Articolo 50 T.U. bancario: norma di favore per gli istituti di credito

02 Febbraio 2016

L'art. 50 T.U.B., consentendo alla Banca d'Italia e alle banche di chiedere il decreto d'ingiunzione previsto dall'art. 633 c.p.c. anche in base all'estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido, è una norma di favore per gli istituti di credito e presenta indubbi profili di incostituzionalità, che debitamente vanno censurarti.
Dal saldaconto all'estratto conto. Differenza ontologica e prassi bancaria di produrre estratto conto che dissimula il saldaconto

La Banca d'Italia e le banche possono chiedere il decreto d'ingiunzione previsto dall'art. 633 c.p.c. anche in base all'estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido (art. 50 T.U.B.).

L'art. 50, secondo la migliore dottrina, come vedremo infra, è una norma di favore per gli istituti di credito: presenta indubbi profili di incostituzionalità, che debitamente vanno censurarti.

È d'uopo una premessa: la riflessione che segue non si riferisce al saldaconto, presente nel vecchio testo unico bancario, bensì all'estratto conto. Tuttavia, un accenno al saldaconto è doveroso, dal momento che nella prassi giudiziaria le banche, per ottenere il provvedimento monitorio, producono, dissimulatamente, l'estratto conto, che in ultima analisi si rileva un effettivo saldaconto.

Il vecchio testo unico bancario del 1936, all'art. 102, così recitava: “L'Istituto di emissione e gli Istituti di credito di diritto pubblico possono chiedere il decreto di ingiunzione ai sensi dell'art. 3 del R.D. 7 agosto 1936, n. 1531 anche in base all'estratto dei loro saldaconti, certificato conforme alla scritturazioni da uno dei dirigenti dell'istituto interessato, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido. La precedente disposizione si estende alle banche di interesse nazionale, nonché alle Casse di Risparmio aventi un patrimonio di almeno 50 milioni di lire” (art. 32 T.U.B. del 1936).

Il saldaconto era il documento contenente il saldo riassuntivo dei rapporti di conto corrente: il mero saldo finale; consentiva la pronuncia del provvedimento monitorio, senza necessità di specificare le singole voci a debito ed a credito.

La Suprema Corte di Cassazione, con una storica sentenza a Sezioni Unite (Cass. civ. SSUU, n° 6707/1994), ne dava questa definizione, precisando la sua valenza, nel seno del procedimento monitorio, solo al momento della pronuncia dell'ingiunzione: “ai sensi dell'art. 102 della l. bancaria 7 marzo 1938 n. 141, il valore probatorio dell'estratto dei saldaconti è limitato al procedimento monitorio […]; mentre non si estende al susseguente procedimento di opposizione ed in genere agli ordinari giudizi di cognizione (ivi compreso quello introdotto da domanda di insinuazione al passivo fallimentare), nei quali detto documento può assumere rilievo solo come elemento indiziario, la cui portata è liberamente apprezzabile dal giudice, e solo nel contesto di altri elementi ugualmente significativi”.

Un eminente giurista, il Patti, già si poneva il problema della favorevole disposizione assicurata agli istituti di credito ed ammoniva il legislatore, sollevando preziose e nutrite riflessioni, sul valore ontologico del saldaconto nel seno della gerarchia delle prove.

Così scriveva: “La struttura dell'art. 102 legge bancaria, coerente con la sua ratio di offrire alle banche uno strumento peculiare alle loro esigenze di liquidità, attraverso la pronta esigibilità e la rapida realizzabilità dei loro crediti, denuncia l'eccezionalità della norma rispetto alla disciplina generale del valore probatorio delle scritture contabili tenute dagli imprenditori, non solo nell'ambito dell'ordinario giudizio di cognizione, ma anche in quello del procedimento monitorio.

Tali caratteristiche di eccezionalità hanno in particolare condotto a sottolineare l'autonomia della normativa dell'art. 102 legge bancaria rispetto a quella successivamente introdotta dal codice di rito (segnatamente agli artt. 634 e 635) per il procedimento monitorio.

Occorre indagarne la natura, al fine di coglierne l'efficacia probatoria, tenuto conto dell'inquadramento sistematico offertone, come documento proveniente dallo stesso creditore, cui il legislatore ha conferito, per il procedimento monitorio, efficacia di prova legale in relazione al particolare status del soggetto richiedente. Ciò in quanto l'estratto di saldaconto è certamente un documento-dichiarazione proveniente dalla stessa parte ricorrente, che si sostanzia nell'attestazione dell'esistenza della partita contabile da cui deriva la ragione creditoria.

A tale inquadramento si è obbiettato l'evidente condizionamento dalla sistematica del cosiddetto procedimento monitorio puro, in ordine a cui sono state espresse alcune perplessità, se non addirittura aperta contrarietà per la ravvisata scarsa utilità e perfino dubbia proponibilità nel nostro ordinamento.

Al di là, tuttavia, delle diverse accentuazioni poste sull'inquadramento sistematico della norma, appare comunque difficilmente contestabile, ad avviso dello scrivente, la sua natura processuale, essendo essa prevista esclusivamente in tale ambito e avendo ad oggetto documenti privi, come più sopra detto, di una statuizione positiva di diritto sostanziale” (A. Patti, Efficacia probatoria dell'estratto dei saldaconti in sede di verifica dello stato passivo, in Fall., 1995, 2, 177).

Da qui la riforma con l'attuale testo unico, che ha sostituito l'estratto conto al saldaconto.

L'obiettivo del legislatore era quello di offrire maggiori guarentigie al debitore ingiunto, sull'assunto che l'estratto conto dovesse contenere l'annotazione di tutte le operazioni.

L'estratto conto deve avere, per le sue finalità, un contenuto chiaro ed intelligibile. Completezza ed intelligibilità sono caratteristiche indefettibili dell'estratto conto; la completezza impone non solo l'analiticità delle annotazioni dell'estratto conto, ma anche che tutte queste voci siano corredate dall'indicazione delle relative causali; mentre l'intelligibilità è data da una redazione delle voci che possa essere compresa da una persona di media cultura ed esperienza (M. Sciddurlo, L'estratto di conto corrente bancario: questioni in tema di efficacia probatoria, in Magistra Banca e finanza Rivista di Diritto Bancario e Finanziario dello Studio fondata nell'anno 1998, Studio Legale Tidona ed Associati).

In realtà, anche se con la legge Amato (n° 218/1990) il processo di trasformazione delle banche pubbliche ha determinato un assetto organizzativo in società per azioni, tuttavia, pur sostituendo l'estratto conto al saldaconto, di fatto è stato conservato il privilegio di ottenere un provvedimento monitorio con una procedura agevolata.

Così viene profilata la differenza con il saldaconto.

Secondo la giurisprudenza “l'estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della Banca opposta, contenente la dichiarazione che il credito è vero e liquido, ovverosia il documento ex art. 50, D.Lgs. n. 385/1993 (Tub), è cosa diversa dall'estratto di saldaconto di cui all'art. 102, L. 7 marzo 1938, n. 141, […], mentre l'estratto conto vero e proprio, di cui all'art. 50 del D.Lgs. n. 385/1993 (Tub), ha l'efficacia probatoria prevista dall'art. 1832 c.c.” (Cass. civ., n° 6705/2009 e Cass. civ., n° 12509/2009).

In realtà, nella prassi forense, giammai le banche producono estratti conto, dai quali poter desumere l'effettiva storia della relazione tra le parti. Dissimulatamente gli estratti, che vengono depositati, si riducono ad una scheda, nella quale non sono presenti tulle le annotazioni riferibili al periodo storico considerato.

Così, in proposito, ha ritenuto autorevole giurisprudenza: “costituisce «grave motivo» per sospendere ai sensi dell'art. 649 c.p.c. la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto, la circostanza che esso sia stato concesso in carenza dei requisiti richiesti dalla legge (nella fattispecie il decreto ingiuntivo era stato emesso ai sensi dell'art. 50, D.Lgs. n. 385/1993 a fronte di una documentazione che - pur qualificata come «estratto conto» - non ne aveva i requisiti intrinseci)” (Tribunale di Rovigo 30/04/2004).

“Secondo l'orientamento maggioritario giurisprudenziale quando, nelle controversie di diritto bancario, l'istituto di credito riveste il ruolo di parte attrice (in senso sostanziale e quindi anche la posizione di opposta nel seno del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo), ha l'onere di provare i fatti costitutivi, posta alla base della propria pretesa creditoria; ciò che si traduce nella necessità di produrre oltre al documento contrattuale, tutti gli estratti conto relativi all'intera durata del rapporto […]. La Banca, nella specie, non ha prodotto tutti gli estratti conti integrali dalla data di apertura del rapporto, sicché allo stato il credito monitoriamente azionato non può dirsi provato, ne' la documentazione prodotta dalla banca appare idonea ad integrare i requisiti di determinatezza e determinabilità delle condizioni contrattuali applicate al rapporto. Stante l'incertezza del credito, oggetto del decreto ingiuntivo, si dispone la sospensione ex art 649 c.p.c.” (Tribunale di Novara 23/02/2014).

Allo stesso modo il Tribunale di Torino (28/05/2013) ha revocato un decreto ingiuntivo, proprio perché la Banca, dovendo per legge depositare un estratto conto, ha invece prodotto un saldaconto, senza conferire contezza di tutte le annotazioni. Ha così statuito il Giudice piemontese: ”Il certificato di saldaconto finale redatto dalla banca ed a firma di un dirigente della medesima - relativamente allo scoperto di conto corrente - era sufficiente a legittimare l'emissione di decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 1823, comma 2, c.c. prima dell'entrata in vigore del Decreto Legislativo del l settembre 1993, n. 385, Testo Unico delle leggi in. materia bancaria, il quale, a norma dell'art. 50 (Decreto ingiuntivo} prescrive adesso che il decreto di ingiunzione previsto dall'art. 633 c.p.c. debba essere richiesto esclusivamente "in base all'estratto conto […]” e non più in base al solo saldaconto o estratto genericamente indicante la posizione debitoria in essere al momento dell'emissione dello stesso”.

La nuova norma, facendo esclusivo riferimento all' “estratto integrale” di conto corrente, risponde alla necessità di tutelare il correntista anche nell'eventuale giudizio susseguente al procedimento monitorio, consentendogli una contestazione consapevole delle risultanze del documento stesso , nella conoscenza di tutti i movimenti del c/c e delle singole partite contabili giustificative del eredito vantato dalla banca.

Il decreto monitorio emesso sul solo estratto dei saldaconti è pertanto da ritenersi invalido in quanto fondato su prova scritta inidonea, ai sensi del citato art. 50 T.U. sull'attività bancaria, a documentare il titolo giustificativo del credito, costituendo prova scritta ai sensi degli artt. 2709 ss. c.c. e 634 c.p.c. solo l'estratto analitico dei conti dall'apertura della linea di credito alla attuale pretesa da parte della banca.

Neppure può essere pronunciata sentenza di condanna al pagamento della somma derivante dal predetto scoperto di c/c in quanto la documentazione prodotta dalla banca è incompleta per le ragioni sopra indicate e non può costituire idonea prova del credito.

Si rimarchi che il legislatore aveva ben delineato, a difesa del correntista, la detta differenza così definendo l'estratto conto nella Relazione di accompagnamento al Testo Unico: “l'estratto conto deve rappresentare il risultato di tutte le voci a credito e a debito ricadenti nell'arco di tempo considerato, ivi compresi i diritti di commissione, le spese, le ritenute fiscali e gli interessi attivi e passivi maturati, con l'indicazione di un saldo attivo o passivo che costituirà la prima posta della successiva fase del conto” (Relazione al Decreto Legislativo n° 385/1993).

Le Banche, con la disattenzione dei Magistrati, di converso depositano, in luogo degli estratti conto, veri e propri saldaconto.

Genesi del decreto ingiuntivo ex art. 50: lesione dell'interesse del debitore per la tutela del principio del contraddittorio e Indubbi profili di incostituzionalità

Si puntualizza che l'esame ha come oggetto solo il momento in cui il Giudice concede il decreto, non anche la fase dell'opposizione.

Si intende soppesare tale potere che, come vedremo, se non è utilizzato con la necessaria parsimonia, può determinare gravi danni nella sfera del debitore.

Come si legge nel disposto normativo, è consentito alle banche richiedere al Giudice, sulla base dell'estratto conto e di un'autocertificazione, il decreto ingiuntivo.

Attraverso l'ingiunzione la banca si procura lo strumento per aggredire il patrimonio immobiliare del correntista, debitore principale, e dei suoi fideiussori.

Non si dimentichi, in proposito, che al momento della confezione del contratto di apertura di credito per la concessione di un affidamento, la banca ha ottenuto fideiussioni dal correntista e se, ad esempio, l'apertura di credito si fosse stipulata con una compagine sociale, di certo le avrebbero concesse anche gli altri soci.

Se si determina uno sconfinamento, che produce una revoca degli affidamenti (1845 c.c.), la Banca, per rientrare del prestito effettuato e, dunque, dell'affidamento concesso, si avvale della procedura monitoria. Trattasi del procedimento più veloce e spedito messo a disposizione dall'ordinamento per conseguire un titolo, che costituisce il sostrato grazie al quale l'istituto di credito può iscrivere ipoteca giudiziale (art. 2818, comma 2, c.c., art. 655 c.p.c.) sui beni del debitore: il correntista ed i suoi fideiussori.

Dobbiamo stabilire la genesi del decreto ingiuntivo ex art. 50, per capire se effettivamente il debitore ingiunto sia tutelato, quando il Giudice (che è solo ed ha innanzi a sé il fascicolo del ricorrente Banca con i documenti proposti) si appresta a rendere il provvedimento monitorio richiesto. Non interessa, in questo contesto, esaminare la fase dell'opposizione, dal momento che il decreto per se stesso, sin dalla sua emissione, produce seri e perniciosi danni per il debitore se, come vedremo, è munito di provvisoria esecuzione ex art. 642 c.p.c., II comma. In questo caso, prima che esso sia notificato, costituisce titolo per l'iscrizione giudiziale.

Ci si riferisce al secondo comma dell'art. 642 c.p.c., a tenor del quale è possibile concedere la provvisoria esecuzione, se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo ovvero se il ricorrente (nel nostro caso la Banca) produca documentazione sottoscritta dal debitore, comprovante il diritto fatto valere.

Il debitore, dunque, si vedrà notificato il ricorso, con in calce il pedissequo decreto munito di provvisoria esecuzione ex ante (642 c.p.c.) e verificherà che i suoi beni e quelli del fideiussore sono stati ipotecati. La conseguenza sarà che anche altri istituti di credito, con i quali erano in corso affidamenti, troncheranno la relazione bancaria, con la revoca immediata di tutte le linee di credito. Si cagionerà, per conseguenza immediata e diretta, la segnalazione alla Centrale Rischi della relativa sofferenza.

Il processo, che comporterà, inevitabilmente, come ultimo stadio, la fine dell'impresa, si snoda come segue:

  1. la Banca, con ricorso, chiede al Giudice competente per territorio (individuato, di solito, con il Tribunale ove ha sede la filiale, nella quale si è aperto il c/c o anche con il Tribunale ove l'istituto di credito ha la sede centrale) l'invocato provvedimento.
  2. Il testo unico faculta la Banca ad ottenere il decreto ingiuntivo su estratti conto e su un'autocertificazione di un suo dirigente, che acclari la conformità dei saldi, in ragione delle scritture contabili tenute dall'istituto di credito.
  3. Lo stesso dirigente, autonomamente, deve dichiarare che il credito sia vero ed esigibile.

È, dunque, evidente che l'art. 50 sia una norma speciale, che presenta una deroga rispetto a quella generale, configurata dall'art. 633 c.p.c., in forza del quale il processo per l'ottenimento del provvedimento monitorio è più complesso e presenta maggiori guarentigie per il debitore.

La migliore dottrina ha giustificato la prerogativa speciale dell'art. 50 per gli istituti di credito sulla base delle seguenti coordinate:“La funzione della norma è indubbiamente quella di tutelare in modo particolare l'interesse di tutte le banche, senza distinzioni di sorta, ad un rapido recupero giudiziale dei propri crediti, ciò al fine di garantire il mantenimento di quella liquidità, su cui si fonda il sistema bancario nel suo complesso e che potrebbe risultare decisamente pregiudicata dall'aumentare delle c.d. "partite in sofferenza", a seguito delle note lungaggini processuali del rito ordinario. La sussistenza di queste esigenze, di indubbio valore pubblicistico, dà contezza della conseguente compressione del diritto di difesa dei debitori” (V. Farina, Problemi della pratica: la determinazione giudiziale del credito bancario in conto corrente, Banca borsa tit. cred., 1999, 3, 340).

Infatti, nel caso della procedura normale prevista dal codice di rito, gli estratti della banca sono certificati da un notaio; invece, nell'ambito della normativa speciale, è la stessa banca, tramite un suo dirigente, ad effettuare l'autocertificazione.

Siamo in una fase cruciale, perché la Banca, senza la partecipazione del debitore ingiunto, dunque, senza contraddittorio, può ottenere un provvedimento fondamentale, il decreto ingiuntivo, ed immediatamente bloccare (più correttamente ipotecare) il patrimonio del debitore principale e dei suoi fideiussori. Oggi, con il processo telematico, l'ottenimento dell'ingiunzione può dirsi immediato.

Tra la normativa generale e quella speciale più favorevole, l'istituto di credito opterà per quest'ultima, più semplice.

L'art. 50 è un privilegio per gli istituti di credito, giustificato dalla necessità di ottenere celermente e con rapidità il recupero del credito, per superiori esigenze di liquidità.

In che cosa consiste il privilegio:

  • senza neppure il controllo di un terzo (si pensi ad un notaio) la banca, per l'opera di un proprio dirigente, attribuisce valore probatorio privilegiato agli estratti conto, che sono dalla medesima confezionati.
  • In deroga al principio che le scritture contabili fanno prova contro l'imprenditore (art. 2710 c.c.), la banca, di converso, può avvalersene per ottenere l'ingiunzione.
  • È sempre e solo la Banca, attraverso il suo dirigente, a conferire l'attestazione che il credito sia vero ed esigibile.

È stato Gustavo Minervini (in Giur. Comm. 1993, I, 838) a qualificare come norma di favore l'art. 50. Lo studioso ha ritenuto che la Banca è sottoposta ad un serrato e penetrante controllo amministrativo, ma, a differenza di altri enti, è agevolata nella richiesta del provvedimento monitorio, potere quest'ultimo non riconosciuto ad organismi del medesimo tipo. Da qui una chiara lesione dell'art. 3 Cost.

Dello stesso avviso è un altro giurista, il Dolmetta, che, recentemente, ha proposto le medesime obiezioni, affrontando la questione da un altro angolo prospettico: quello del principio della vicinanza della prova.

È ben noto che la tematica della vicinanza della prova implichi che l'autore dello strumento probatorio si identifichi con lo stesso, che se ne avvalga. Pertanto, la Banca confeziona l'estratto conto ed il medesimo sarà utilizzato per ottenere il decreto ingiuntivo contro il debitore.

Ha scritto Dolmetta: “Nell'ambito della vicinanza di impresa a vantaggio di chi la possiede spicca — il rilievo ben può dirsi scontato — la norma dell'attuale art. 50 del testo unico bancario, che dichiara «prova idonea» all'ottenimento del decreto ingiuntivo l'«estratto conto certificato», come conforme alle scritture contabili della banca, da uno dei suoi stessi dirigenti, che assume il credito quale «vero» e, inoltre, «liquido». Nella tradizione dell'operatività bancaria, i contenuti del certificato si riducono all'enunciazione degli estremi del conto e nell'indicazione di una cifra «a saldo», «riassuntiva» di ogni annotazione. Così configurato, il documento si manifesta, in sé stesso, come una «autocertificazione» secca e del tutto imperscrutabile: di fronte a tali presupposti, comunque, la giurisprudenza è usa concedere il decreto.

Com'è evidente, una simile struttura normativa ;pone problemi di giustificazione e ragionevolezza, anche — prima di tutto, meglio — sul piano della tenuta costituzionale. Nella lettura tradizionale che di essa viene data, la norma mira ad agevolare il recupero del credito bancario, così conformandosi alla peculiare natura della relativa impresa. Non si vede tuttavia cosa semplifichi — specie oggi che le scritture contabili non sono più tenute da piccoli scrivani fiorentini — l'assoluta genericità del documento probatorio del credito (altro è un'autocertificazione, altro un documento controllabile almeno nell'estrinseco): salvo, a pensar male, che si tratti, nella realtà delle cose, di premiare dei disordini contabili dell'impresa. In ogni caso, a tener fermo lo strumento in sé stesso resta che la forza del certificato — in sé dirompente, atteso pure il tema della provvisoria esecuzione — dev'essere rigidamente circoscritta in via di interpretazione, se non si vogliono alimentare crescenti dubbi di illegittimità costituzionale (artt. 3 e 24 Cost.)” (Dolmetta e Malvagna, Vicinanza della prova e prodotti di impresa del comparto finanziario, in Borsa e Titoli di credito, 6, 2014, 659).

Il problema è stabilire se realisticamente la Banca, nel proprio fascicolo monitorio, inserisca gli estratti conto e tutti i documenti necessari per ottenere, in via privilegiata ed agevolata, il decreto monitorio richiesto.

La banca, perciò, dovrebbe depositare:

  • gli estratti conto relativi al periodo considerato, quello riferito alla relazione bancaria, inserendo l'estratto iniziale (dies a quo - momento iniziale) e quello finale (dies ad quem - estratto di chiusura);
  • la copia della scrittura contabile, che si riferisca all'annotazione di quel dato rapporto di conto corrente, che specificamente lo individui;
  • una scheda riepilogativa, che annoti tutte le operazioni contabili del periodo cui si riferisce (addebiti, accrediti, rimesse di terzi, interessi passivi, attivi, commissione di massimo scoperto).
  • Dovrebbe, inoltre, provare che tra le parti si sia stipulato un contratto e, all'uopo, depositare quest'ultimo, nel quale sia ben visibile il riferimento all'apertura del conto, il tasso applicato, la commissione di massimo scoperto, il tasso di mora: tutti gli elementi identificativi, propri di un contratto bancario. Tale deposito costituisce la produzione principe, in mancanza della quale non è data la prova della sussistenza della relazione e, dunque, non può essere concesso il provvedimento monitorio. Ci si riferisce al disposto dell'art. 117 del Testo Unico, a norma del quale i contratti sono redatti per iscritto ed in mancanza di tale forma se ne deve declarare la nullità.

Oltre al contratto ed agli estratti conto la Banca deve conferire la prova, attraverso l'avviso di ricevimento o pec o email certificata, che il correntista abbia ricevuto al suo domicilio tutti gli estratti conto.

In mancanza di questi elementi il decreto ingiuntivo non dovrebbe essere ottenuto.

Si ritiene che, ove non possa provarsi l'invio dell'estratto conto, la banca deve allegare tutti gli estratti conto relativi al rapporto intrattenuto con il cliente sin dal suo sorgere, per consentire al Giudice ed al debitore di conoscere le poste e le causali che stanno alla base del saldo richiesto (Condemi M., Commento sub art. 50, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, I, Padova, 2012, 587).

Avviene nella pratica che non è depositato il contratto, ma una scheda o foglio equipollente. In tal caso, se non dovesse contenere tutti gli elementi per la sua precipua identificazione, il decreto non dovrebbe essere concesso.

Neppure andrebbe reso, qualora non siano presenti gli estratti conto, in sostituzione ai quali spesso si riscontra una scheda senza che si individuino le annotazioni.

In realtà, la giustificazione data dagli istituti di credito circa la mancanza di tutti gli estratti risiede nel fatto che essi già sono stati previamente comunicati al correntista, ai sensi dell'art. 119, comma 2, del Testo Unico.

Anche il codice civile attesta all'art. 1832 che "l'estratto conto s'intende approvato, se non è contestato nel termine pattuito o in quello usuale, o altrimenti nel termine che può ritenersi congruo secondo le circostanze. L'approvazione del conto non preclude il diritto di impugnarlo”.

Secondo la migliore dottrina (C. Costa, Commento al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Torino, 504 ss., a cura di P. Farina), tuttavia, l'estratto conto prova la veridicità dei fatti annotati, ma non la validità o l'efficacia dei rapporti giuridici dai quali traggono origine le singole voci, sia a debito che a credito, che compongono il saldo finale. È un principio ormai acclarato in giurisprudenza: “In tema di conto corrente, la mancata tempestiva contestazione dell'estratto conto da parte del correntista nel termine previsto dall'art. 1832 cod. civ. rende inoppugnabili gli accrediti e gli addebiti solo sotto il profilo meramente contabile, e non preclude pertanto la contestazione della validità e dell'efficacia dei rapporti obbligatori da cui essi derivino” (Cass. civ., n° 6514/2007).

Con maggior chiarezza, si può asserire che la “non contestabilità dell'estratto conto può concernere solo il fatto che la banca abbia seguito quei certi addebiti e accrediti, mentre rimane impregiudicata la questione se la banca avesse o meno il diritto di procedere alle operazioni annotate in base al rapporto di conto corrente” (A. Nigro, Profili probatori, in Casi e materiali di diritto bancario I, 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, AA.VV., Milano 1991, 356).

Né pare che l'estratto conto, che è uno stralcio della contabilità dell'impresa bancaria, possa rientrare nell'ipotesi di cui all'art. 2710 c.c. (fattispecie che attiene all'efficacia delle scritture contabili, quando vengono utilizzate nel rapporto tra imprenditori) sia per il suo aspetto contenutistico, sia soprattutto perché le certificazioni del dirigente di banca, di cui all'art. 50 T.U.B., costituiscono semplicemente un esonero dalle formalità che sarebbero necessarie per utilizzare la contabilità d'impresa ai fini dell'ingiunzione, quali il ricorso ad un notaio od altro pubblico ufficiale, per la certificazione dell'estratto ai sensi dell'art. 634 c.p.c. (M. Condemi, op. cit., pag. 368).

Si potrà, dunque, ritenere, ad esempio, che sia messo in discussione il calcolo degli interessi per la determinazione dell'usura e, così, erodere la pretesa creditoria sottesa all'ingiunzione.

Il giudice non potrà concedere, altresì, il decreto ingiuntivo se non sia chiara e leggibile la firma del dirigente, che abbia proceduto alla autocertificazione o non sia identificabile. Il ruolo del dirigente è decisivo per quanto egli attesti: nell'ipotesi di suo comportamento fraudolento, non solo il decreto deve essere revocato, ma la sua responsabilità può essere sanzionata penalmente, in quanto integra una specifica violazione dell'art. 485 c.p. in materia di falso in scrittura privata.

Autorevole dottrina ritiene che, nonostante il dirigente operi in nome e per conto della banca, il suo potere di rappresentanza gli sia attribuito direttamente dalla legge in relazione al preciso ruolo che questi riveste nell'organizzazione aziendale. Anzi, proprio dalla derivazione legislativa di tale potere, sorge la necessità che il dirigente certificante debba risultare individuabile con esattezza dal contenuto dell'estratto conto; solo così sarà possibile verificare la sussistenza del potere di certificazione in capo allo stesso e, di conseguenza, potrà ritenersi soddisfatto il requisito formale previsto già dall'art. 102 l.b. ed ora dall'art. 50 t.u.b. (Parrella L., Commento sub. art. 50, in Testo unico in materia bancaria e creditizia. Commento al d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385, Vol. I, a cura di AA.VV., Bologna, 2003, 707 - Fonte Studio Tidona). Se il potere in questione non derivasse dalla legge, bisognerebbe verificare per ogni singolo caso l'idoneità della delega e del delegante.

Se, dunque, nella produzione monitoria

  1. non vi sia un contratto o quello che si rinviene non abbia tutti i requisiti e le condizioni indicati;
  2. gli estratti conto non collimino con la data iniziale e finale della relazione bancaria;
  3. non sia data prova che il correntista li abbia ricevuti;
  4. non sia richiamata la scrittura contabile della Banca di annotazione della relativa partita;
  5. non sia chiara e leggibile la firma del dirigente, che attesti la liquidità e verità del credito, né egli sia identificabile,

il decreto non può essere concesso.

La concessione della provvisoria esecuzione ex art. 642, comma 2, c.p.c., titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale. Precaria tutela difensiva per il debitore ingiunto, il correntista

Accade che il decreto sia munito anche di provvisoria esecuzione, ex art. 642 c.p.c., II comma, sul presupposto che l'ingiunto abbia sottoscritto, per esempio, un piano di rientro o presenti altre pendenze debitorie.

Infatti, il giudice e tenuto a concedere la provvisoria esecuzione se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, ovvero se il ricorrente produca documentazione sottoscritta dal debitore, comprovante il diritto fatto valere. Il creditore dovrà dimostrare la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora. Si rimarchi che la scelta del Giudice della concessione del provvedimento interinale non è tendenzialmente obbligatoria, come contemplato nel primo comma (assegni e cambiali), ma discrezionale.

Il giudice potrà concedere il detto provvedimento sulla falsariga di un riconoscimento del debito operato dall'ingiunto o quando il debitore sia protestato, abbia subito un pignoramento, ha pendenze riscontrabili nei pubblici registri (ad esempio, un'ipoteca dell'Equitalia).

Ma seppure ricorrano queste altre condizioni, attenti studiosi, che valutano la potenza devastante del decreto ingiuntivo concesso ex art. 642, II comma, c.p.c., invitano alla prudenza: bisogna considerare se effettivamente tutte le condizioni sussistano, in quanto che, una volta reso il decreto ingiuntivo ex art. 642 c.p.c., II comma, un'eventuale sospensione, ex art. 649 c.p.c., ha solo efficacia ex nunc, venendo fatti salvi gli atti di esecuzione già compiuti.

È ben noto che l'esecuzione provvisoria nasce come un provvedimento che non rientra nell'equo bilanciamento degli interessi in contesa. È stato scritto autorevolmente che “in ipotesi di provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo ab origine, si constata l'assenza di strumenti di riequilibrio” (si veda Conte, Il procedimento ingiuntivo tra diritto di difesa e principio d'uguaglianza (vecchie e nuove questioni di costituzionalità), in Riv. Dir. Proc., 1993, 1213, e Considerazioni sulla revoca della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo ex artt. 648 e 649 c.p.c., in Riv. Dir. Proc., 1997, 288 e segg., ed anche I. Usuelli, Il novellato art. 642, II comma, c. p. c.: una nuova ipotesi di provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo al vaglio del giudice investito del procedimento monitorio, in Giur. It. 2007, 10).

La dottrina ha piena consapevolezza che un decreto, inaudita altera parte, incida profondamente nella sfera del debitore, che ne è irrimediabilmente colpito: l'ordinamento appresta difese, purtroppo, inesorabilmente tardive.

È stato sottolineato, in proposito, che “il potere del Giudice del procedimento monitorio discrezionale e valutativo nella concessione della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo […] non può prescindere dai principi di rango costituzionale del contraddittorio tra le parti e del diritto di difesa, in considerazione della struttura del procedimento monitorio e, in particolare, del limitato rimedio apprestato dall'art. 649 c.p.c.” (I. Usuelli, cit., in Giur. it., 2007, 10).

Dello stesso tenore è quanto la giurisprudenza ha statuito al riguardo: “la discrezionalità del Giudice esclude che la provvisoria esecutività possa connettersi immediatamente ed in ogni caso a qualsiasi atto sottoscritto dalla parte e comporta di necessità una valutazione ponderata. Una diversa interpretazione […] contrasterebbe con la lettera della norma in questione, togliendole senso e rilievo. Con riferimento alla necessità di una lettura compatibile con i principi costituzionali del contraddittorio e del diritto di difesa, la deroga al principio del contraddittorio propria del procedimento monitorio e la gravità delle conseguenze che possono derivare dalla provvisoria esecuzione, debbano indurre ad una assai cauta considerazione dei casi di provvisoria esecutività. La documentazione scritta, dunque, cui fa riferimento il 2° comma dell'articolo 642 c.p.c. deve quantomeno essere assistita da una particolare valenza probatoria che dia maggior certezza della esistenza del credito e che renda probabile l'assenza di contestazioni” (Tribunale di Milano, 12/12/2006).

La documentazione necessaria perché la banca ottenga il decreto ingiuntivo previsto dall'art. 50, D.Lgs. n° 385/1993, deve contenere tutte le operazioni verificatesi fino ad una certa data e la contabilizzazione delle medesime, con la descrizione analitica di tutte le voci a credito e debito, esistenti nell'arco di tempo considerato, compresi i diritti di commissione e le spese per le operazioni effettuate, gli interessi attivi e passivi maturati e le ritenute fiscali, e con l'indicazione finale del saldo attivo o passivo.

La concessione originaria della provvisoria esecuzione ha un alto contenuto discrezionale: il Giudice dovrebbe ponderare le condizioni del debitore con assoluta prudenza. Il pericolo nel ritardo, visto dalla parte del debitore, si identifica in una distrazione del suo patrimonio, nell'occultamento delle sue garanzie.

La gravità richiesta dal legislatore si appunta in una situazione di certa eccezionalità: ecco perché la valutazione del giudice della concessione originaria deve essere effettuata con estremo rigore per la peculiarità della condizione che viene a crearsi:

  • sostanziale irrevocabilità dell'esecutività;
  • possibilità della sola sospensione e non revoca del provvedimento di esecuzione provvisoria;
  • esclusione per colui che la subisce della possibilità di conseguire una nuova valutazione successiva alla revisione interinale del provvedimento: si deve attendere solo la sentenza.

È indispensabile perciò che il pregiudizio, che nella valutazione prospettica subisca il creditore, sia effettivamente grave da implicare anche una dimensione quantitativa di incisione sull'interesse protetto, tale da provocarne una menomazione integrale. Si può ritenere, ad esempio, che sia iniquo concedere la provvisoria esecuzione solo perché il debitore abbia subito un'ipoteca legale dal concessionario: in tal caso non vi è alcun pericolo nel ritardo di dismissione del bene, dal momento che esso ha subito l'arresto nella circolazione derivante dalla misura cautelare.

Risulta chiaro che, se, da un lato, non si condivide l'orientamento, che reputa doversi limitare la concessione della provvisoria esecuzione per la ricorrenza del periculum in mora ai soli casi di rischio oggettivo della perdita del credito, dall'altro lato, si è convinti dell'assoluta necessità di limitare al massimo l'area di concessione della provvisoria esecuzione, subordinandola a rigorosi meccanismi di prova.

Restano, infatti, valide le considerazioni di chi ritiene che la concessione del provvedimento in parola debba essere soggetta a rigide cautele, che devono caratterizzare tutta la fase di valutazione, da effettuarsi ai fini dell'accoglimento della relativa istanza.

  1. Il ricorrente Banca dovrà dimostrare con documenti, che abbiano un sufficiente grado di persuasività, il pregiudizio che assume incombere sul suo diritto.
  2. Il pericolo, che incida sul conseguimento della specifica prestazione dovuta dal debitore.
  3. La probabile infruttuosità dell'esecuzione forzata, in relazione agli scopi che il creditore provi come destinati ad essere perseguiti attraverso l'oggetto della prestazione.
  4. Deve provare, in ogni caso, che l'apprezzamento della dimensione cronologica del periculum in mora appaia essenziale: il pregiudizio, che il creditore assume incombere sul proprio diritto, deve essere, infatti, tale da realizzarsi in un tempo più ristretto di quello che è dato all'ingiunto per opporsi.
  5. Si consideri - come detto - che il sedicente creditore (se dovesse rivelarsi tale a seguito dell'opposizione accolta), potrà procedere ad atti esecutivi subito dopo la notifica del decreto ingiuntivo, potendo iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del debitore ancora prima della notificazione.
  6. A fronte di tale situazione, l'unico rimedio consentito al debitore è quello dell'opposizione, nel corso della quale può essere richiesta la sola sospensione della provvisoria esecuzione (non la sua revoca), con il risultato che anche ove questa sia disposta, il creditore, che abbia già compiuto atti esecutivi, si vedrà preclusa la possibilità di compierne di ulteriori, ma quelli già posti in essere rimarranno fermi, come pure l'ipoteca giudiziale iscritta, che potrà essere cancellata solo con sentenza passata in giudicato (se non si intenda ammettere in questo caso un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c.) (Passim, B. Capponi, a cura di, Il Procedimento di ingiunzione, Bologna 2009, pag. 384 e segg., a cura di Salvatore Sanzo).

L'art. 50 è una norma di favore e di privilegio; deve essere proposta la questione di legittimità costituzionale.

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