La scissione asimmetrica come tecnica di risoluzione di una controversia tra soci

Enrico Civerra
19 Giugno 2015

A seguito del decesso di un imprenditore agricolo, l'azienda viene ereditata dai figli i quali, per proseguire nella gestione, hanno costituito una società a responsabilità limitata. Dopo poco tempo, però, si creano, tra i figli, gravi dissidi circa il modo più corretto di condurre l'attività che li porta, dopo lunghe discussioni, a decidere di “separarsi”: alcuni proseguiranno nella conduzione dei fondi rustici e altri gestiranno le proprietà immobiliari sempre di provenienza ereditaria e confluite nella società. Quale potrebbe essere la soluzione più corretta sotto il profilo giuridico per attuare la volontà dei soci?

A seguito del decesso di un imprenditore agricolo, l'azienda viene ereditata dai figli i quali, per proseguire nella gestione, hanno costituito una società a responsabilità limitata. Dopo poco tempo, però, si creano, tra i figli, gravi dissidi circa il modo più corretto di condurre l'attività che li porta, dopo lunghe discussioni, a decidere di “separarsi”: alcuni proseguiranno nella conduzione dei fondi rustici e altri gestiranno le proprietà immobiliari sempre di provenienza ereditaria e confluite nella società. Quale potrebbe essere la soluzione più corretta sotto il profilo giuridico per attuare la volontà dei soci?

Dalla descrizione della vicenda emerge con chiarezza che la società, probabilmente sorta a seguito della regolarizzazione della società di fatto che si è costituita nell'immediatezza della successione, ha la titolarità di almeno due rami aziendali: uno avente ad oggetto l'attività agricola in senso stretto, dotata forse anche del relativo compendio immobiliare e l'altro che opera nel settore della valorizzazione di fabbricati e/o terreni a diversa destinazione. Assecondando le vocazioni dei due gruppi di soci, eredi dell'originario fondatore, l'ipotesi di lavoro da perseguire è quella di separare i due rami aziendali e con essi la compagine sociale. La tecnica che si può suggerire per giungere al risultato desiderato è quella di progettare una scissione asimmetrica, ossia di applicare quella particolare conformazione della scissione non proporzionale che vede attribuite ad alcuni soci della scissa unicamente partecipazioni della beneficiaria, mentre gli altri soci della scissa restano in quest'ultima: i primi, in quanto unici assegnatari del capitale della beneficiaria, uscirebbero dalla scissa che resterebbe interamente degli altri soci. La scissione asimmetrica non va confusa con quella non proporzionale, che viene attuata assegnando ai soci delle partecipanti quote o azioni in modo non proporzionale e senza alcuna compensazione di tale “non proporzionalità” con conguagli. Caratteristica qualificante di tala forma di scissione è, comunque, il dato che tutti i soci devono partecipare, anche in minima parte, all'assegnazione di partecipazione in tutte le società. Per tale ragione, questa scissione potrebbe essere denominata, oltre che non proporzionale, anche “simmetrica”; in quella asimmetrica – che pure è “non proporzionale” nel significato sopra detto - il risultato non è solo una frammentazione strutturale ed organizzativa, ma anche della stessa compagine sociale. Ipotizziamo per esempio che la “nostra” società – denominata Alfa srl – sia composta da due soli soci, Tizio e Caio. La scissione potrebbe essere costruita mediante assegnazione del ramo di azienda agricolo alla newco Beta srl, lasciando l'altro comparto aziendale in capo alla scissa Alfa srl. Al termine dell'operazione Tizio sarà l'unico socio di Beta srl e Caio di Alfa srl. Si tratta, a ben vedere, di un'operazione estremamente sofisticata, la cui comprensione all'interno del genus della scissione dipende da una precisa opzione del legislatore che ha scelto di qualificare normativamente come tale anche l'operazione nella quale alcuni soci ricevono solo partecipazioni della beneficiaria ed altri, non assegnatari di quote della beneficiaria, conseguono unicamente quote della scissa. L'intervento qualificatorio del legislatore si è reso necessario in quanto, a rigore, un'operazione di tale tipo non potrebbe essere considerata una scissione. Infatti, gli elementi che normalmente identificano una scissione sono rappresentati da un bilanciamento tra assegnazione patrimoniale e distribuzioni delle quote delle varie partecipanti in funzione di un reciproco equilibrio: prima della riforma del 2003 – che ha introdotto nell'art. 2506 c.c. questa peculiare struttura - si era consolidato il principio secondo cui elemento tipologico della scissione era da considerarsi l'assegnazione di partecipazioni della beneficiaria a tutti i soci della scissa e che l'eventuale “non proporzionalità” dovesse limitarsi ad un'assegnazione di quote della beneficiaria in misura diversa da quella a cui avrebbe diritto il socio sulla base della sua partecipazione. L'indispensabilità dell'assegnazione di quote della beneficiaria a tutti i soci della scissa, in altri termini, rappresentava un elemento indefettibile della scissione. L'art. 2506 c.c. attribuisce la natura di scissione anche a quella c.d. asimmetrica, ma a prezzo di una importante forzatura sul piano interpretativo non priva di conseguenze. La norma impone, come condizione di procedibilità, il consenso unanime dei soci, non tanto alla scissione, quanto alla distribuzione di partecipazioni della scissa in correlazione alla mancata assegnazione di quote nella beneficiaria. Si crea, in tal modo, una sorta di “faglia” sistematica all'interno di schemi societari nei quali è fondamentale il metodo collegiale e, con esso, il principio maggioritario.

Nel caso in esame, la motivazione dell'operazione è l'intento di permettere a ciascun socio di proseguire in completa indipendenza rispetto all'altro un'attività di impresa che sia funzionale alle proprie aspirazioni e capacità. Lo svolgimento “separato” dell'attività di ciascuno avverrà grazie all'attribuzione patrimoniale da compiersi con la scissione. Nell'ipotesi in esame, alla base della progettazione, vi è il consenso dei soci al risultato da conseguire, benché agli stessi non fosse chiara quale tecnica giuridica si sarebbe potuta utilizzare per giungervi. Accolto il suggerimento di organizzare una scissione per raggiungere l'obiettivo di separare soci ed attività, si sarebbe potuto considerare presunto ed acquisito il consenso dei soci e certa la sua formalizzazione in assemblea. Anche qualora nella realtà la compagine società della scissa fosse più complessa e composita di quella da noi schematicamente ipotizzata, lo scenario sarà il medesimo: gli amministratori di regola redigono il progetto di scissione asimmetrica solo laddove abbiano già acquisito informalmente da tutti i soci il consenso che verrà esplicitato in sede di assemblea. Certo è evidente il rischio che la conflittualità tra i gruppi di soci che ha determinato la scelta della separazione dei veicoli societari, sopita nella fase della progettazione, possa manifestarsi e deflagrare in sede di assemblea: anche un solo socio potrebbe negare il consenso e fare naufragare l'operazione. In effetti, il legislatore nello strutturare questa particolare figura di scissione, come si diceva, ha consegnato nelle mani di ogni socio un vero e proprio diritto di veto, il cui esercizio potrebbe essere anche utilizzato come arma di ricatto per spuntare, anche in extremis, condizioni migliori rispetto a quelle originariamente pattuite. In questo senso, a nulla varrebbe acquisire un consenso di ciascun socio prima dell'assemblea di approvazione del progetto. E' chiaro, infatti, che in sede di assemblea il consenso deve essere espresso in modo libero e spontaneo, fermo restando l'eventuale responsabilità per violazione della regola della buona fede contrattuale. Il rischio del diniego del consenso evidenzia l'estrema delicatezza dell'operazione e la fragilità che l'accompagna fino alla sua attuazione che si consiglia venga accelerata il più possibile sfruttando tutte le tecniche che la normativa permette per ridurre i vari termini dilatori normalmente previsti.

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