Sul coordinamento del liquidatore giudiziale con gli organi della procedura e con quelli sociali
07 Ottobre 2015
Inquadramento
Il ruolo del liquidatore giudiziale è stato oggetto di diverse novità normative succedutesi nel tempo, le quali hanno dovuto affrontare gli ostacoli sistematici di un ordinamento cronicamente caratterizzato dalla mancanza di armonia e coordinamento,nell'intreccio di ruoli con altri organi delle procedure concorsuali. L'attività di supplenza diretta a coprire le lacune normative è stata svolta dalla giurisprudenza ed è proprio a questi innesti interpretativi che gli Autori dedicano il proprio approfondimento. L'indagine sul ruolo del liquidatore giudiziale, ed in specie su come lo stesso si coordini con gli altri organi della procedura e con quelli sociali (i quali, vale da subito anticiparlo, non decadono per effetto dell'ammissione al concordato), costituisce tematica ancora per certi versi inesplorata ed in divenire. Sia per il rinnovato impulso che l'istituto di riferimento ha conosciuto, a causa della crisi economica; sia per le oggettive difficoltà di ricondurre “a sistema” normative che non sono state pensate dal legislatore in maniera armoniosa e coordinata, bensì per “comparti stagni”. A dispetto della funzione centrale svolta nell'ambito del concordato preventivo con cessio bonorum, la figura del liquidatore giudiziale è storicamente disciplinata in maniera laconica ed insufficiente: un tempo, tramite la sola disposizione contenuta nell'unico comma dell'art. 182 l. fall., secondo cui “se il concordato consiste nella cessione dei beni e non dispone diversamente, il tribunale nomina nella sentenza di omologazione uno o più liquidatori”. Oggi, a tale nucleo sono stati aggiunti, mediante la tecnica del rinvio, svariati riferimenti alla figura del curatore ("1. Se il concordato consiste nella cessione dei beni e non dispone diversamente, il tribunale nomina nel decreto di omologazione uno o più liquidatori e un comitato di tre o cinque creditori per assistere alla liquidazione e determina le altre modalità della liquidazione. 2. Si applicano ai liquidatori gli articoli 28, 29, 37, 38, 39 e 116 in quanto compatibili. (…) 5. Si applicano gli articoli da 105 a 108-ter in quanto compatibili. 6.Si applica l'articolo 33, quinto comma, primo, secondo e terzo periodo, sostituendo al curatore il liquidatore, che provvede con periodicità semestrale dalla nomina. Quest'ultimo comunica a mezzo di posta elettronica certificata altra copia del rapporto al commissario giudiziale, che a sua volta lo comunica ai creditori a norma dell'articolo 171, secondo comma"). L'innesto di molteplici riferimenti alla figura del curatore ha per un verso contribuito a conferire certezza alla disciplina applicabile al liquidatore giudiziale. A mero titolo esemplificativo, ha specificato (e al contempo limitato) i poteri in tema di vendita dei beni, mediante il riferimento all'art. 105 l. fall., che appunto dispone in merito alle operazioni perfezionabili, alle modalità operative, ai rapporti con le controparti, ecc. Ed ancora, ha definito i requisiti, le “caratteristiche tecniche” per la nomina a liquidatore, mediante il rinvio all'art. 28: pertanto, l'incarico in questione può essere attribuito solo a soggetti provvisti di particolari requisiti “tecnici” (dottori commercialisti, avvocati, ecc.) e che non versino in una condizione di incompatibilità, in quanto legati al debitore da peculiari vincoli (coniugio, parentela, ecc.). Per un altro verso, tuttavia, ha inasprito talune problematiche già oggetto di ampia discussione in dottrina e giurisprudenza: si pensi, per tacer d'altro, alla vexata quaestio sulla qualificazione giuridica del liquidatore e alla conseguente dicotomica impostazione secondo la quale lo stesso è riconducibile al pubblico ufficio ovvero ad un ufficio privato, ed in specie quale mandatario del debitore o dei creditori o, ancora, di tutti tali soggetti. Il rinvio alle norme in tema di curatore, se da un lato sembra rafforzare la prima tesi, in quanto plasma la figura del liquidatore su quella, appunto, del curatore, dall'altro sembra deporre anche verso la seconda: se la riconducibilità al pubblico ufficio fosse pacifica, non sarebbe stato necessario un'apposita integrazione normativa. Per un inquadramento su questi profili si vedano, senza pretesa di esaustività, Filocamo, Commento sub art. 182 l. fall., in Ferro (a cura di), La legge fallimentare, Roma, 2014, 2476 ss.; Lo Cascio, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, IX ed., Milano, 2015, 646 ss.; Audino, Commento sub art. 182 l. fall., in Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013, 1213 ss.; Ambrosini, L'esecuzione del concordato e i provvedimenti del tribunale nel caso di concordato con cessione di beni, in AA.VV., Le altre procedure concorsuali, Vol. IV, Torino, 2014, 392 ss.; Vitiello, Commento sub art. 182 l. fall., in Lo Cascio, Codice commentato del fallimento, Milano, 2013, 2129 ss. Tuttavia, l'ampliamento normativo non può dirsi idoneo a delimitare con certezza i poteri ed i doveri del liquidatore giudiziale, nonché i suoi rapporti con gli altri organi societari. In ogni caso, la predetta centralità non è revocabile in dubbio: è proprio il liquidatore ad avere l'incarico di “concretizzare” le aspettative dei creditori, le quali, sino all'omologazione, rimangono in uno stato per così dire “embrionale”, all'interno dei diversi atti, relazioni e pareri che si susseguono durante la procedura concordataria. Conviene sin d'ora evidenziare che un ruolo decisivo, al fine di dipanare le varie problematiche lasciate aperte dall'insufficiente copertura normativa, è svolto dalla giurisprudenza. Differenze e coordinamento tra liquidatore giudiziale e commissario giudiziale
Al fine di individuare i connotati tipici della figura del liquidatore giudiziale, giova preliminarmente esplorare anche quelli degli altri organi e soggetti che possono trovarsi ad operare all'interno della procedura. Per quanto attiene, innanzitutto, al commissario giudiziale, il quadro dei poteri che gli sono attribuiti e dei rapporti tra essi e la capacità dell'imprenditore appare sufficientemente delineato nella disciplina fallimentare. In specie, per la fase anteriore all'omologa, l'art. 167, comma 1, l. fall., dispone che "il debitore conserva l'amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell'impresa" e, per converso, il ruolo del commissario giudiziale consiste nella "vigilanza" sull'attività imprenditoriale a tutela dei creditori. Per la fase successiva all'omologazione, l'art. 185 l. fall. prevede che il ruolo del commissario giudiziale diviene di mera sorveglianza, focalizzandosi non più sul vero e proprio esercizio dell'impresa, ma unicamente sull'adempimento delle pattuizioni contenute nella proposta concordataria. Già da questi primi riferimenti emerge l'elemento che, sul piano sia sostanziale sia procedimentale, informa di sé la procedura di concordato preventivo (ed anche quello attuato mediante la cessione dei beni): l'imprenditore ammesso alla procedura non perde la libera disponibilità della propria impresa, né, tantomeno, la capacità di disporre dei relativi diritti, in quanto non si verifica, in tale tipo di procedura concorsuale, alcun fenomeno di spossessamento analogo a quello del fallimento, dagli artt. 42, 43 e 44 l. fall. La predetta capacità risulta parzialmente limitata, nella fase anteriore all'omologazione, dalla necessità di chiedere l'autorizzazione del tribunale per il compimento degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione (art. 167, comma 2, l. fall. e, oggi, anche, ad es., art. 161, comma 7, l. fall.), ma non, invece, dalla presenza del commissario giudiziale in se stesso considerato. In definitiva, la funzione di quest'ultimo è quella di vigilare sulla gestione d'impresa a tutela del ceto creditorio, non certo quella di sostituirsi al debitore nelle prerogative imprenditoriali. Il suddetto rilievo vale, a maggior ragione, per quanto riguarda la fase successiva all'omologa e, dunque, alla chiusura della procedura concordataria ex art. 181 l. fall., posto che, in essa, l'imprenditore riacquisisce la piena capacità, mentre il ruolo del commissario giudiziale resta limitato esclusivamente alla sorveglianza dell'adempimento della proposta concordataria. Tali conclusioni sembrano suffragate dalle pronunce giurisprudenziali della Suprema Corte: ad esempio, sul tema della liquidazione dei compensi del commissario giudiziale per la fase successiva all'omologazione, ha evidenziato che "l'opera prestata dal commissario è limitata a compiti di sorveglianza, con dovere di riferire al giudice le inadempienze (in funzione della eventuale dichiarazione di fallimento). Si tratta della fase necessaria e conclusiva della procedura che segna una palese attenuazione dell'impegno del commissario, mentre subentra il ruolo attivo dello stesso debitore - e dei suoi garanti - e, se v'è cessione dei beni, quello del liquidatore (autonomamente retribuito per l'opera che andrà a prestare nell'esecuzione del mandato)" (così, Cass. Civ., I, 1 agosto 1997, n. 7147). Soprattutto, al riguardo, anche sulla scorta di quanto proposto da attenta dottrina, merita indugiare su uno snodo critico dell'attività del commissario giudiziale (Ambrosini, op. cit., 383 ss.). Sia pertanto concessa la seguente, breve digressione. In termini semplici, si può ragionevolmente affermare che il vero “banco di prova” per verificare i poteri del commissario giudiziale è il concordato in continuità, rispetto al quale egli detiene compiti di vigilanza prima dell'omologa, e successivamente alla stessa, compiti di mera sorveglianza. Il tema che, con sempre maggior frequenza, si sta ponendo nella pratica, riguarda proprio i limiti concreti di tale attività di sorveglianza e le attività che dovrà porre in essere il commissario nel momento in cui ravvisi, nella prosecuzione dell'attività aziendale, notevoli divergenze rispetto a quanto previsto nel piano, con il rischio di una notevole compromissione degli interessi dei creditori concorsuali. Le indicazioni fornite dalla dottrina e da parte della giurisprudenza tendono a delineare gli ambiti di intervento dell'organo commissariale, specificando che il piano approvato dai creditori ed omologato rappresenta il contorno in cui deve operare il creditore, secondo parametri tali per cui non tutte le deviazioni rispetto alle previsioni economiche esposte in piano potranno essere oggetto di censura da parte del commissario, ma solo quelle in cui sussistano congiuntamente (i) una definita e rilevante deviazione dal piano, imputabile a decisioni del debitore, e (ii) la concreta idoneità della predetta deviazione ad inficiarne la realizzabilità. Al riscontro di tale congiunta sussistenza, il commissario giudiziale potrà intervenire. Sul significato da attribuire alla predetta “deviazione” è tuttavia necessario intendersi. A tal proposito, è appena il caso di evidenziare che nel momento in cui viene predisposto e presentato il piano industriale, si delinea, meglio si tratteggia, un progetto di impresa, che è ex se mutevole, cangiante, insomma la realtà operativa non è (né mai sarà) millimetricamente incapsulabile all'interno di schemi preconfezionati e – per quanto formulati con scrupolo, ragionevolezza, diligenza professionale – pur sempre “sulla carta” (business plan, piani di budget, ecc.). Per intenderci ancor più chiaramente: rientra nell'ordinaria fisiologia che tra piano e realtà si riscontrino variazioni operative (Ambrosini, op. cit., in specie 385-386). Di per sé, pertanto, l'evoluzione del contesto economico in cui opera l'impresa potrà comportare scostamenti tra i risultati attesi e quelli concretamente realizzati che non esprimono una deviazione rispetto al piano globalmente considerato. Allo stesso modo, in presenza di un piano che definisce le linee guida operative dell'attività, l'insorgenza di elementi che inducano ad operare scelte diverse rispetto a quelle rappresentate a piano, ma sempre in esecuzione della strategia complessiva sottesa allo stesso, non potrà essere considerata una variazione operata dall'imprenditore rispetto al piano omologato. In termini del tutto semplicistici, si potrebbe ritenere che, ad esempio, in presenza di un piano industriale che preveda l'apertura di 5 nuovi uffici commerciali all'estero, di cui uno in Russia, nel momento in cui si riscontri l'embargo avviato da tale Paese per alcune merci, l'imprenditore potrà (rectius: dovrà) non aprire tale ufficio (magari aprendo un ufficio commerciale in un mercato maggiormente accessibile), senza che si possa ritenere che egli abbia sostanzialmente variato il percorso delineato nel piano. D'altro canto, tema decisivo per le scelte che opererà il commissario, è quello di definire quando gli scostamenti siano concretamente lesivi per i creditori. Invero, laddove siano coglibili tanto decisioni mutative al piano industriale, operate dal debitore, quanto un concreto danneggiamento a danno del ceto creditorio, il commissario giudiziale dovrà definire come intervenire (essendo evidente che una variazione delle strategie operate dall'impresa, che crei condizioni di maggiore redditività per l'impresa, non potrà indurre il commissario ad effettuare interventi o segnalazioni al tribunale o ai creditori). Insomma, il metro di giudizio deve essere tarato sull'interesse dei creditori, in quanto gli stessi sono appunto i veri “arbitri” della procedura. A tal proposito, merita segnalare alcune recentissime pronunce della Corte di cassazione, tra cui una sentenza delle Sezioni Unite, le quali hanno formulato il seguente principio giuridico: “il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dalla attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti”. La separazione tra il giudizio sulla “fattibilità giuridica” (di competenza del giudice) e quello sulla “fattibilità economica” (di competenza dei creditori) è chiarita come segue: “se non è dubbio che spetti al giudice verificare la fattibilità giuridica del concordato e quindi esprimere un giudizio negativo in ordine all'ammissibilità quando modalità attuative risultino incompatibili con norme inderogabili, profili di incertezza viceversa si pongono, laddove entrino in discussione gli aspetti relativi alla fattibilità economica. Questa è infatti legata ad un giudizio prognostico, che fisiologicamente presenta margini di opinabilità ed implica possibilità di errore, che a sua volta si traduce in un fattore rischio per gli interessati. E' pertanto ragionevole, in coerenza con l'impianto generale dell'istituto, che di tale rischio si facciano esclusivo carico i creditori, una volta che vi sia stata corretta informazione sul punto” (Cass., SS UU Civ., 23 gennaio 2013, n. 1521, cui si sono subito conformate Cass. Civ., Sez. I, 6 giugno 2013, n. 24970; Cass. Civ., Sez. I, 22 maggio 2014, n. 11423). Vale notare che i casi controversi avevano ad oggetto proprio un giudizio di non fattibilità del piano da parte del commissario giudiziale, operato successivamente alla votazione favorevole dei creditori e quindi al giudizio di omologazione. Sulla predetta possibilità di intervento, da parte del commissario giudiziale, la Cassazione si è dunque espressa negativamente. In tal senso, illuminante, poi, si prospetta Cass. 4 luglio 2014, n. 15345, secondo la quale “restano, invece, riservate ai creditori, previa, naturalmente, la loro completa e corretta informazione, le valutazioni di merito aventi ad oggetto la fattibilità del piano, la sua convenienza economica, la probabilità di successo ed i rischi inerenti”, per concludere che “dopo l'approvazione della proposta da parte dei creditori non è consentito al tribunale, e neppure alla corte di appello in sede di reclamo, verificare la probabilità di successo del concordato e non omologarlo quando appaia prevedibile un inadempimento del debitore che legittimerebbe i creditori a chiedere la risoluzione del concordato. Una tale decisione, infatti, non potrebbe giustificarsi con la probabilità di inadempimento, posto che la relativa valutazione ai fini dell'omologazione è riservata ai creditori, ai quali soltanto, inoltre, e con esclusione dello stesso pubblico ministero, è riservata dopo l'omologazione la legittimazione a chiedere la risoluzione. Il contrario non può sostenersi neppure ove la verifica del giudice facesse emergere l'inidoneità della proposta a soddisfare i diversi crediti nella misura e nei tempi promessi. Invero, alla luce del ricordato orientamento di questa Corte (Cass. S.u. n. 1521/2013 cit.), l'inidoneità della proposta può giustificare la non omologazione, malgrado l'approvazione dei creditori, soltanto se estesa alla possibilità di un qualunque soddisfacimento dei creditori e soltanto “se emergente prima facie” e non dopo una verifica della prognosi favorevole normalmente sottintesa dall'approvazione del concordato da parte dei creditori. Questi ultimi, del resto, ben potrebbero avere accettato non solo il rischio ma anche l'eventualità di essere soddisfatti in una misura ed in tempi diversi da quelli preventivati nella approvata proposta di concordato”. In tale prospettiva, infine, merita segnalare il decreto del Tribunale di Padova, 27 febbraio 2012, secondo cui né le deviazioni dal piano (segnatamente: differenti flussi finanziari effettivi, rispetto a quelli presunti da piano, a favore della società in concordato), né – persino – le aperte violazioni dello stesso determinano un'automatica risoluzione “nel caso in cui il debitore sia stato comunque in grado di soddisfare i crediti nei termini della proposta, là ove, viceversa, l'osservanza del piano non è di certo ostativa alla risoluzione ove il debitore non abbia comunque adempiuto alla proposta”. In altre parole, rientra nella fisiologia che la realtà operativa si discosti dal piano industriale e, nella generalità dei casi, è solo allo spirare del periodo temporale delineato dal piano che si potrà/dovrà valutare la performance del piano. Esemplificando: non ha ragion d'essere una risoluzione anticipata al secondo anno (sui cinque previsti), magari perché le risultanze effettive espongono una perdita ovvero un minor utile rispetto a quello previsto da piano (il che certamente potrà far sorgere maggiori dubbi sulla concreta realizzabilità del piano, ma non sarà ex se già idoneo a far assumere un giudizio definitivo di negatività). Se la stessa Cassazione (Cass. Civ., Sez. I, 6 giugno 2013, n. 24970; Cass. Civ., Sez. I, 22 maggio 2014, n. 11423; Cass. Civ., Sez. I, 4 luglio 2014, n. 15345) ha ripetutamente affermato che l'insorgere di deviazioni dal piano non comporta di per sé l'intervento del commissario nemmeno quando detiene il potere di vigilanza (vale a dire, nell'arco temporale intercorrente tra la presentazione del piano ed il voto dei creditori), quindi “a fortiori” non appare configurabile un suo invasivo potere successivamente all'omologa. Riepilogando (e concludendo la digressione): al commissario giudiziale compete un sindacato sulla sola fattibilità giuridica del concordato (recte: quantomeno in termini di supporto al tribunale, che valuta la fattibilità giuridica), ma il giudizio (positivo) dei creditori, e la conseguente omologa, costituiscono comunque lo spartiacque, il “punto di non ritorno” oltre cui il commissario giudiziale esaurisce qualsiasi diritto/dovere di intervento sul piano, a meno di (i) significativi elementi che comportino una tangibile violazione del piano, congiuntamente al (ii) sicuro e concreto danneggiamento dell'interesse creditorio. Delineato quindi il “perimetro d'azione” del commissario giudiziale, si può affermare che il liquidatore giudiziale non si sostituisce, ma si affianca allo stesso, posto che sono nettamente diversi l'impegno liquidatorio assunto dal primo, da un lato, e quello assunto dal secondo, avente ad oggetto la sorveglianza del corretto adempimento, da parte dell'imprenditore, degli impegni assunti nella proposta, dall'altro. Molteplici sono gli spunti coglibili nella pratica, ad esempio il condizionamento della liquidazione ad impegni assunti in proposta, o anche ad impegni assunti prima di adire la via concorsuale, quali l'affitto di azienda ad una società all'uopo costituita. Infatti, nel caso in cui gli impegni assunti (dall'imprenditore o da terzi) non siano onorati, il commissario giudiziale deve valutare se il comportamento dell'imprenditore possa configurarsi come dannoso rispetto agli interessi del ceto creditorio, e in caso affermativo riferire al tribunale ai sensi dell'art. 185 l. fall., mentre il liquidatore deve individuare le soluzioni per fronteggiare il predetto inadempimento e, una volta identificati – ad es., azione di risoluzione, azione di adempimento, azione risarcitoria etc. – chiedersi se è legittimato ad azionarli. Insomma, e per concludere, alla luce delle evidenziate differenze rispetto al commissario giudiziale: stante la nomina del tribunale fallimentare, il liquidatore sembra assumere un incarico per certi versi assimilabile al mandato, da svolgere nel rispetto dei limiti che il tribunale gli impone, ex art. 182, comma 1, l. fall., all'atto della nomina, sotto il diretto controllo dei creditori stessi, nonché del tribunale medesimo. L'attività del liquidatore giudiziale appare anche soggetta alla ‘sorveglianza' sull'adempimento del concordato attribuita al commissario giudiziale, nella fase successiva all'omologa, dall'art. 185 l. fall., in quanto riflesso del generale potere che si canalizza soprattutto sull'attività dell'imprenditore; il quale, pur riacquisendo, dopo l'omologazione, la piena capacità, è comunque tenuto ad operare, sia per ciò che attiene all'accordo concordatario omologato, sia per ciò che attiene alla sua ordinaria attività, nell'interesse dei creditori: ed è proprio ai fini di tale controllo che la figura del commissario giudiziale sopravvive all'omologazione del concordato. Per quanto concerne il liquidatore giudiziale trattasi, in definitiva, di un'attività complessivamente soggetta a significative restrizioni e a penetranti controlli, anche dal punto di vista dell'informativa da fornire. Risulta senz'altro utile l'analisi di alcuni casi concreti. Si veda ad es. Trib. Padova, I sez. civ. fall., decreto 12 febbraio 2015: “il Tribunale (…) nomina liquidatore (…) che si occuperà delle attività di liquidazione previste in piano e dell'effettuazione dei pagamenti secondo le cause di prelazione; non della gestione dell'attività d'impresa, che rimane affidata all'amministratore unico; - il Liquidatore procederà secondo il piano e l'imprenditore proseguirà l'attività di impresa, sotto la vigilanza del Commissario Giudiziale; - per le vendite, riduzioni o abbandoni dei crediti, per le transazioni e per gli altri atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, per stare in giudizio come attore o come convenuto, il Liquidatore chiederà l'autorizzazione al Giudice Delegato, il quale stabilirà altresì le modalità delle vendite e le relative misure pubblicitarie, nominerà gli avvocati ed i procuratori e darà ogni altra opportuna disposizione; - il Liquidatore curerà l'esecuzione dei provvedimenti del Giudice Delegato, provvederà al versamento delle somme disponibili sul conto corrente bancario o sul libretto bancario della procedura, secondo la modalità più utile da definirsi in accordo con il G.D., fermo il prelievo vincolato all'ordine del Giudice”. Si veda ancora Trib. Milano, II sez. civ. fall., decreto 6 maggio 2013: “a) per le transazioni ed ogni altro diverso atto di straordinaria amministrazione, il Liquidatore giudiziale dovrà munirsi dell'autorizzazione del Comitato dei creditori e del parere favorevole del Commissario giudiziale, dandone al contempo informazione al Giudice Delegato; b) il Liquidatore giudiziale richiederà il parere del Commissario giudiziale e l'autorizzazione del Giudice Delegato per promuovere azioni giudiziali o costituirsi in giudizio (…) d) il Liquidatore giudiziale terrà informati il Commissario Giudiziale, il Comitato dei Creditori e il Giudice Delegato in ordine allo stato della liquidazione mediante il deposito in cancelleria di relazioni semestrali illustrative (…); esse, unitamente al relativo parere del Commissario giudiziale, saranno pubblicate, a cura di quest'ultimo, nell'area del sito internet www.tribunale.milano.it riservata ai creditori; il Liquidatore giudiziale dovrà fornire in ogni caso, tempestivamente, le informazioni e i chiarimenti eventualmente richiesti, in qualunque momento, dal Commissario giudiziale o dal Comitato dei creditori o dal Giudice Delegato; e) il Commissario giudiziale sorveglierà lo svolgimento della liquidazione, anche visionando la documentazione contabile e fornendo il proprio motivato parere sulle relazioni semestrali di cui al punto precedente (…)”. E' quindi possibile abbozzare le seguenti prime, non certo definitive, conclusioni: i) il liquidatore giudiziale cura la liquidazione dei beni siccome previsto in proposta e nel decreto di omologazione; ii) i creditori ed il tribunale fallimentare vigilano sull'operato del liquidatore; iii) il commissario giudiziale vigila sull'imprenditore e pure sul liquidatore giudiziale (ed è a propria volta sottoposto al controllo dei creditori e del tribunale). Su questo complesso intreccio di rapporti, in dottrina vedi ad esempio Filocamo, op. cit., 2477; Audino, op. cit., 1214. Un'ulteriore distinzione involge la figura del liquidatore giudiziale da quello – per così dire – “ordinario”, nominato nella procedura di scioglimento civilisticamente disciplinata. A tal proposito, appaiono necessarie alcune precisazioni preliminari. In primo luogo, la liquidazione ordinaria costituisce una fase sì peculiare della vita d'impresa, in quanto volta a regolarne la fine, ma non presuppone necessariamente una patologia sul versante dell'illiquidità: infatti, può ben derivare dalla volontà dell'imprenditore di non proseguire l'attività, magari per anzianità; da dissidi tra soci che sfociano nella paralisi sociale, ecc. Per converso, la liquidazione giudiziale si colloca necessariamente nell'ambito di un previo “stato di crisi”, come dispone testualmente l'art. 160, l. fall., di talché “a monte” postula una situazione patologica. La conseguenza non è di poco momento, dato che la comune finalità di realizzare al meglio i beni aziendali è solo, per così dire, “epidermica”, dato che va modulata e contemperata con il rispettivo contesto, non sovrapponibile: basti pensare al fatto che la liquidazione giudiziale impone il controllo di una serie di organi, nonché alle ricadute sul versante civile e penale dei diversi atti compiuti dalle due diverse tipologie di “liquidatori”, ecc.. Pare quindi possibile evidenziare che se, appunto alla luce dei rispettivi contesti, le due procedure qui in esame sono nel complesso contraddistinte da una struttura ed una finalità diversa, di conseguenza anche i rispettivi organi “liquidatori” sono latori di scopi e peculiarità (sul versante dei poteri, dei doveri ecc.) diversi. Ed invero, da un lato, il liquidatore della società è il soggetto che, in presenza di una causa di scioglimento della società stessa, viene incaricato di procedere alla liquidazione del patrimonio sociale, sostituendosi, a tali fini, all'organo amministrativo in carica ed assumendo la rappresentanza della società; a seguito della Riforma del 2004, peraltro, può anche intraprendere nuove attività. Dall'altro, il liquidatore concordatario viene designato dal debitore stesso ovvero dal tribunale fallimentare (a seconda che la proposta del debitore escluda esplicitamente o implicitamente l'intervento giudiziale, predeterminando le modalità liquidatorie, cosicché il tribunale risulterà sprovvisto del potere di nomina degli organi della liquidazione e di definizione delle altre regole di espletamento dell'attività); così, non assume in alcun modo i compiti assegnati dal codice civile ai liquidatori della società, né la rappresentanza della società stessa. L'omologazione presuppone, infatti, una positiva valutazione della possibilità attuativa e della legittimità di tutte le operazioni previste per l'esecuzione del concordato. Riguardo al potere di nomina, la Cassazione ha ormai precisato che: i) è consentito al debitore individuare nella proposta la persona del liquidatore e ii) il tribunale può nominare un soggetto diverso solo ove quello scelto dal debitore risulti sfornito dei requisiti di professionalità ed indipendenza fissati dall'art. 28 (cui rinvia, come detto, l'art. 182, comma 2). Sul tema della nomina, cfr. le osservazioni di Fabiani, Fallimento e concordato preventivo, II, Concordato preventivo, Bologna, 2014, 725 ss. Soprattutto, al proposito dianzi evidenziato, va segnalato che l'art. 182, comma 2, l. fall., tra le disposizioni della legge fallimentare dichiarate applicabili ai liquidatori, non richiama né l'art. 31 l. fall. (che conferisce al curatore l'amministrazione del patrimonio fallimentare), né l'art. 35 l. fall. (che attribuisce al predetto curatore la facoltà di compiere anche atti di straordinaria amministrazione, previa l'autorizzazione del comitato dei creditori). In ogni caso, si consideri che i due procedimenti possono sì intrecciarsi, ma la tipica scansione, rilevabile sovente nell'esperienza professionale, tale per cui l'impresa già in liquidazione intraprende la procedura di concordato preventivo (in specie quella ex art. 182 l. fall.), non implica che la liquidazione venga assorbita, interrotta ecc. e con essa i suoi organi decadano ex lege. Infatti, non esiste nessuna norma esplicita che disponga il venir meno dell'una rispetto all'altra. Pertanto, sebbene le rispettive normative risultino di difficile coordinamento, l'interprete non può sostituirsi al legislatore ipotizzando che la figura del liquidatore “ordinario” decada a favore di quello giudiziale. In definitiva: trattasi di due figure distinte, autonome e che operano contemporaneamente, seppur su piani diversi. Differenze e coordinamento tra liquidatore giudiziale e debitore in concordato preventivo
Un discorso di analogo tenore può essere sviluppato con riferimento al rapporto tra liquidatore giudiziale ed imprenditore: il “raggio d'azione” del primo non va ad intaccare nemmeno quello del debitore. A tal riguardo, giova segnalare che, nell'affrontare lo specifico problema dell'eventuale designazione, quale liquidatore concordatario, dello stesso imprenditore ammesso al concordato e/o dei legali rappresentanti del medesimo in caso di società, la giurisprudenza sembrerebbe ormai orientata ad abbracciare la soluzione negativa. Così il Tribunale di Roma ha stabilito l'illegittimità di siffatta nomina e comunque l'inopportunità della medesima: “l'affidamento della liquidazione dei beni ceduti alla stessa società debitrice (in persona dei suoi legali rappresentanti) non è conforme a legge (cfr. artt. 1977, 1979, 1980, 1983 c.c.), c.c., anche alla luce c.c. del nuovo art. 182 l. fall. (che espressamente richiama per i liquidatore l'art. 28 l. fall.)”; inoltre “in ogni caso, non è opportuno che gli amministratori o i liquidatori della società debitrice siano incaricati delle operazioni liquidatorie da compiere nell'interesse dei creditori della medesima società, atteso l'irriducibile conflitto di interessi che viene ad insorgere” (Trib. Roma 23 luglio 2010). Quindi, se anche a seguito delle modifiche normative introdotte nel 2007, la prevalente giurisprudenza ha chiarito che l'imprenditore – per ragioni che esulano dalla presente trattazione – non possa assumere il ruolo di liquidatore concordatario, di riflesso è confermato che i due soggetti sono tra loro intimamente diversi e che il liquidatore concordatario non possiede alcun tipo di rappresentanza e/o rapporto organico con il detto imprenditore ammesso alla procedura. Non va sottaciuto, sul punto, che in passato la giurisprudenza aveva pacificamente sostenuto la nomina dello stesso debitore quale liquidatore, per ragioni di celerità ed economia della procedura. Ulteriore e diversa considerazione sulla “terzietà” va svolta con riguardo all'eventuale nomina, da parte del giudice, di figure “non terze”, quali ad esempio taluni amministratori della società debitrice. Il punto, per il vero, è assai dibattuto e registra un andamento estremamente ondivago della giurisprudenza. Per un autorevole inquadramento sul punto, e per ampi riferimenti giurisprudenziali, cfr. per tutti Audino, Op. cit., 1211. Del resto, attenta giurisprudenza ha sostenuto che “il liquidatore giudiziale non è organo della società” (Trib. Pordenone 22 ottobre 2008, ex multis). Si evince, quindi, che i poteri di gestione diretta dell'impresa attribuiti al liquidatore giudiziale eventualmente previsti dalla legge, hanno carattere eccezionale e non inficiano il principio generale già sopra riportato (il quale – giova ribadirlo – poggia anche sul mancato richiamo, da parte dell'art. 182, comma 2, l. fall., dell'art. 31 l. fall., che attribuisce al curatore fallimentare l'amministrazione del patrimonio fallimentare, e dell'art. 35 l. fall., che attribuisce al predetto curatore la facoltà di compiere anche atti di straordinaria amministrazione, con l'autorizzazione del comitato dei creditori). In altre parole, “Secondo una indiscussa giurisprudenza di questa corte, invero, la procedura di concordato preventivo mediante cessione dei beni ai creditori comporta il trasferimento agli organi della procedura non della proprietà dei beni e della titolarità dei crediti, ma solo dei poteri di gestione finalizzati alla liquidazione” (Cass. Civ., I, 12 maggio 2010, n. 11520; dello stesso tenore, Trib. Pordenone, 22 ottobre 2008). Inoltre, di recente è stato altresì affermato che “non essendo previsto da alcuna disposizione lo svolgimento di una sorta di esercizio provvisorio dell'impresa da parte del liquidatore … l'attività gestoria di ordinaria amministrazione continuerà ad essere condotta dagli organi amministrativi della società (Trib. Roma, decreto 29 gennaio 2014). Ad evidenza, liquidare la massa attiva nella prospettiva concordataria, al fine di distribuirne il ricavato ai creditori, non significa gestire la stessa, nell'ambito della fisiologica operatività. Va quindi ribadito che, sul piano sostanziale, il liquidatore giudiziale non è provvisto di poteri gestori e dispositivi particolarmente ampi (o, in altri termini, che ne è provvisto solo in via eccezionale), e comunque in grado di incidere su quelli che continuano a spettare al debitore, sostituendosi allo stesso. Ad esempio, si esclude che il liquidatore detenga la facoltà di decidere se sciogliere o continuare i rapporti giuridici pendenti, avviati dal debitore, sia perché gli artt. 72 ss., oggi 169-bis, non sono richiamati dall'art. 182, sia perché non può ritenersi applicabile analogicamente l'art. 104, che trova giustificazione, nel fallimento, nell'imputazione dei risultati dell'esercizio provvisorio alla massa dei creditori, che non avviene nel concordato (Audino, op. cit., 1218, nonché Lo Cascio op. cit., 657 ss.). Da quanto sopra, si evince che l'eventuale attribuzione legislativa al liquidatore giudiziale di poteri di gestione dell'impresa in concordato, assume carattere eccezionale, straordinario, non intaccando il principio generale sopra riportato. Una di queste regole straordinarie concerne il potere dispositivo attribuito al liquidatore concordatario (ed al commissario giudiziale) di valutare, ricorrendone i presupposti, il ricorso alla procedura di mobilità e alla CIGS concorsuale. In tema, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza 12 marzo 2003, n. 3597, ha affermato che“il legislatore ha sanato la discrepanza esistente nel sistema ed ha attribuito anche al commissario giudiziale, in via eccezionale, quello specifico potere di gestione dell'attività imprenditoriale che in precedenza aveva assegnato, pure in via eccezionale, esclusivamente al liquidatore. Non solo al liquidatore, ma anche al commissario, per conseguenza, in deroga alla disposizione contenuta nel primo comma dell'art. 167 del R.D. n. 267 del 1942 - secondo cui il debitore mantiene durante tutto il corso del procedimento "l'amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell'impresa" - è stato conferito, proprio per consentire una più pregnante tutela di determinati interessi socialmente rilevanti, il potere di valutare, in prospettiva, la possibilità di continuare (anche tramite la cessione dell'azienda) l'attività imprenditoriale; e, in caso affermativo, di chiedere per i lavoratori dipendenti il trattamento di integrazione salariale (e, eventualmente, di domandare anche la relativa proroga, ai sensi del secondo comma dell'articolo in esame)”. Il principio giuridico, confermato anche da Cass. 12 maggio 2004, n. 8960, è chiarissimo: in via ordinaria, il debitore conserva i poteri gestori; solo in via eccezionale a taluni organi della procedura (liquidatore giudiziale, commissario giudiziale) sono riservati specifici poteri, ma trattasi di casi speciali, che debbono essere espressamente previste dal legislatore. Si veda, molto chiaramente, ad es. Trib. Padova, decreto 12 febbraio 2015 “il Tribunale (…) nomina liquidatore (…) che si occuperà delle attività di liquidazione previste in piano e dell'effettuazione dei pagamenti secondo le cause di prelazione; non della gestione dell'attività d'impresa, che rimane affidata all'amministratore unico; - il Liquidatore procederà secondo il piano e l'imprenditore proseguirà l'attività di impresa, sotto la vigilanza del Commissario Giudiziale; (…) - l'imprenditore aggiornerà il Commissario Giudiziale con una relazione mensile ove risultano riportati i flussi preventivati e quelli effettivamente registrati”. Non basta. Invero, non va sottaciuto che, secondo consolidata giurisprudenza, il concordato con cessione dei beni è equiparabile alla cessio bonorum regolata dal codice civile agli artt. 1977 ss.: “l'ordinaria cessione dei beni ai creditori, disciplinata dagli artt. 1977 e segg. c.c., importa l'attribuzione ai creditori di un mero potere di disposizione, finalizzato alla liquidazione e al riparto per il soddisfacimento delle ragioni creditorie, ma non determina per il debitore cedente la perdita della titolarità dei beni e della legittimazione all'esercizio diretto delle azioni relative alle attività cedute” (Cass. 11 agosto 2000, n. 10738). Travasando dunque il principio alla materia concordataria, ne consegue che “Anche nella cessione dei beni ai creditori costituente particolare modo di attuazione del concordato preventivo … , pur sempre inquadrabile nell'ambito della "cessio bonorum" regolata dal codice civile, non si attua il trasferimento di proprietà dei beni ceduti” (Cass. 11 agosto 2000, n. 10738; in dottrina, al riguardo: Filocamo, op. cit., 2473-2474; Audino, op. cit., 1210 ). Infine, merita indugiare su un tema di particolare pregnanza, vale a dire il riconoscimento dei compensi a professionisti per prestazioni svolte antecedentemente alla liquidazione: secondo Cass. Civ., I, 13 aprile 2005, n. 7661 “La procedura di concordato preventivo mediante la cessione dei beni ai creditori comporta infatti il trasferimento agli organi della procedura non della proprietà dei beni e della titolarità dei crediti, ma solo dei poteri di gestione finalizzati alla liquidazione, con la conseguenza che il debitore cedente conserva il diritto di esercitare le azioni o di resistervi nei confronti dei terzi, a tutela del proprio patrimonio, soprattutto dopo che sia intervenuta la sentenza di omologazione; per effetto della detta sentenza, invero, è da ritenere che sia venuto meno il potere di gestione del commissario, mentre quello del liquidatore è da intendere conferito nell'ambito del suo mandato (art. 182 l. fall.), e perciò limitato ai rapporti obbligatori sorti nel corso ed in funzione delle operazioni di liquidazione (C. 2004/9643, C. 2000/10738, C. 1999/9663, C. 1997/7147), fra le quali certamente non può essere compresa quella concernente il riconoscimento di un compenso per incarico professionale, conferito - e verosimilmente espletato - in una fase ad esse antecedente. Ne deriva dunque che la richiesta giudiziale di liquidazione del compenso avrebbe dovuto essere proposto contro altro soggetto, vale a dire il debitore ammesso al concordato”. La Cassazione, quindi, escludendo la legittimazione del liquidatore concordatario in ipotesi in cui si discutesse di credito di terzi verso la società debitrice maturato per prestazioni professionali rese antecedentemente alla fase meramente liquidatoria, di riflesso, afferma che il soddisfacimento dei compensi dei professionisti intervenuti nella procedura (in specie, prima della liquidazione) pertiene al debitore. Da tale punto di vista, in altre parole, sembra convenirsi che il debitore che ha selezionato gli advisors di cui avvalersi per lo studio della procedura, e per l'implementazione della stessa, conservi anche il diritto di gestire e coordinare i rapporti con gli stessi. Il liquidatore giudiziale sul piano processuale. La legittimazione attiva
Le conclusioni cui si è addivenuti nel paragrafo precedente vanno confermate anche per quanto riguarda il piano processuale e, a tal proposito, conviene sceverare la legittimazione attiva da quella passiva. In materia di legittimazione attiva, con specifico riferimento all'attività di riscossione dei crediti dell'imprenditore in concordato ricompresi nell'oggetto di cessione concordataria, un isolato arresto giurisprudenziale aveva individuato nel solo liquidatore giudiziale il soggetto legittimato “a proporre ricorso per cassazione contro una pronuncia sfavorevole, emessa a conclusione di un giudizio di merito per la riscossione di crediti compresi nel patrimonio ceduto, ancorché prima della proposizione del ricorso il concordato abbia avuto completa esecuzione” (Cass. 18 dicembre 1991, n. 13626, che precisa “atteso che la chiusura del procedimento concorsuale - tranne il caso che si sia verificato il totale pagamento dei crediti e che nel concordato sia stata prevista la restituzione al cedente dell'eventuale supero - segna, per il debitore ammesso al concordato con cessione dei beni, la definitiva perdita di tutti i diritti sui beni ceduti e, conseguentemente, comporta la sua carenza di legittimazione ad agire in giudizio per la tutela di essi”). Tale impostazione, tuttavia, è stata ampiamente superata, a favore di una legittimazione concorrente dell'imprenditore in concordato e del liquidatore concordatario: “La riscontrata mancanza, nella "cessio bonorum", di un effetto traslativo della proprietà dei beni ceduti comporta che, durante la procedura di concordato preventivo con cessione dei beni, quest'ultima, se conferisce ai creditori il potere di esercitare le azioni patrimoniali relative ai beni ceduti, non attribuisce loro anche la titolarità del diritto di azione, che rimane al proprietario dei beni, con la conseguenza che, specie in caso di inerzia da parte dei creditori, il debitore cedente ha il diritto di esercitare le azioni o di resistervi, nei confronti dei terzi, a tutela del proprio patrimonio, sia per evitarne il depauperamento che per aumentarne il valore (...) Il Collegio dissente perciò dall'unico precedente contrario di questa stessa Corte (Cass. 18 dicembre 1991 n. 13626, cit. nella sentenza impugnata), che configura una legittimazione esclusiva del liquidatore all'esercizio di tutte le azioni di carattere patrimoniale relative ai beni ceduti; e, con la chiusura della procedura concordataria, in caso di incapienza, la definitiva perdita, per il debitore, di tutti i diritti sui beni ceduti, anche se residuati alla liquidazione, di cui non è facile rinvenire il fondamento normativo“ (Cass. 11 agosto 2000, n. 10738). Invece, la tendenziale legittimazione esclusiva del debitore è stata affermata nell'ambito tributario, riservando al liquidatore i soli atti sorti nel corso ed in funzione della procedura; ex multis, si vedano, oltre a Cass. 16 marzo 2007, n. 6211, la recentissima Cass. 5 settembre 2014, n. 18755, significativa anche per i molteplici precedenti giurisprudenziali richiamati e citati. A ben vedere, peraltro, stante la particolare natura e struttura del giudizio tributario, che configura il contribuente quale “attore formale” e nei fatti “convenuto sostanziale”, in quanto destinatario dell'atto accertativo, le considerazioni possono prestarsi a significative ricadute anche sul versante della legittimazione passiva. Ed ancora, e sempre in ambito tributario, non va sottaciuto che lo stesso fallito, al di là del dettato imposto dall'art. 43, l. fall., conserva la sua piena ed esclusiva legittimazione nelle controversie in cui siano dedotte questioni relative ad obbligazioni d'imposta inopponibili al fallimento (a mero titolo esemplificativo, si pensi a redditi diversi generati al di fuori del fallimento e successivamente allo stesso). Ma se questo vale per il fallimento – che, giova ribadirlo, comporta ex se lo spossessamento e la perdita della capacità processuale del fallito – sembra logico che debba valere a maggior ragione nel caso del concordato preventivo, nel quale il debitore non subisce una compressione dei propri diritti/poteri così ampia come nel fallimento. Pertanto, laddove l'azione o l'inazione del liquidatore giudiziale possa arrecare danni all'imprenditore in crisi, quest'ultimo potrà intraprendere le opportune azioni giudiziali al fine di non subire nocumento. Il liquidatore giudiziale sul piano processuale. La legittimazione passiva
Quanto alla legittimazione passiva, un tempo si registrava una dicotomia tra: i) chi la attribuiva al solo imprenditore/debitore: “Il liquidatore, nominato in sede di omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, ha la mera veste di mandatario alla gestione e liquidazione di detti beni, e, pertanto, se è legittimato a stare in giudizio per le controversie inerenti ai beni medesimi, resta estraneo alle controversie promosse per l'accertamento di crediti nei confronti del debitore ammesso al concordato” (Cass. Sez. Lav., 28 marzo 1985, n. 2187); ii) chi, invece, ammetteva una legittimazione concorrente anche del liquidatore giudiziale: “Il liquidatore giudiziale del concordato preventivo per cessione dei beni è legittimato ad agire e contraddire e, quindi, ad intervenire nei giudizi aventi per oggetto l'accertamento dei crediti fatti valere nei confronti della società concordataria, il cui riconoscimento può incidere sulla ripartizione dell'attivo e sul conseguimento delle finalità pubbliche della procedura” (Trib. Milano, 10/07/1987; Trib. Bari 09/06/1981). Il conflitto interpretativo è stato affrontato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite: “Questa Corte, specificamente per il concordato preventivo con cessione dei beni (art. 160, secondo comma, n. 2 legge fall.), ha più volte precisato - come si è in precedenza detto - che la legittimazione passiva nelle azioni proposte dai creditori per l'accertamento dei propri crediti spetta al debitore concordatario, che non perde la capacità processuale e conserva la titolarità dei rapporti obbligatori oggetto del concordato, non già al commissario giudiziale né al liquidatore nominato con la sentenza di omologazione (v., fra altre, sent. n. 2187 del 1985, n. 512 del 1984; n.6083 e 6042 del 1978). In relazione ai poteri dispositivi e solutori propri del liquidatore una sua legittimazione sussiste, invece, nei giudizi relativi ai beni oggetto della liquidazione e alla distribuzione delle somme realizzate, ma essa normalmente non è esclusiva, configurandosi un litisconsorzio necessario fra il debitore concordatario, che non perde la proprietà dei beni ceduti, e il liquidatore medesimo (v. sent. n. 3722 del 1958); il quale, per contro, può ritenersi unico legittimato a stare in giudizio solo nell'ipotesi di cessione con efficacia traslativa dei beni ai creditori ed immediata sdebitazione dell'imprenditore (cessione pro soluto; v. sent. n. 4177 del 1981)” (Cass. SS.UU, 28 maggio 1987, n. 4779). In sintesi, le Sezioni Unite hanno definito la questione in termini di litisconsorzio (passivo) necessario tra i soggetti interessati alla vicenda: imprenditore ammesso al concordato e liquidatore concordatario. Si badi: per le questioni, appunto, in cui il liquidatore abbia effettivamente un interesse ad agire. Questo autorevolissimo arresto non ha tuttavia sopito la querelle giurisprudenziale (Cfr. su questo dibattito giurisprudenziale: Filocamo, op. cit., 2481; Audino, op. cit., 1222; Ambrosini, op. cit., 395-396 in specie nota 35). Invero, successivamente a tale intervento, alcune pronunce hanno propugnato la legittimazione esclusiva dell'imprenditore ammesso al concordato: “Con riguardo alla controversia promossa per far valere una pretesa creditoria nei confronti di imprenditore ammesso al concordato preventivo, la legittimazione passiva spetta all'imprenditore medesimo, e, quindi, in caso di società, al suo organo rappresentativo, non al commissario giudiziale, od al liquidatore giudiziale in caso di concordato con cessione dei beni, posto che detta procedura non incide sulla capacità processuale del debitore (salva la facoltà di intervento in causa di detto commissario o liquidatore). Pertanto, deve essere riconosciuta la validità dell'atto introduttivo di quel giudizio, ove la "vocatio in ius" sia stata formulata nei confronti dell'imprenditore o della società ammessa al concordato preventivo, mentre deve essere affermata la nullità della sua notificazione, se l'atto stesso sia stato poi consegnato al commissario giudiziale “ (Cass. Sez. Lav., 10 settembre 1999, n. 9663; v. pure Cass. 6 aprile 1995, n. 4033). D'altro canto, invece, ulteriori pronunce hanno configurato un litisconsorzio necessario solo nel caso in cui l'azione del terzo fosse idonea ad influire sulle operazioni liquidatorie e/o sul riparto: ad es., così è se si discute della natura giudiziale o prededucibile di un credito, o ancora quando si tratta di un'azione di condanna, escludendolo laddove vi sia l'accertamento mero del credito. Insomma, il liquidatore giudiziale “è privo della legittimazione passiva nel giudizio di accertamento di un credito esulante dalle operazioni di liquidazione, come è per certo quello vantato dal commissario giudiziale per il compenso a lui spettante a norma degli artt. 165 e 39 legge fallimentare. Condivide il Collegio l'orientamento prevalente nella giurisprudenza di questa Corte nel senso che la legittimazione delliquidatore è definita dall'ambito del suo mandato (art. 182) ed è perciò limitata airapporti obbligatori sorti nel corso e in funzione delle operazioni legate alla liquidazione. Sicché la legittimazione passiva nelle controversie che abbiano ad oggetto l'accertamento di ogni altro credito (non attinente - cioè - strettamente alle operazioni di liquidazione) spetta esclusivamente al debitore concordatario” (Cass. 1° agosto 1997 n. 7147); e ancora “In caso di intervenuta ammissione del debitore al concordato preventivo con cessione dei beni, se un creditore agisce proponendo non solo una domanda di accertamento del proprio diritto, ma anche una domanda di condanna o comunque idonea ad influire sulle operazioni di liquidazione e di riparto del ricavato, alla legittimazione passiva dell'imprenditore si affianca quella del liquidatore giudiziale dei beni, quale litisconsorte necessario” (Cass. Sez. Lav., 26 luglio 2001, n. 10250; in tema, ex multis, anche Cass. 12 maggio 2010, n. 11520; Cass. 29 aprile 1999 n. 4301). Insomma, si registra ancora un conflitto, non del tutto risolto, tra pronunce di legittimità che attribuiscono competenza esclusiva all'imprenditore, e pronunce che prevedono un litisconsorzio del liquidatore giudiziale ma solo per le cause che non si risolvono nel mero accertamento del debito, in quanto, richiedendo anche una condanna, coinvolgono quindi la fase liquidatoria. Peraltro, e per concludere, la più evoluta giurisprudenza ha affermato che nei giudizi relativi alle pretese creditorie estranee e precedenti alle operazioni di liquidazione, il liquidatore non è un litisconsorte necessario quanto, semmai, un possibile interventore adesivo, il cui intervento facoltativo si può giustificare in ragione delle possibili conseguenze che indirettamente l'esito della lite può determinare sulle operazioni concordatarie (sul punto, limpidamente, Consiglio di Stato, Sez. III, 21 ottobre 2013, n. 5101; Cass. 3 aprile 2013, n. 8102). Il che comporta, all'evidenza, rilevantissime ricadute sul piano dei poteri in capo al terzo interventore, dal momento che questi non può intervenire sul thema decidendum, non può influire sullo svolgimento del processo, non può impugnare la sentenza, ecc. In tema si veda, per tutte, la chiarissima Cass. SS. UU., 17 aprile 2012, n. 5992, secondo la quale, in via generale, all'interventore adesivo è preclusa l'autonoma legittimazione ad impugnare, difettando, in capo allo stesso, un interesse concreto ed attuale all'impugnazione. Il rapporto tra liquidatore giudiziale e collegio sindacale
Alla luce di quanto esposto ed in particolare sulla scorta delle pronunce giurisprudenziali, non è revocabile in dubbio che gli organi nominati nella procedura di concordato preventivo (il giudice delegato, il commissario giudiziale, il liquidatore giudiziale) si affiancano agli organi societari, senza sostituirli o farli decadere. A tal proposito, giova ricordarlo, non esiste nessuna norma che disponga la decadenza degli organi sociali preesistenti e la loro “fagocitazione” ad opera degli organi della procedura. Né, del resto, appare ragionevole che gli organi della procedura promuovano o sollecitino operazioni volte a rendere non obbligatorio, a far decadere, ecc. il collegio sindacale (si pensi, a mero titolo esemplificativo, ad una trasformazione da un tipo sociale ad un altro che contempli particolari limiti patrimoniali, di talché la nomina del collegio è facoltativa); ciò, in nome di un asserito interesse del ceto creditorio al contenimento dei costi. Invero, l'interesse dei creditori non può essere interpretato solo in termini strettamente “numerici”, come una partita di “dare” ed “avere”, ma anche – in maniera più pregnante, ed in senso più lato – nel complesso delle tutele apprestate al suo ottenimento. In tale ottica, è appena il caso di notare che il collegio sindacale costituisce organo sociale che svolge una funzione rilevantissima in seno alla vita sociale, trattandosi di un'entità terza ed indipendente deputata a vigilare e controllare, affinché – ex pluribus – non vengano infrante norme di legge o disposizioni statutarie, e la società sia amministrata correttamente. Di talché, è “in re ipsa” che gli interessi che il Legislatore intende tutelare, mediante l'azione del collegio sindacale, sono anche (soprattutto) quelli dei creditori sociali, come noto i primi soggetti potenzialmente danneggiabili dall'indebito esercizio dei poteri riservati ad amministratori e soci. Cass. Sez. Lav., 30 ottobre 1991, n. 11542 fissa un importantissimo principio giuridico: “durante la procedura di concordato preventivo (anche se con cessione dei beni) l'imprenditore che vi sia sottoposto conserva, a norma dell'art. 167 della legge fallimentare (contenuta nel predetto R.D. 16 marzo 1942, n. 267), l'amministrazione del patrimonio e, quindi, la capacità processuale, onde, trattandosi di impresa societaria, quest'ultima continua ad essere validamente rappresentata in giudizio dagli organi che per legge la pongono in rapporto con i terzi. Nel concordato preventivo, infatti, al contrario di quanto avviene nel fallimento - nel quale il curatore, ai sensi dell'art. 43 della legge fallimentare, si sostituisce al debitore nelle liti passive inerenti a rapporti obbligatori -, il commissario giudiziale e il liquidatore dei beni ceduti hanno, a norma degli artt. 167 e 185 stessa legge, esclusivamente compiti interni di vigilanza (v. Cass. 12 gennaio 1988 n. 136 e Cass. 13 maggio 1987 n. 5395), mentre la legittimazione del liquidatore giudiziale, nominato a norma dell'art. 182 stessa legge, sussiste soltanto in casi particolari e precisamente nei giudizi relativi ai beni oggetto della liquidazione e alla distribuzione delle somme realizzate e nelle controversie inerenti alla natura concorsuale dei crediti (v. Cass. Sez. Un. 28 maggio 1987 n. 4779, anche in ordine alla distinzione fra la legittimazione esclusiva e solitaria del liquidatore e l'ipotesi di litisconsorzio necessario fra il medesimo e l'imprenditore sottoposto alla procedura). Pertanto, nelle normali controversie promosse da terzi per far valere eventuali pretese creditorie nei confronti dell'imprenditore, sia prima che dopo la sentenza che omologa il concordato, è lo stesso imprenditore che deve partecipare al giudizio, potendosi tutt'al più ammettere - come è avvenuto nella specie - che il commissario e il liquidatore giudiziali possono intervenire per sorreggerne le ragioni, proponendo anche eventuali atti di impugnazione congiuntamente con il medesimo”. Pertanto, con riferimento ai poteri del collegio sindacale, nella procedura “de qua” tale organo è chiamato ad una vigilanza rafforzata su tutte le fasi della procedura, sul rispetto dei termini concessi dal tribunale, sul rispetto della “par condicio creditorum”, e sulle operazioni compiute dagli amministratori. Pur non essendo quindi tenuto ad esprimersi sul merito del concordato, è chiaro che il collegio sindacale detiene comunque il rilevantissimo potere di vigilare sul corretto espletamento dell'intera procedura. Definendo più precisamente la questione, proprio per effetto della “coesistenza” di cui sopra, l'imprenditore ed il liquidatore “ordinario” sono soggetti al controllo del collegio sindacale, mentre il liquidatore giudiziale a quello degli organi della procedura. Tuttavia, nei casi in cui il liquidatore giudiziale si ingerisca nell'attività gestoria, il collegio sindacale avrà conseguentemente potere di controllo anche su di esso. A mero titolo esemplificativo, si pensi al caso di una transazione indebitamente gestita e concessa dal liquidatore giudiziale: il collegio sindacale è senz'altro legittimato ad intervenire, in via preventiva. Laddove, inoltre, tale previo intervento non sia stato possibile o l'operazione sia stata comunque posta in essere, al collegio spetta certamente la richiesta di intervento del tribunale, mediante apposita denunzia, ovvero l'esercizio dell'azione di responsabilità avverso il liquidatore giudiziale. Conclusioni
Tirando le fila del ragionamento, si può quindi riassuntivamente concludere che:
Per un inquadramento generale del tema della legittimazione attiva del liquidatore giudiziale cfr. Filocamo, op. cit., 2480 ss.; Audino, op. cit., 1222. Secondo Vitiello, op. cit., 2131: “il liquidatore non ha legittimazione processuale passiva, se non con riguardo alle cause che possano inerire alla ripartizione dell'attivo o all'entità delle spese della procedura, né quella attiva, ad eccezione di quelle cause recuperatorie dell'attivo che non esulino dal mandato ricevuto dal debitore o dall'incarico avuto dal tribunale; per il resto la legittimazione processuale resta in capo all'imprenditore”. V. anche Cass. 9 agosto 1990, n. 8086: “la norma dell'art. 167 della legge fallimentare, la quale prevede espressamente che durante la procedura di concordato preventivo, il debitore conserva la amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell'impresa, sotto la vigilanza del commissario giudiziale e la direzione del G.D. La cessione dei beni ai creditori, se conferisce a questi ultimi il potere di esercitare tutte le azioni patrimoniali relative ai beni ceduti, potere loro derivante dall'incarico oggetto del contratto di cessione, non conferisce loro anche la titolarità del diritto di azione che rimane al proprietario dei beni, per cui non può disconoscersi, specie in caso di inerzia da parte dei creditori, il diritto del debitore cedente di esercitare le azioni, o di resistervi, nei confronti dei terzi, a tutela del proprio patrimonio, sia per evitarne il depauperamento che per aumentarne il valore. Parimenti, il liquidatore può agire autonomamente, ai sensi dell'art. 182 della legge fallimentare, per il recupero dei beni soggetti al concordato, con potere di stare in giudizio anche senza la necessità della autorizzazione del comitato dei creditori, agendo sostanzialmente nel loro interesse, così come può anche intervenire "ad adiuvandum" il debitore cedente, sempre nell'interesse dei creditori cessionari, che, per azioni a tutela dei beni ceduti, non può non essere convergente con quello del debitore cedente”. Inoltre, secondo Cass., 5 settembre 2014, n. 18755: “questa Corte ha tratto il più generale assunto, reiteratamente affermato, secondo cui "la procedura di concordato preventivo mediante la cessione dei beni ai creditori comporta il trasferimento agli organi della procedura non della proprietà dei beni e della titolarità dei crediti, ma solo dei poteri di gestione finalizzati alla liquidazione, con la conseguenza che il debitore cedente conserva il diritto di esercitare le azioni o di resistervi nei confronti dei terzi, a tutela del proprio patrimonio, soprattutto dopo che sia intervenuta la sentenza di omologazione" (10738/00; 7661/05; 11701/07; 27897/13). Più esattamente, se il debitore ammesso al concordato preventivo subisce uno "spossessamento attenuato", in quanto conserva, oltre ovviamente alla proprietà (come nel fallimento), l'amministrazione e la disponibilità dei propri beni, salve le limitazioni connesse alla natura stessa della procedura, la quale impone che ogni atto sia comunque funzionale all'esecuzione del concordato (4728/08), per effetto della sentenza di omologazione è da ritenere che "venga meno il potere di gestione del commissario giudiziale, mentre quello del liquidatore è da intendere conferito nell'ambito del suo mandato e perciò limitato ai rapporti obbligatoli sorti nel corso ed in funzione delle operazioni di liquidazione" (7661/05). "In particolare, nel concordato con cessione dei beni, la legittimazione a disporne viene attribuita al commissario liquidatore, che agisce in una veste generalmente qualificata come di mandatario dei creditori, mentre il debitore in ogni caso mantiene (oltre che la proprietà dei beni) la legittimazione processuale, mancando nel concordato una previsione analoga a quella dettata dalla L. Fall., art. 43, per il fallimento" (4728/08). Ne consegue, quanto ai rapporti tributari, che il debitore ammesso al concordato preventivo, con cessione dei beni ai creditori e nomina del commissario liquidatore, che prosegua nell'esercizio dell'impresa, "conserva la sua capacità processuale e continua ad essere soggetto passivo di imposta e destinatario di tutti gli obblighi di natura fiscale connessi alla prosecuzione della sua attività" (12422/11). In quanto parte in senso sostanziale di tutti gli atti che concernano il suo patrimonio, il debitore "lo rimane anche per i rapporti tributari, che pertanto a lui fanno direttamente capo, e sui quali è legittimato processualmente a interloquire" (4728/08), sicché è solo a lui che vanno notificati gli atti impositivi ed è solo lui "l'unico legittimato passivo in ordine alla verifica dei crediti dopo l'omologazione del concordato, sussistendo la legittimazione del liquidatore solo nei giudizi relativi a rapporti obbligatoli sorti nel corso ed in funzione delle operazioni di liquidazione" (13340/09). E' evidente perciò alla luce di questo combinato quadro di riferimento che la legittimazione del commissario liquidatore sia riconoscibile nei soli limiti in cui la pretesa o l'obbligo siano sorti "nel corso ed in funzione delle operazioni di liquidazione", diversamente dovendo riconoscersi che essa competa al debitore, che così come non si spoglia della gestione dell'impresa e della gestione dei propri affari, parimenti ne è pure il diretto interlocutore processuale. E questo principio consente di regolare de plano anche la vicenda in esame, cogliendo l'errore compiuto dalla CTR che, giudicando nel merito, ha in tal modo pure ritenuto, errando, che il commissario liquidatore fosse legittimato al giudizio, ancorché non vi fosse prova dell'inclusione del credito tra i beni oggetto della cessione”. La legittimazione sostitutiva del fallito viene ammessa in tutti i casi in cui la curatela non intenda impugnare le pretese erariali, perché le valuta fondate o perché non reputa che l'impugnazione possa produrre effetti benefici alla procedura: “nell'inerzia degli organi fallimentari – ravvisabile, ad es., nell'omesso esercizio, da parte del curatore, del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell'atto impositivo – il fallito è eccezionalmente abilitato ad esercitare egli stesso tale tutela alla luce dell'interpretazione sistematica del combinato disposto degli art. 42 della legge fallimentare e dell'art. 16 del d.P.R. 636/1972, conforme ai principi, costituzionalmente garantiti (art. 24, comma 1 e 2), del diritto alla tutela giurisdizionale ed alla difesa” (così Cass Civ., 24 febbraio 2006, n. 4235; cfr. inoltre Cass. 17 marzo 1995, n. 3094; Cass. 12 novembre 1993, n. 11191; Cass. 28 aprile 1997, n. 3667; Cass. 20 novembre 2000, n. 14987; SS. UU. 14 maggio 2002, n. 6937; Cass. 22 marzo 2006 n. 6393; Cass. 6 febbraio 2009, n. 2910).
In tema di legittimazione passiva Cass. Civ., SS.UU, 28 maggio 1987, n. 4779 precisa: “Ma esulano dalle fattispecie ora accennate, in cui, cioè, si può profilare una legittimazione solitaria del liquidatore, i giudizi in cui si controverta del carattere concorsuale del credito, tanto se il creditore deduca che questo non debba sottostare al regime concordatario, ma debba essere pagato in prededuzione, quanto se ne pretenda l'adempimento in esecuzione del concordato. In virtù della sentenza di omologazione del concordato con cessione dei beni, infatti, rispetto ai crediti concordatari si determina una scissione tra titolarità del debito, che resta all'imprenditore - debitore, e legittimazione allo adempimento dell'obbligazione, cui è tenuto il liquidatore, il quale deve provvedervi con il ricavato della liquidazione; e poiché questo effetto è correlato, appunto, alla qualificazione del debito come concordatario, la pronuncia che accerti tale carattere dell'unico rapporto deve necessariamente essere resa in contraddittorio di entrambi i soggetti, nei cui confronti è destinata ad operare in modo diretto ed inscindibile. Tanto si conferma sul piano delle conseguenze pratiche del giudicato, essendo evidente che lo stesso rapporto non può essere diversamente qualificato per il debitore e per il liquidatore, con una statuizione che ne dichiari il carattere concordatario nei confronti solo dell'uno o dell'altro; in entrambe le ipotesi la pronuncia non potrebbe produrre l'effetto di consentire l'adempimento in sede concordataria, giacché il liquidatore né è tenuto ad ottemperare ad una decisione non opponibile a lui e, dunque, agli altri creditori, né può dare esecuzione ad una sentenza che, per non essere opponibile al debitore concordatario, impedisce di conteggiare il debito ai fini della procedura (ad es., l'adempimento del debito sarebbe irrilevante agli effetti del mancato soddisfacimento delle ragioni creditorie nella misura minima di legge)”. |