Supersocietà di fatto: estensibilità del fallimento ai soci illimitatamente responsabili

08 Agosto 2016

E' ammissibile una società di fatto tra società di capitali, in quanto l'inosservanza dei requisiti formali prescritti dall'art. 2361, comma 2, c.c. per l'assunzione di partecipazioni in società a responsabilità illimitata non incide sulla validità dell'acquisto, bensì assume rilevanza interna alla società. Il fallimento della società di fatto si estende ex art. 147, comma 1, l. fall. ai soci, persone fisiche e/o giuridiche, illimitatamente responsabili.
Massima

E' ammissibile una società di fatto tra società di capitali, in quanto l'inosservanza dei requisiti formali prescritti dall'art. 2361, comma 2, c.c. per l'assunzione di partecipazioni in società a responsabilità illimitata non incide sulla validità dell'acquisto, bensì assume rilevanza interna alla società.

Il fallimento della società di fatto si estende ex art. 147, comma 1, l. fall. ai soci, persone fisiche e/o giuridiche, illimitatamente responsabili.

Qualora l'esistenza della società di fatto emerga in un momento successivo rispetto al fallimento di uno dei soci, trova applicazione il disposto dell'art. 147, comma 5, l. fall., applicabile anche nell'ipotesi di fallimento di un imprenditore collettivo, non potendosi giustificare un trattamento normativo differenziato a seconda che il socio già dichiarato fallito sia un imprenditore individuale o collettivo.

Il caso

Il Tribunale di Gela con sentenza dichiarava il fallimento di una società a responsabilità limitata; successivamente, ritenuto che vi fosse prova dell'esistenza (e dell'insolvenza) di una società costituita per fatti concludenti tra la già fallita società, un'altra s.r.l. ed una persona fisica, dichiarava altresì il fallimento della società di fatto. Quindi, ai sensi dell'art. 147, comma 1, l. fall., dichiarava il fallimento della s.r.l. e della persona fisica, in quanto soci illimitatamente responsabili della società di fatto.

Quest'ultime proponevano reclamo contro la sentenza di fallimento dinanzi alla Corte d'Appello di Caltanissetta che respingeva l'impugnazione. Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per Cassazione, nel quale i ricorrenti contestavano l'ammissibilità della partecipazione di fatto di una società di capitali ad una società di persone, nonché l'applicabilità del disposto dell'art. 147, comma 5, l. fall. nel caso in cui il socio già fallito sia una società di capitali, consentendo la norma citata l'estensione del fallimento alla società di fatto solo quando il soggetto già fallito sia un imprenditore individuale.

Le questioni giuridiche

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione torna ad affrontare la discussa questione dell'ammissibilità della partecipazione di fatto di una società di capitali ad una società di persone, ossia della c.d. supersocietà di fatto, nonché, sul presupposto della ritenuta configurabilità di questa, la tematica dell'estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili della società di fatto, ai sensi dell'art. 147, comma 5, l. fall., qualora l'esistenza di questa sia emersa in data successiva al fallimento autonomamente dichiarato di uno dei soci.

Il primo profilo oggetto della pronuncia rappresenta una questione da tempo fonte di un intenso dibattito giurisprudenziale e dottrinale. Secondo un primo indirizzo interpretativo, deve ritenersi pienamente ammissibile la partecipazione per fatti concludenti di una società di capitali ad una società a responsabilità illimitata, nonostante il difetto dei requisiti di cui all'art. 2361, comma 2, c.c. (ossia della previa deliberazione assembleare e della successiva indicazione nella nota integrativa del bilancio), dal momento che l'acquisto di siffatta partecipazione costituisce un atto gestorio riservato agli amministratori, idoneo ad obbligare la società nei confronti dei terzi, fermo restando il configurarsi di una responsabilità in capo ai gestori per aver agito in violazione dei doveri ad essi imposti dalla legge.

Secondo una diversa impostazione le condizioni prescritte dall'art. 2361, comma 2, c.c. costituiscono un limite legale ai poteri dell'organo gestorio opponibile ai terzi ai sensi dell'art. 2384 c.c. La citata disposizione è, infatti, posta a fondamentale presidio dei soci e dei creditori, essendo finalizzata ad evitare che l'attività degli amministratori possa esporre la società al rischio delle conseguenze dell'insolvenza della società di fatto, senza che i primi siano stati messi in condizione di valutare tale rischio.

Nell'affrontare tale questione, la Corte richiama, arricchendole, le ampie argomentazioni espresse nella recente sentenza n. 1095/2016, a sostegno dell'ammissibilità di una società di fatto tra società di capitali, nonostante l'assunzione della partecipazione sia avvenuta in difetto dei requisiti prescritti dall'art. 2361, comma 2, c.c., precedentemente richiamati.

L'orientamento condiviso dalla giurisprudenza di legittimità muove dalla necessaria considerazione delle finalità perseguite dal legislatore con la riforma del diritto societario del 2003, diretta a favorire il reperimento di capitali di rischio e di credito da parte delle imprese, assicurando la stabilità degli atti compiuti da parte di chi ha la rappresentanza della società. Il disposto dell'art. 2384 c.c., che attribuisce agli amministratori un potere di rappresentanza generale, escludendo l'opponibilità ai terzi delle limitazioni poste ai loro poteri, anche se pubblicate, è volto infatti a evitare il rischio che possano ricadere sui soggetti, che entrano in contatto con la società, le conseguenze delle violazioni commesse dagli amministratori, salvo che si provi che i terzi hanno agito scientemente a danno dell'ente. Ne consegue che la società di capitali che abbia in concreto esercitato un'attività imprenditoriale in comune con altri soggetti persone fisiche e/o giuridiche, dando vita ad una società di fatto (assoggettata al regime delle società di persone irregolari) non può sottrarsi alle conseguenze della responsabilità patrimoniale illimitata, invocando la violazione di legge commessa dai suoi stessi amministratori. La partecipazione assunta da questi in difetto dei requisiti legali predetti, pertanto, deve essere ritenuta valida, ferma restando l'esperibilità dei rimedi previsti dall'ordinamento nei confronti degli amministratori inadempienti (azione di responsabilità, revoca, denuncia al Tribunale di gravi irregolarità).

Nella sentenza in esame, peraltro, la Corte chiarisce che, anche opinando diversamente, ossia ritenendo che la violazione delle prescrizioni di cui all'art. 2361, comma 2, c.c. non assuma rilevanza meramente interna alla società, bensì comporti l'invalidità dell'acquisto della partecipazione, ciò non determinerebbe la caducazione retroattiva dell'ente, trovando applicazione il disposto dell'art 2332 c.c., ritenuto applicabile anche alle società di persone. In virtù del principio di effettività dell'attività imprenditoriale, dunque, la nullità dell'acquisto non comporterebbe in ogni caso la cessazione del rapporto sociale, bensì opererebbe quale causa di scioglimento, determinando la nomina dei liquidatori; ne deriva che, medio tempore, la società continuerebbe ad esistere e, qualora ne fosse accertata l'insolvenza, potrebbe essere dichiarata fallita.

Con la pronuncia in esame la Corte ribadisce, altresì, l'adesione, già espressa con la citata sentenza n. 1095/2016, all'orientamento che esclude l'applicabilità delle condizioni prescritte dall'art. 2361, comma 2, c.c. nel caso di società a responsabilità limitata.

A tal proposito, la sentenza chiarisce che l'art. 111-duodecies disp. Att. c.c., che contiene disposizioni in tema di bilancio di società in nome collettivo e in accomandita semplice i cui soci illimitatamente responsabili siano unicamente società di capitali, si limita a contemplare le s.r.l. tra le società che possono assumere partecipazioni in società di persone. Tuttavia, il richiamo all'art. 2361, comma 2, c.c., contenuto nella citata disposizione, è previsto non già al fine di estendere le prescrizioni in esso contenute anche alle s.r.l., bensì per individuare la fattispecie (ossia la partecipazione in imprese che implica la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali) cui ricollegare l'obbligo di redazione del bilancio secondo la disciplina richiamata.

Nell'ambito delle s.r.l. la decisione di assumere partecipazioni in imprese implicanti l'assunzione di una responsabilità patrimoniale illimitata costituisce un atto rientrante nella competenza dell'organo amministrativo della società, che non richiede la previa autorizzazione assembleare. Ad avviso della Corte, non si potrebbe opinare diversamente neppure ritenendo che si tratti di un atto comportante una rilevante modificazione dei diritti dei soci ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c., in quanto se è vero che l'assunzione di tali partecipazioni determina una variazione del rischio cui è esposto il conferimento del socio, divenendo la società di capitali illimitatamente responsabile per le obbligazioni della società di persone, non è vero che per ciò solo essa produca una modifica dei diritti dei soci. L'acquisto della partecipazione in una società di persone potrebbe rientrare nella competenza dell'assemblea soltanto qualora fosse tale da determinare una sostanziale modificazione dell'oggetto sociale, divergendo rispetto ai fini della società (art. 2479, comma 2, n.5, c.c.).

La seconda questione esaminata dalla Corte con la pronuncia in esame attiene alla possibilità o meno per il curatore del fallimento della società di capitali di chiedere il fallimento in estensione della società di fatto alla quale risulti riferibile l'attività di impresa, ai sensi dell'art. 147, comma 5, l. fall., previo accertamento dell'insolvenza di questa. La citata norma prevede, infatti, l'estensione del fallimento dell'imprenditore individuale qualora si scopra successivamente che l'impresa è riferibile ad una società di cui egli è socio illimitatamente responsabile, non dettando analoga previsione per il caso in cui il soggetto previamente dichiarato fallito sia un imprenditore collettivo.

Nel risolvere tale questione la Corte disattende l'impostazione che, valorizzando il carattere eccezionale della norma, ne esclude l'applicabilità nel caso in esame, in quanto testualmente riferita soltanto all'ipotesi in cui il soggetto previamente dichiarato fallito sia un imprenditore individuale. La pronuncia in esame aderisce, invece, all'indirizzo maggioritario che reputa che, ove si ritenesse che la norma sia applicabile soltanto nel caso in essa contemplato, si incorrerebbe in una violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., non essendovi ragioni che possano giustificare un differente trattamento normativo nel caso in cui il socio già dichiarato fallito sia un imprenditore collettivo o individuale. Al fine di non incorrere in un vizio di legittimità costituzionale, la norma deve essere, allora, interpretata come espressione di un principio generale, applicabile per identità di ratio anche nel caso in cui la partecipazione ad una società di fatto risulti dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore collettivo.

A sostegno dell'assunto, peraltro, la Corte evidenzia, altresì, che il riferimento all'imprenditore individuale contenuto nell'art. 147, comma 5, l. fall. non può essere considerato espressione della volontà del legislatore di escludere dalla portata applicativa della norma l'imprenditore collettivo, bensì si giustifica considerando che, prima della riforma del diritto societario del 2003, la giurisprudenza escludeva che una società di capitali potesse partecipare ad una società di persone e che il dibattito sulla configurabilità di una società di fatto tra società di capitali e sulla fallibilità di queste, in quanto soci illimitatamente responsabili, si è sviluppato dopo la riforma della l. fall. Ciò consente di affermare che il legislatore in sede di riforma abbia tenuto conto dell'orientamento giurisprudenziale che reputava che le società di fatto o occulte potessero essere costituite solo tra persone fisiche.

Osservazioni
Come evidenziato, con la sentenza in esame la Corte ribadisce la posizione già espressa nella sentenza n. 1095/2016, rafforzandola di ulteriori argomentazioni. Ciò risulta particolarmente significativo, tenuto conto, in particolare, della fondamentale funzione che l'ordinamento attribuisce alla Corte di Cassazione, quale supremo organo di giustizia, ossia di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge.

Il dibattito giurisprudenziale e dottrinale in ordine alla questione oggetto della pronuncia in esame, peraltro, non può dirsi ancora superato, come dimostra la recentissima sentenza n. 12120/2016, nella quale la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla curatela avverso la sentenza della Corte d'Appello di Firenze. Quest'ultima, in riforma della sentenza del Tribunale di Firenze, aveva revocato il fallimento della società di fatto, ritenuta esistente tra una s.r.l. (già dichiarata fallita) e una persona fisica, ritenendo che l'art. 147 l. fall. non potesse consentire l'estensione del fallimento alla società di fatto, la cui esistenza sia emersa successivamente al fallimento di uno dei soci, qualora il socio previamente dichiarato fallito sia un imprenditore collettivo.

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, anche in tale occasione, ha ribadito la configurabilità nel vigente ordinamento giuridico di una società di fatto tra persone fisiche e/giuridiche, nonché l'estensibilità del fallimento alla società di fatto e ai soci di questa illimitatamente responsabili, assicurando così piena uniformità nell'applicazione del diritto.

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