Amministratore di fatto e di comodo: quando rischia il reato di bancarotta

20 Giugno 2014

L'amministratore di fatto non risponde del reato di bancarotta se partecipa ad una singola operazione distrattiva. Infatti, per una condanna di natura penale occorrono una serie di ulteriori elementi che non possono essere circoscritti ad una sola operazione. In questi termini si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza del 9 giugno 2014, n. 24051, ritenendo dunque necessari per la condanna a tale tipologia di reato indici sintomatici ulteriori. L'occasione è utile per tracciare un quadro completo, sulla scorta di alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali, in relazione al problema dei c.d. amministratori di fatto e amministratori di comodo “teste di legno”, messi ai vertici delle società commerciali.
Premessa

L'amministratore di fatto non risponde del reato di bancarotta se partecipa ad una singola operazione distrattiva. Infatti, per una condanna di natura penale occorrono una serie di ulteriori elementi che non possono essere circoscritti ad una sola operazione. In questi termini si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza del 9 giugno 2014, n. 24051, ritenendo dunque necessari per la condanna a tale tipologia di reato indici sintomatici ulteriori. L'occasione è utile per tracciare un quadro completo, sulla scorta di alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali, in relazione al problema dei c.d. amministratori di fatto e amministratori di comodo “teste di legno”, messi ai vertici delle società commerciali.

L'amministratore di fatto delle società

L'art. 2639 del codice civile afferma che l'amministratore di fatto di una società è da ritenersi responsabile di tutti quei doveri cui è soggetto normalmente anche l'amministratore di diritto. In tema di amministratore di fatto si era già espressa la Corte di Cassazione, con la sentenza del 29 agosto 2012, n. 33385; in tale occasione per i Giudici di legittimità anche l'amministratore di fatto doveva rispondere per evasione fiscale e omessa presentazione della dichiarazione dei redditi della società.

Accade sempre più spesso, infatti, che negli accertamenti e verifiche effettuate da parte dell'Amministrazione finanziaria nei confronti di società, accanto o in alternativa a reati imputabili all'amministratore di diritto, si annoverano le attività poste in essere da soggetti non investiti formalmente dall'attività di gestione.

Il fenomeno è generalmente collegato ad intenti fraudolenti indirizzati all'evasione delle imposte mediante l'attribuzione di cariche societarie ad una c.d. “testa di legno” o “uomo di paglia” ossia ad un soggetto privo di qualsivoglia possidenza patrimoniale, nei confronti dei quali si renderebbe vana ed inutile qualsiasi azione esecutiva erariale. In questi casi, i rappresentanti dell'Amministrazione finanziaria devono eseguire le proprie attività nei confronti di un amministratore “apparente” e uno “di fatto” e questo nella consapevolezza che la responsabilità penale può manifestarsi in relazione:

  • sia al principio della “personalità” del reato;
  • sia alla specifica attribuzione funzionale corrente tra la società ed il soggetto ad essa legalmente preposto.

In questo contesto resta indubbia la necessità di individuare e punire chi, a seguito di un comportamento omissivo o commissivo, possa aver configurato una responsabilità penale derivante dalla violazione di un obbligo giuridico che, nella fattispecie in commento, è “un obbligo di agire, passibile quindi della composizione di un c.d. reato omissivo proprio”.

Nella realtà d'impresa, accade sovente che funzioni ricollegate al possesso di qualifiche formali siano svolte, in concreto, da soggetti che ne sono sprovvisti. Le ipotesi in cui un'impresa è formalmente amministrata da un prestanome (o “testa di legno” o “uomo di paglia”), ma è di fatto gestita da un soggetto terzo privo di formale investitura, possono essere le più disparate: si pensi, in via meramente esemplificativa, alle casistica relativa a pratiche fraudolente finalizzate all'evasione delle imposte mediante l'attribuzione di cariche societarie in capo a soggetti, più o meno consapevoli, destinati ad assumersi ogni responsabilità amministrativa ed eventualmente penale (quali, ad esempio, le c.d. “frodi carosello”).

Lo svolgimento di fatto di funzioni gestorie può derivare non solo dal caso in cui il soggetto eserciti le funzioni ed i poteri tipici delle corrispondenti figure di diritto pur in assenza di una formale investitura, ma anche dalle ipotesi in cui l'atto di nomina sia per qualsiasi ragione invalido (ad esempio perché adottato in presenza di cause di ineleggibilità) oppure revocato.

La tematica dei soggetti di fatto è stata ripetutamente affrontata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, soprattutto con riferimento alla figura (più ricorrente) dell'amministratore di fatto, e con particolare riferimento ai reati societari e fallimentari, sebbene essa investa tutte le altre qualifiche soggettive in cui sia riscontrabile una fenomenologia analoga (ad es. imprenditore, datore di lavoro, liquidatore, direttore generale; meno frequente è l'ipotesi del sindaco o del revisore di fatto, posto che in difetto di nomina lo svolgimento in concreto delle funzioni corrispondenti alla qualifica soggettiva appare un'ipotesi di difficile verificazione).

Orientamenti giurisprudenziali recenti

Suprema Corte di Cassazione, sentenza del 12 giugno 2013, n. 25809

La Corte di Cassazione con la sentenzadel 12 giugno 2013, n. 25809, ha stabilito che è possibile configurare l'ipotesi di reato per omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette e ai fini IVA, previsto dall'art. 5, del D.Lgs. 10 marzo 2000, n.74, nei confronti sia:

  • dell'amministratore di diritto di una società;
  • dell'amministratore di fatto.

La vicenda analizzata dalla Corte di Cassazione riguarda il fatto che l'amministratore di una società e il prestanome proponevano ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello che, riformando la sentenza del Tribunale, ha applicato le pene accessorie nei confronti di entrambi gli imputati, per il reato di cui agli artt. 110 del codice penale e 10, del D.Lgs n. 74/2000.

Per la Corte di Cassazione i ricorsi sono inammissibili in quanto manifestamente infondati. I Giudici di appello hanno, infatti, correttamente risposto ai motivi di impugnazione evidenziando che, nel caso in esame, un soggetto era il reale gestore della società mentre l'altro era sostanzialmente un prestanome solo formalmente investito della carica di institore. Di conseguenza, secondo i giudici della Cassazione, nel caso in esame, valgono i principi affermati da un importante orientamento giurisprudenziale (Cassazione del 28 aprile 2011, n. 23425) con cui si è affermato che il reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA (art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) è configurabile nei confronti dell'amministratore di diritto di una società e l'amministratore di fatto, quale mero prestanome, risponde a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento (artt. 40, co. 2, c.p. e 2932 c.c.), a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice.

Per i Giudici di legittimità il rappresentante legale si deve considerare mancante, non solo quando non vi è la nomina, ma anche in presenza di un prestanome che non ha alcun potere o ingerenza nella gestione della società e, quindi, non è in condizione di presentare la dichiarazione perché non dispone dei documenti contabili detenuti dall'amministratore di fatto. Per la Corte di Cassazione in tale situazione “ l'intraneo è, infatti, colui che, sia pure di fatto, ha l'Amministrazione della società mentre al prestanome il fatto potrebbe essere addebitato a titolo di concorso (.......)”.

Corte di Cassazione, sentenza 27 novembre 2013, n. 47110

Con la sentenza n. 47110/2013, i giudici di legittimità hanno affermato che può essere imputata una corresponsabilità in base alla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 c.c., in forza del quale l'amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi. Quindi l'amministratore di fatto è ritenuto il soggetto attivo del reato e il prestanome il concorrente che non ha impedito l'evento che, invece, ha l'obbligo giuridico di impedire. In sostanza, la “testa di legno” risponde in concorso con l'amministratore di fatto a titolo di dolo eventuale.

I Giudici del merito dopo avere ricostruito la vicenda, sorta a seguito di verbale di constatazione della Guardia di Finanza, hanno osservato che il soggetto imputato in concorso dei reati suindicati pur avendo assunto formalmente la carica di amministratore della società, in realtà era solo un prestanome dell'amministratore, vero gestore di fatto che, essendo stato precedentemente dichiarato fallito, non poteva assumere incarichi.

I giudici del Tribunale hanno, inoltre, osservato che l'imputato aveva da tempo rilevato una serie di irregolarità e, dopo essere stato ascoltato dalla Guardia di Finanza, si era dimesso; i giudici stessi hanno ritenuto, pertanto, dubbio che i reati siano stati commessi dall'imputato, anche perché la predisposizione e presentazione delle dichiarazioni dei redditi, così come l'emissione delle fatture, erano attività che ben potevano essere state poste in essere da altri, come l'amministratore di fatto, perché dagli atti risultava provato che il prestanome fosse estraneo alla vita economica dell'impresa societaria, gestita a sua insaputa.

Il Tribunale, con sentenza del febbraio 2013, aveva assolto, per non aver commesso il fatto, l'amministratore di una società dai reati di dichiarazione infedele ed emissione di fatture per operazioni inesistenti di cui all'artt. 110 c.p. e 4, D.Lgs. n. 74/2000, in concorso con altro imputato separatamente giudicato.

I giudici del merito dopo avere ricostruito la vicenda, sorta a seguito di verbale di constatazione della Guardia di Finanza hanno osservato che il soggetto imputato in concorso dei reati suindicati pur avendo assunto formalmente la carica di amministratore della società, in realtà era solo un prestanome dell'amministratore, vero gestore di fatto che, essendo stato precedentemente dichiarato fallito, non poteva assumere incarichi.

I giudici del Tribunale hanno, inoltre, osservato che l'imputato aveva da tempo rilevato una serie di irregolarità e, dopo essere stato ascoltato dalla Guardia di Finanza, si era dimesso; i giudici stessi hanno ritenuto, pertanto, dubbio che i reati siano stati commessi dall'imputato, anche perché la predisposizione e presentazione delle dichiarazioni dei redditi così come l'emissione delle fatture erano attività che ben potevano essere state poste in essere da altri, come l'amministratore di fatto, perché dagli atti risultava provato che il prestanome fosse estraneo alla vita economica dell'impresa societaria, gestita a sua insaputa.

Avverso la sentenza sfavorevole del Tribunale, il Procuratore della Repubblica, è ricorso in Cassazione sostenendo che l'amministratore di diritto, quale legale rappresentante della società è obbligato alla presentazione delle dichiarazioni IVA e IRES ed è formalmente titolare di una posizione di garanzia, per cui risponde a titolo di responsabilità omissiva in ordine alle violazioni della legge tributaria, avendo l'obbligo di impedire l'evento, anche se esiste, come nel caso di specie, un amministratore di fatto, il quale concorre nel reato. La Corte di Cassazione ritiene il ricorso del Procuratore fondato; i giudici di legittimità osservano, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, che vero soggetto qualificato non è il prestanome ma colui il quale effettivamente gestisce la società perché solo lui è in condizione di compiere l'azione dovuta mentre l'estraneo, è il prestanome. Tuttavia è stato anche affermato che a quest'ultimo una corresponsabilità può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 cod. civ., in forza della quale l'amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi.

La Corte di Cassazione quando si è occupata di reati, anche omissivi, commessi in nome e per conto della società, ha individuato nell'amministratore di fatto il soggetto attivo del reato e nel prestanome il concorrente per non avere impedito l'evento che in base alla norma citata aveva il dovere di impedire. Proprio perché il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d'ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, la Corte di Cassazione ha fatto ricorso alla figura del dolo eventuale; si è sostenuto cioè che il prestanome accettando la carica ha anche accettato i rischi connessi a tale carica (cfr. sentenze Cass. 26 gennaio 2006, n. 7208; Cass. 6 aprile 2006, n. 22919).

I Giudici di legittimità concludono la propria analisi rilevando che l'imputato, quale amministratore di diritto della società, anche se con ruolo di mero prestanome, era venuto col passar del tempo a conoscenza di aspetti di dubbia regolarità della gestione societaria da parte dell'amministratore di fatto; non risulta, dunque per i giudici della Cassazione, che egli fosse completamente privo di poteri di ingerenza o della capacità di disporre di documentazione.

Il giudice di merito avrebbe allora dovuto porsi il problema del dolo eventuale dell'amministratore di diritto "prestanome", mentre invece ha concentrato la sua indagine esclusivamente sull'autore della materiale esecuzione delle condotte e sulla sostanziale estraneità del “prestanome” alla vita economica dell'impresa, gestita di fatto da altri.

La Corte di Cassazione, pertanto, ha annullato la sentenza con rinvio alla Corte di Appello per un nuovo esame.

Cassazione penale, sentenza del 4 febbraio 2013, n. 5653

L'amministratore di diritto è responsabile delle operazioni compiute dalla società ai sensi dell'art. 40, co. 2, c.p. e, nello specifico, principalmente perché non possono sfuggirgli gli effetti distrattivi delle operazioni compiute dagli amministratori di fatto e dal carattere intrinsecamente fraudolento, non potendosi in tal caso egli considerare mero "uomo di paglia". Nel caso di specie, essendo interdetti, il ricorrente e la moglie affermavano che non potevano esercitare attività imprenditoriale e, quindi, avevano fatto nominare il figlio amministratore, che, però, era una testa di legno, avendo essi continuato ad esercitare di fatto le funzioni di amministratore.

La bancarotta fraudolenta

La bancarotta fraudolenta, disciplinata dall'art. 216, R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. Legge Fallimentare) è, senza dubbio, la figura delittuosa più rappresentativa e rilevante all'interno del diritto penale fallimentare. È un reato proprio e di pericolo, nel senso che è commesso nell'ambito della procedura fallimentare e solamente da quei soggetti, quale l'amministratore, che occupano la particolare qualifica o posizione indicata espressamente dalle norme incriminatici, e si sostanzia in una serie di condotte illecite idonee ad arrecare un grave pregiudizio sia ai creditori, sia alla collettività in generale, in quanto vengono commesse in un contesto economico caratterizzato dal dissesto dell'impresa commerciale. La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che, in tale ipotesi, il fondamento della penale responsabilità dell'amministratore di diritto vada rintracciato in quella particolare posizione di garanzia, di cui egli diviene titolare nel momento in cui ha acconsentito a ricoprire formalmente la carica di amministratore, che trova la sua base giuridica nelle disposizioni civilistiche di cui agli artt. 2392 e 2394 del c.c.. Tale fattispecie delittuosa comprende, al suo interno, tipologie tra loro molto diverse, a seconda del momento in cui la condotta delittuosa si verifica rispetto alla dichiarazione di fallimento, del tipo di condotta stesso e del soggetto che la compie, ma tutte accomunate dal fatto di collegarsi a una procedura concorsuale.

Fattispecie di bancarotta fraudolenta

pre-fallimentare, se la condotta delittuosa precede la dichiarazione di fallimento (art. 216, co. 1);

post-fallimentare, se la condotta è successiva (art. 216, co. 2);

patrimoniale e/o documentale (art. 216, co. 1, nn. 1 e 2);

preferenziale (art. 216, co. 3); propria (se a fallire è l'imprenditore individuale); impropria (se a fallire è una società, ovvero un institore).

L'amministratore di fatto non risponde della bancarotta fraudolenta se partecipa ad una singola operazione

L'amministratore di fatto non risponde della bancarotta se partecipa ad una singola operazione distrattiva. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che torna ad affrontare l'argomento del ruolo dell'amministratore di fatto, con la sentenza del 9 giugno 2014, n. 24051.

A seguito della sentenza di condanna del Tribunale un “amministratore” di una società è ricorso in Cassazione censurando la condanna in ordine alla configurabilità dei reati di bancarotta patrimoniale, documentale ed impropria, lamentando, altresì, che il Tribunale stesso avrebbe solo apoditticamente riconosciuto la qualifica di amministratore di fatto di una fallita SRL, nonostante questi non abbia mai compiuto atti di gestione.

Con particolare riguardo alla fattispecie di bancarotta documentale, il ricorrente ha, altresì, evidenziato come i Giudici del riesame abbiano anche errato nella qualificazione giuridica del fatto, al più riconducibile allo schema della fattispecie prevista e punita dall'art. 217 L.F., non potendosi ritenere integrato il dolo specifico richiesto per integrare il delitto contestato.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità è amministratore di fatto anche chi non eserciti tutti i poteri propri dell'organo di gestione, purché svolga un'apprezzabile attività di gestione, intendendosi per tale quella svolta in maniera non episodica od occasionale. Ne consegue che, la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive nella società.

Il coinvolgimento dell'imputato in una singola operazione distrattiva non è, in assenza di indici sintomatici ulteriori, di per sé sufficiente a giustificare l'attribuzione di tale qualifica a soggetto formalmente estraneo al “ceto gestorio della società, ferma restando la possibilità di configurare il concorso del medesimo in qualità di extraneus alla realizzazione dei reati di bancarotta commessi dall'amministratore di diritto".

Secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale e quello previsto dalla disposizione succitata concernono ambiti diversi: i primi riguardano, infatti, il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta fraudolenta dei libri e delle scritture contabili idonei a generare un pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo riguarda, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività né si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili, ma che devono porsi in relazione con il fallimento. Conseguentemente, deve escludersi il concorso formale tra la bancarotta fraudolenta patrimoniale e la bancarotta impropria ai sensi della disposizione succitata, potendosi invece configurare il concorso materiale tra i suddetti reati, ma soltanto se, oltre ad azioni comprese nello specifico schema della bancarotta ex art. 216 L.F., si siano verificati differenti e autonomi comportamenti dolosi i quali, concretandosi in abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l'andamento economico-finanziario della società, siano stati causa del fallimento.

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