False comunicazioni sociali sul valore dei calciatori ceduti: la società calcistica non è responsabile
02 Novembre 2015
La condotta illecita contestata agli amministratori di una società in termini di false comunicazioni sociali, consistenti nell'alterazione di alcune voci del bilancio di esercizio, non può considerarsi in re ipsa come diretta ad ottenere un vantaggio per la società in termini di risparmio di imposta e non è dunque sufficiente per configurare la responsabilità amministrativa dell'ente ai sensi del d.lgs. 231/2001. Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 43689 depositata il 29 ottobre 2015.
Il caso. La sentenza conclude l'iter giudiziario che vede protagonista una nota società sportiva e le operazioni di cessione di alcuni giocatori in riferimento alle quali era stato contestato, alla società stessa e agli amministratori, il reato di false comunicazioni sociali. Dopo l'assoluzione dell'amministratore nei due gradi di merito, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 40380 del 2012, annullava la pronuncia della Corte d'appello di Roma secondo la quale, per quanto qui interessa, sussisteva la responsabilità della società ex artt. 25-ter e 69, d.lgs. 231/2001 per le operazioni incrociate relative ai trasferimenti di 22 giocatori a valori esorbitanti, con conseguente variazione in attivo del risultato economico di esercizio e del patrimonio netto. Con la sentenza richiamata, la Cassazione riteneva che i giudici di merito non avessero accertato il requisito dell'interesse o vantaggio che la società avrebbe tratto dagli illeciti commessi dagli amministratori, limite negativo della fattispecie contestata.
False comunicazioni sociali e risparmio d'imposta. La Corte d'appello di Roma, decidendo in sede di rinvio, ha ritenuto che le voci di bilancio indicate come infedeli evidenziavano una sottrazione dell'utile al fisco, con conseguente illecito risparmio di imposta quale interesse della società perseguito tramite la condotta degli amministratori, affermando così la sussistenza dei requisiti per configurare la responsabilità amministrativa dell'ente. Il rappresentante legale della società propone ricorso per la cassazione di tale sentenza ribadendo l'assenza del requisito dell'interesse ai fini dell'addebito dell'illecito amministrativo a carico della società, poiché in relazione alla contestazione del reato di falso in bilancio finalizzato a trarre in inganno i socie e i terzi, non è possibile individuare una finalità di evasione fiscale in termini di risparmio di imposta.
La falsità contabile in termini di plusvalenze fittizie. La doglianza così prospettata incontra il favore dei Giudici di legittimità che rilevano l'errore in cui è incorsa la Corte d'appello romana nel dare per certo quanto solo astrattamente ipotizzato dalla pronuncia rescindente, omettendo di considerare la specifica normativa fiscale. In particolare, l'art. 109 TUIR prevede che le plusvalenze concorrono a formare il reddito – e dunque la massa imponibile – nell'esercizio di competenza o in quello in cui si verifichino le condizioni di certezza dell'an e quantum, con un aumento della tassazione corrispondente all'incremento delle plusvalenze.
Il vantaggio per la società deve essere dimostrato. Nel capo d'imputazione veniva contestata alla società una falsità puramente contabile, realizzando plusvalenze che hanno consentito di chiudere il bilancio di esercizio senza perdite. Con il complesso meccanismo di sopravvalutazione dei giocatori ceduti posto in essere dalla società, si creava un fittizio aumento dell'attivo patrimoniale ma a ciò non corrispondeva alcun risparmio fiscale.
L'esclusione della responsabilità della società. La Corte d'appello non ha inoltre provveduto ad accertare la sussistenza dell'eventuale causa di esclusione della responsabilità dell'ente di cui al comma 2 dell'art. 5, d.lgs. 231/2001, secondo il quale la società non risponde laddove, pur in presenza di un oggettivo interesse alla condotta illecita contestata, gli amministratori abbiano agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi, circostanza che interromperebbe il legame di immedesimazione organica. In tal caso infatti si tratterebbe di un vantaggio della società puramente “fortuito” e non attribuibile alla sua “volontà”. Per questi motivi, nella reiterata assenza di una motivazione adeguata circa i presupposti per ritenere che la falsità fosse stata finalizzata alla sottrazione di utili alla pretesa tributaria, la Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata per insussistenza dell'illecito amministrativo ascritto alla società. |