convertibili in azioni devono essere offerte in opzione ai soci in proporzione al numero delle azioni possedute. Se vi sono obbligazioni convertibili il diritto di opzione spetta anche ai possessori di queste, in concorso con i soci, sulla base del rapporto di cambio.

Il comma 2 prevede che, in caso di aumento del capitale, l'offerta di opzione deve essere depositata presso l'ufficio del Registro delle imprese e contestualmente resa nota mediante un avviso pubblicato sul sito Internet della società, con modalità atte a garantire la sicurezza del sito medesimo, l'autenticità dei documenti e la certezza della data di pubblicazione, o, in mancanza, mediante deposito presso la sede della società.

Per l'esercizio del diritto di opzione deve essere concesso un termine non inferiore a quindici giorni dalla pubblicazione dell'offerta.

Quando l'aumento è offerto in opzione, i relativi titolari possono esercitare pienamente il diritto di opzione entro il termine indicato, ovvero lasciare decadere il diritto, ovvero esercitare il diritto solo in parte (con applicazione per la restante della disciplina dettata per l'inoptato), o, infine, cedere (a titolo oneroso o gratuito) il diritto di opzione, anche solo parzialmente.

Ai sensi del comma 3, coloro che esercitano il diritto di opzione hanno diritto di prelazione nell'acquisto delle azioni (e delle obbligazioni convertibili) che siano rimaste inoptate "purché ne facciano contestuale richiesta".

Il diritto di opzione non spetta se nella delibera di aumento è previsto che le azioni di nuova emissione debbano essere liberate mediante conferimento in natura (comma 4). Lo stesso diritto può essere escluso, previa indicazione statutaria e nei limiti del 10% del capitale sociale preesistente, nelle spa quotate, a condizione che il prezzo di emissione corrisponda al valore di mercato delle azioni e ciò sia confermato in apposita relazione da un revisore legale o da una società di revisione legale (comma 4 secondo periodo). L'opzione può essere esclusa o limitata quando lo esige l'interesse dalla società, ovvero, con deliberazione assembleare presa con la maggioranza richiesta per le assemblee straordinarie, quando le azioni di nuova emissione sono offerte in sottoscrizione ai dipendenti della società o di società che la controllano o che sono da essa controllate (comma 8).

Le proposte di aumento di capitale sociale con esclusione o limitazione del diritto di opzione correlate ad un aumento in natura o ad interessi della società, devono essere illustrate dagli amministratori con apposita relazione, dalla quale devono risultare le ragioni dell'esclusione o della limitazione, ovvero, qualora l'esclusione derivi da un conferimento in natura, le ragioni di questo e in ogni caso i criteri adottati per la determinazione del prezzo di emissione.

Non si considera esistente alcuna limitazione o soppressione del diritto di opzione quando, ad esempio, la sottoscrizione venga interamente effettuata da intermediari (ovvero banche, enti o società finanziarie soggetti al controllo della Consob e altri soggetti autorizzati all'esercizio dell'attività di collocamento di strumenti finanziari), ovvero alla sottoscrizione si accompagni l'obbligo di offrire le azioni agli azionisti della società, con operazioni di qualsiasi tipo.

Sulla base di questa normativa che, in sostanza, dispone che le azioni di nuova emissione devono essere offerte in opzione agli azionisti, in proporzione al numero delle azioni da essi possedute (fatta eccezione per alcune ipotesi espressamente disciplinate dalla legge), consentendo loro di mantenere invariata la loro partecipazione nonostante l'aumento del capitale sociale, la Corte di Cassazione individua il contenuto patrimoniale della cessione del diritto di opzione.

Considerato, però, che solo il successivo esercizio dell'opzione realizza l'effettiva attribuzione della quota di partecipazione sociale, con (eventuale) modifica del novero dei soci e incidenza sulla quota di partecipazione di ciascuno al capitale sociale, la cessione del relativo diritto non comporta affatto la cessione della partecipazione sociale, sebbene il titolare del diritto di opzione possa effettivamente raggiungere tale risultato.

Infatti, nel caso in cui l'acquirente non eserciti successivamente all'acquisto del relativo diritto, non si ha nessuna acquisizioni di azioni.

Osservazioni

La Suprema Corte giustifica la propria decisione, basandosi sul fatto che nessuna norma del D.P.R. n. 131/1986 disciplina le operazioni che hanno per oggetto i trasferimenti a titolo oneroso dei diritti di opzione. Per questo motivo deve applicarsi una norma residuale, quale quella di cui all'art. 9, sopracitato, che prevede una tassazione proporzionale del 3%.

Al contrario, l'imposta fissa, prevista per le cessioni delle partecipazioni o l'aumento di capitale, non è applicabile, in quanto non si tratta della medesima fattispecie di operazioni. Infatti, il diritto di opzione permette solo la possibilità di acquistare una quota di capitale, ma non l'obbligo. Pertanto, non essendoci certezza di tale risultato, l'imposta non può essere la stessa.

Tale conclusione non è del tutto condivisibile, nella parte in cui sembra riferirsi ad ogni cessione del diritto di opzione.

Infatti, in forza di tale tesi e nel caso in cui l'acquirente converta il relativo diritto in capitale, si avrebbe il paradosso che l'atto propedeutico che permette di acquistare la partecipazione venga tassato (3%) in misura superiore all'operazione principale (Euro 200).

E questo non è accettabile, soprattutto se si pensa che il soggetto che acquista il diritto di opzione paga un prezzo che tiene conto anche del costo di conversione in capitale.

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