Il sequestro preventivo e la confisca verso la persona giuridica nei reati tributari

01 Agosto 2016

Il sequestro preventivo per equivalente, secondo quanto previsto dall'art. 322 ter c.p.p., può essere disposto solo quando risulti impossibile procedersi a confisca diretta dei beni che costituiscono profitto di reato.In caso di violazioni tributarie del legale rappresentante di una società, è possibile procedere a confisca diretta del denaro e dei beni che siano rimasti nella disponibilità della persona giuridica quando siano riconducibili al profitto di reato.
Massima

Il sequestro preventivo per equivalente, secondo quanto previsto dall'art. 322 ter c.p., può essere disposto solo quando risulti impossibile procedersi a confisca diretta dei beni che costituiscono profitto di reato.

In caso di violazioni tributarie del legale rappresentante di una società, è possibile procedere a confisca diretta del denaro e dei beni che siano rimasti nella disponibilità della persona giuridica quando siano riconducibili al profitto di reato.

Costituisce profitto del reato di omesso versamento di imposte anche il risparmio corrispondente alla somma non versata all'erario ed i beni acquisiti mediante il reinvestimento della stessa.

Il caso

Con ricorso ex art. 325 c.p.p. S.S.C. impugnava l'ordinanza con cui il Tribunale di Bergamo, in funzione di giudice del riesame, aveva respinto l'istanza difensiva avverso il decreto di sequestro preventivo per equivalente, disposto dal G.I.P. sui beni del ricorrente. Quest'ultimo, infatti, era indagato – quale amministratore di una Srl – per la violazione degli artt. 2 e 4 D. Lgs. n. 74/2000, con riferimento a fatturazione per operazioni inesistenti e ad infedele dichiarazione dei redditi.

Con il ricorso per Cassazione, S.S.C. ha lamentato che fosse stato disposto ed eseguito nei propri confronti un sequestro preventivo a fini di confisca “per equivalente”, concernente suoi beni personali e senza prima tentare il sequestro diretto dei beni societari, segnatamente del denaro di pertinenza della persona giuridica.

Tale modo di procedere era stato adottato dal G.I.P. disponente e poi di fatto avallato dal Tribunale del riesame con il provvedimento fatto oggetto di ricorso innanzi la Suprema Corte.

Le questioni giuridiche

La sentenza in commento, nell'accogliere la prospettazione difensiva del ricorrente, rimette ordine ad una interpretazione forse un po' confusa che il Tribunale del Riesame aveva fornito, nel momento in cui aveva confermato il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca “per equivalente” sui beni dell'amministratore. In particolare, i giudici di merito avevano affermato che, nel caso in cui il profitto del reato tributario sia costituito da un mancato versamento di imposta all'erario, non vi è altra possibilità se non quella di procedere a sequestro, appunto, per equivalente del corrispettivo valore dell'imposta non versata. E tale provvedimento ablativo “per valore” non può giocoforza concernere beni della società (salvo che essa non si riveli essere uno schermo puramente fittizio).

Con la decisione in esame la Suprema Corte ripercorre espressamente, per condividerlo e meglio adattarlo al caso di specie, l'insegnamento delle Sezioni Unite penali espresso nella sentenza 5 marzo 2014, n. 10561.

Il ragionamento sviluppato dalla III sezione penale in questo caso ha il pregio di sviluppare una spiegazione analitica, ed anzi quasi schematica delle questioni che emergono, consentendo all'interprete una applicazione piana e condivisibile dei principi sottesi.

In primo luogo giova chiarire che si sta trattando, nel caso che ne occupa, di reati tributari contestati alla persona fisica quale amministratore della società. Ebbene, partendo dal dato normativo, la previsione del sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca “del prezzo o del profitto” dei reati de quibus, mutuando la previsione dell'art. 322 ter c.p. per i reati contro la P.A., trova oggi espressa previsione per i reati tributari nell'art. 12 bis D. Lgs. n. 74/2000. La norma prevede, infatti, che in caso di condanna per i reati fiscali di cui al citato decreto legislativo si debba procedere a confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato “salvo che appartengano a persona estranea al reato” o, in caso di impossibilità, alla confisca di altri beni “di cui il reo ha la disponibilità” per un valore corrispondente al prezzo o al profitto.

Le questioni che, dunque, si pongono e che la sentenza in esame ha analizzato analiticamente paiono potersi così sintetizzare: la confisca (e ancor prima, il sequestro finalizzato alla stessa) diretta e per valore hanno natura e regimi diversi? Vi è una priorità indefettibile dell'una sull'altra o è rimesso alla scelta dell'autorità giudiziaria? Cosa si deve intendere per “profitto” nell'accezione della norma citata? Chi può essere considerato reo e chi persona estranea, ai fini che qui interessano, rispetto ai reati tributari commessi da una persona giuridica, o meglio da un organo rappresentativo di una persona giuridica?

Fare chiarezza su questi quesiti e possibilmente in modo sistematico, consente di rilevare l'erroneità del ragionamento in cui è incorso il Tribunale del Riesame nel provvedimento impugnato.

Va dunque subito chiarito che la confisca diretta è espressamente quella avente natura di misura di sicurezza prevista dall'art. 240 c.p. in generale per i reati, in questo caso indicata come obbligatoria pur in assenza del requisito di pericolosità del bene: essa colpisce direttamente i beni dell'autore del reato, a patto che gli stessi siano in relazione con il reato e ne costituiscano il prezzo o il profitto. Diversa è la natura della confisca per equivalente, “ambigua, sospesa tra funzione specialpreventiva e vero e proprio intento punitivo”, meramente sanzionatoria (e come tale dichiarata dalle Sezioni Unite penali della Cassazione, 31 gennaio 2013, n. 18374), e colpisce beni nella disponibilità del reo senza la necessità di alcuna relazione pertinenziale con il reato per il quale si procede. Essa, perciò, nella ratio del legislatore ha una funzione di aggravamento delle conseguenze punitive a carico dell'autore del reato, del tutto diversa dalla finalità della confisca diretta del prezzo o del profitto.

La lettera della norma speciale, peraltro, parrebbe porre senza equivoci un ordine obbligato al giudice che procede, imponendo come prima ed indefettibile scelta quella di ricercare e confiscare il prezzo o il profitto di reato ovunque si trovi: mancando questo preliminare accertamento sarebbero illegittimi il sequestro e la confisca per valore su altri beni del reo. Ebbene, laddove il legislatore ha inteso ricomprendere anche la persona giuridica – che non è “persona estranea” – il cui legale rappresentante sia indagato di reati tributari, quando si possa verificare che il profitto dei reati stessi sia rimasto nella disponibilità della società.

In altre parole, perciò, la confisca può e deve colpire direttamente i beni che abbiano pertinenza con il reato fiscale anche quando sono nella disponibilità della persona giuridica. Solo dopo la verifica negativa di questo antecedente si potrà procedere a sequestro per valore.

A questo punto, però, è necessario sottolineare un aspetto di non secondo momento nell'interpretazione del Cassazione, ovverosia che nel concetto di “profitto” deve farsi rientrare anche il risparmio di denaro corrispondente alle imposte non versate all'erario dal parte della società, di talchè il denaro che rimane nelle casse della persona giuridica, ovvero altri beni fungibili che in ipotesi possano essere stati acquisiti mediante utilizzo di tale denaro costituiscono profitto di reato e sono suscettibili di confisca diretta, non già per equivalente. Ne consegue, perciò, che è possibile procedere a sequestro e confisca diretta dei beni e del denaro della persona giuridica, quando ciò sia identificabile con il profitto (nel senso ampio ora illustrato) di reato.

A diversa conclusione si deve giungere per quanto riguarda la confisca per equivalente, in relazione alla quale ci si deve chiedere se sia applicabile ad una persona giuridica. Si è visto che la norma menziona espressamente beni che appartengano al “reo”: da una corretta interpretazione della lettera della legge, la risposta non potrà che essere negativa per almeno due motivi: il primo, secondo l'interpretazione della Corte di Cassazione, è che l'immedesimazione organica tra amministratore indagato e società amministrata non può spingersi fino a giustificare ciò, salvo che la società non sia meramente fittizia; il secondo motivo, più strettamente legislativo, fa leva sul fatto che il D. Lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità penale delle persone giuridiche non ricomprende nel novero dei reati previsti anche quelli tributari. Non vi è altra possibilità giuridica, ad oggi, per poter ipotizzare una estensione analogica - che oltretutto sarebbe in malam partem e perciò inammissibile - della confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica. In buona sostanza, in quest'ambito continua a valere il principio per il quale “societas delinquere non potest”, con il chè essa non potrà essere identificata con il reo indicato dalla norma.

Il sequestro e la successiva confisca per equivalente, dunque, intanto sarà ammissibile solo se preceduta dalla verifica che non esistano beni o denaro costituenti prezzo o profitto di reato anche eventualmente presso la società amministrata dall'indagato; inoltre sarà possibile procedere “per valore” solo su beni di pertinenza del responsabile del reato tributario per il quale si procede, ivi escludendosi la persona giuridica.

Osservazioni

Alla luce dell'interpretazione sistematica che si è qui illustrata e riepilogata, diviene perspicua l'erronea applicazione operata dal Tribunale del Riesame di Bergamo, fatto oggetto di ricorso.

Appare evidente, a chi scrive, che l'errore metodologico di fondo nel ragionamento del giudice territoriale sia caduto innanzitutto sul concetto di profitto di reato nell'ipotesi, come quella della fattispecie in esame, di mancato versamento di imposte all'erario. Ha ritenuto il Tribunale, sostanzialmente, che non fosse identificabile il profitto nella sua oggettività e che, di conseguenza, in questo caso non si potesse che procedere al sequestro ed alla confisca per equivalente dei beni dell'amministratore sottoposto a procedimento penale. Da questo errore è conseguita, giocoforza, l'affermazione che sia corretto cercare beni diversi nella disponibilità del reo da acquisire per pari valore.

Ma non può che concordarsi con quanto affermato, viceversa, dalla Corte di legittimità in merito al fatto che il mancato versamento di imposte provoca un risparmio di denaro in capo alla persona giuridica e che proprio tale denaro, o altri beni fungibili che siano frutto di investimento di quelle somme, debbano essere ricercati nella disponibilità di quest'ultima. Immediata conseguenza logico-giuridica di questa affermazione è che, una volta reperiti questi beni fungibili della società, il provvedimento ablativo che su di essi deve gravare è di tipo diretto, non per equivalente, per la stessa natura fungibile del denaro o dei beni in questione, che consente di considerarli pertinenti al reato per cui si procede.

Analogamente del tutto corretta e condivisibile appare l'affermazione posta dalla sentenza in commento, secondo cui la ricerca del denaro o dei beni in capo alla persona giuridica, che costituiscano il prezzo o il profitto del reato tributario, costituisce antecedente ed anzi condizione indefettibile di legittimità dell'eventuale sequestro per equivalente su altri beni di proprietà del “reo”. A ben vedere è la piana lettura della norma speciale (“…ovvero, quando essa non è possibile,…” ) che non offre spazio ad interpretazioni alternative giuridicamente condivisibili, tuttavia sostenute da alcune precedenti pronunce della Corte.

Conclusioni

Se i principi affermati dalla sentenza qui oggetto di esame appaiono non contestabili, di certo l'interpretazione sembra ben lungi dall'essere definitivamente chiarita. Se la sentenza 5 marzo 2014, n. 10561 delle Sezioni Unite ha tracciato il solco di una interpretazione univoca, ancora in epoca successiva altre pronunce della Corte di legittimità si sono espresse in senso difforme sul punto focale, ovverosia quello della natura del profitto in caso di mancato esborso di denaro: profitto che, secondo un arresto giurisprudenziale (Cass. Pen., V sez., 4 giugno 2014, n. 27523) si configurerebbe come “immateriale” non sottoponibile a sequestro e confisca diretta, legittimando così il necessario provvedimento per valore.

Come è evidente la materia scopre un vero vulnus, individuabile nella incomprensibile esclusione dei reati tributari dal perimetro di applicazione della responsabilità delle persone giuridiche ex D. Lgs. n. 231/2001, che consente la facile elusione della pretesa tributaria dello Stato attraverso l'intestazione di beni non pertinenti con il reato in favore della società, nei cui confronti non potrà mai essere andrebbe disposto sequestro per equivalente. Ma tale aporìa dovrà, semmai essere risolta dal legislatore in un'ottica de jure condendo.

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