Anche l'esercizio legittimo del diritto di recesso può integrare condotta distrattiva

09 Ottobre 2014

L'esercizio di facoltà astrattamente legittime, in quanto ricomprese nel contenuto di diritti riconosciuti dall'ordinamento, si concretizzi o meno nell'adozione di strumenti negoziali tipizzati, può costituire uno strumento in frode ai creditori e configurarsi come condotta distrattiva ai sensi dell'art. 216 l. fall., in quanto la liceità di ogni operazione che incide sul patrimonio dell'imprenditore dichiarato fallito è un valore che va accertato in concreto.
Massima

L'esercizio di facoltà astrattamente legittime, in quanto ricomprese nel contenuto di diritti riconosciuti dall'ordinamento, si concretizzi o meno nell'adozione di strumenti negoziali tipizzati, può costituire uno strumento in frode ai creditori e configurarsi come condotta distrattiva ai sensi dell'art. 216 l. fall., in quanto la liceità di ogni operazione che incide sul patrimonio dell'imprenditore dichiarato fallito è un valore che va accertato in concreto.

Il caso

La sentenza in commento si pronuncia sulla legittimità di un provvedimento di sequestro preventivo, annullato dal Tribunale del riesame di Chieti, avente ad oggetto le quote societarie intestate al titolare di un'impresa individuale fallita. Secondo il PM ricorrente, la moglie, nella sua qualità di socio amministratore di una s.r.l., avrebbe concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione con il marito imprenditore, dichiarato fallito quale titolare di una ditta individuale, per avere quest‘ultimo, nel corso di un'assemblea ordinaria della s.r.l., fraudolentemente esercitato il diritto di recesso da detta società, di cui deteneva il 90% delle quote sociali, sottraendo in tal modo le quote societarie alla massa dei beni destinati al soddisfacimento dei suoi creditori, visto l'effetto tipico del recesso del socio.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Il caso posto all'attenzione della Suprema Corte pone due questioni meritevoli di attenzione:
- la prima concerne la possibilità di ravvisare una condotta tipica ai sensi dell'art. 216 l. fall. nella condotta del socio che, esercitando il diritto di recesso dalla società ex art. 2473 c.c., produca un effetto ‘distrattivo' su componenti attive del proprio patrimonio;
- il secondo profilo è quello della configurabilità del concorso in qualità di estraneo del socio - amministratore unico -, il quale si sia limitato a beneficiare dell'effetto espansivo della propria quota sociale in virtù dell'art. 2743 c.c., in conseguenza del recesso dell'altro socio dichiarato fallito.
Gli argomenti che militano a favore della liceità dell'operazione, enunciati dalla difesa nel ricorso e fatti propri dal Tribunale del riesame di Chieti nell'ordinanza, ruotano attorno alla liceità intrinseca del recesso ex art. 2473, c.c.: si dice in sostanza che il socio recedente avrebbe agito nell'esercizio del diritto, poiché il rimborso della quota era avvenuto senza riduzione del capitale sociale, con la conseguenza che, per l'effetto automatico dell'accrescimento della quota dell'altro socio previsto dalla legge, alla condotta non si potrebbe attribuire valenza distrattiva. Sul terreno processuale la difesa dell'indagato aveva inoltre eccepito, dinanzi al Tribunale del riesame, l'illegittimità del provvedimento di sequestro preventivo per l'insussistenza del periculum in mora, ben potendo le istanze dei creditori essere soddisfatte con lo strumento civilistico della revocatoria ex artt. 66 e 67 l. fall.
Tale impostazione era contestata dalla Procura ricorrente, la quale faceva leva sulla circostanza che l'art. 2473 c.c., lungi dall'attribuire un diritto soggettivo assoluto al recesso, ne subordina l'efficacia ad alcune condizioni, in concreto non rispettate: il socio avrebbe dovuto rispettare il termine di preavviso di 180 giorni di cui al comma 2 dell'art. 2473 c.c. – trattandosi di società a tempo indeterminato – mentre, nel caso di specie, il recesso era intervenuto appena due giorni prima della dichiarazione di fallimento del recedente; egli avrebbe inoltre dovuto disporre la stima del valore di mercato delle quote, imposta dal comma 3 della medesima disposizione: secondo il ricorrente, infatti, il valore della quota ceduta sarebbe stato nettamente superiore a quello indicato all'atto del recesso, avendo il soggetto conferito nella società la sua azienda dotata di un patrimonio particolarmente rilevante. E quest'ultimo elemento, come si vedrà, riveste un peso decisivo nella motivazione della Suprema Corte, poiché conferisce tipicità all'operazione di recesso del socio, apparentemente lecita, a causa del risultato di dispersione della garanzia patrimoniale dell'imprenditore fallito che in concreto si produce.
Il PM ricorrente evidenziava, inoltre, che il carattere fraudolento della condotta ascrivibile all'imprenditore fallito emergerebbe nel fatto di aver questi ‘dolosamente' omesso di segnalare - in sede di redazione dell'atto di conferimento d'azienda e di produzione delle scritture contabili - l'esistenza di un decreto ingiuntivo già notificato, sì da rendere immune la società conferitaria - rispetto alla quale il socio avrebbe subito dopo esercitato il recesso - dalla responsabilità solidale con la società conferente per i crediti oggetto di conferimento, ai sensi dell'art. 2254 e 2560, c.c. Tale accorgimento, in definitiva, avrebbe sortito l'ulteriore effetto di rinforzare la ‘protezione' del valore delle quote, non più aggredibili una volta perfezionatosi l'atto di spoliazione con la perdita della titolarità delle azioni a seguito del recesso in favore della moglie.
Ebbene, la Suprema Corte, rifacendosi ad un costante orientamento, ribadisce che in tema di bancarotta fraudolenta anche l'esercizio di facoltà astrattamente legittime, in quanto ricomprese nel contenuto di diritti riconosciuti dall'ordinamento, si concretizzi o meno nell'adozione di strumenti negoziali tipizzati, può costituire uno strumento in frode ai creditori (come, ad esempio, nei casi di cessione di beni senza adeguata contropartita), in quanto la liceità di ogni operazione che incide sul patrimonio dell'imprenditore dichiarato fallito è un valore che va accertato in concreto (cfr. Cass., sez. V, 17 maggio 1996, n. 9430).

Osservazioni

La pronuncia in commento fornisce un'interpretazione orientata al principio di offensività della condotta distrattiva rilevante ai sensi dell'art. 216 l. fall. non in termini di mero contrasto con funzionalità o scopo dell'impresa genericamente considerati, ma individuando tale contrasto nella sottrazione dei beni dalla garanzia dei creditori, così ricollocandosi nel tradizionale insegnamento dottrinale secondo cui la destinazione giuridicamente vincolante del patrimonio societario è, nello specifico contesto della legge fallimentare, la funzione di garanzia per i creditori.
La pronuncia soprattutto cristallizza un'ulteriore e inedita modalità nella quale la condotta di distrazione, a forma libera (così C. PEDRAZZI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, Bologna, 1995, 54), può concretizzarsi.
Proprio su questo punto, attese le svariate modalità di sottrazione del bene alla funzione di garanzia per i creditori, la Suprema Corte ha da tempo affermato che l'elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo incidenza su di esso la natura dell'atto negoziale attraverso cui tale distacco si compie, né la possibilità di recupero del bene attraverso l'esperimento delle azioni apprestate a favore della curatela (Cass. pen., sez. V, 9 ottobre 2013, n. 49472). In conseguenza di tale principio, la Suprema Corte ha agevolmente ricondotto nell'alveo dell'art. 216 l. fall. l'affitto dei beni aziendali per un canone incongruo (Cass. pen., sez. V, 9 ottobre 2008 n. 44891), specie se stipulato al fine di mantenere la disponibilità materiale dell'immobile locato alla famiglia del titolare della società fallenda (Cass. pen., sez. V, 2 ottobre 2009, n. 49642) o anche di altro soggetto giuridico (Cass. pen., sez. V, 27 novembre 2008, n. 46508); la conclusione di contratti (nella specie affitto di azienda), privi di effettiva contropartita e preordinati ad avvantaggiare i soci a discapito dei creditori (Cass. pen., sez. V, 15 febbraio 2008, n. 10742 in CED Cass., 2008, 239480); il contratto di locazione di beni aziendali perfezionato nella immediatezza della dichiarazione di fallimento senza la previsione di una clausola risolutiva espressa da fare valere nel caso di imminente instaurarsi della procedura fallimentare (Cass. pen, sez. VI, 18 gennaio 2006, n. 7201, in CED Cass., 2006, 233634 ).
Ciò premesso, la sentenza in commento offre lo spunto per qualche riflessione sulla struttura della condotta distrattiva nella bancarotta fraudolenta patrimoniale dell'imprenditore individuale: essa ha il suo fulcro proprio in quella deminutio patrimonii generata dall'atto distrattivo in danno dei creditori dell'impresa
Sia in dottrina che in giurisprudenza si è sottolineato che il concetto di distrazione ha una funzione ‘completiva' del ‘tipo' penale: nello ‘specchio' della distrazione vengono inquadrate quelle condotte che non possono essere ricondotte nella nozione di occultamento, distruzione, dissipazione e dissimulazione di cui all'art. 216 l.fall. (v. Cass., 23 marzo 1988, Fabbri, in Cass. pen., 1990, I, 329 dove si sanciva che “…per distrazione, nel senso voluto dal legislatore nell'art. 216 n. 1 l. fall., deve intendersi qualunque fatto diverso dall'occultamento, dissimulazione, distruzione, dissipazione di beni e dalla fraudolenta esposizione di passività inesistenti, mediante il quale l'imprenditore faccia coscientemente uscire dal proprio patrimonio uno o più beni al fine di impedirne l'apprensione da parte degli organi del fallimento”). Sotto questo profilo, la definizione di distrazione che ancora conserva grande pregnanza è quella fornita dal Nuvolone: “la distrazione consiste obbiettivamente in ogni atto, diverso dalla dissipazione e dall'occultamento, mediante il quale l'imprenditore fa uscire dal proprio patrimonio, senza contropartita o senza contropartita reperibile, o fa uscire, comunque, dal patrimonio in concreto assoggettabile in concreto a procedura esecutiva, una parte dei propri beni, allorché questo suo atto aggravi lo stato di insolvenza” (così P. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano,1955, 210)
D'altra parte tentativi di fornire una lettura, per così dire, funzionale del concetto di distrazione, volta a dare risalto al distacco del bene dalla funzione di garanzia generica che i beni dell'imprenditore assolvono nei confronti dei creditori, per le obbligazioni da egli assunte nell'esercizio dell'attività di impresa ai sensi dell'art. 2740 c.c. (cfr. Cass. pen., sez. V, 30 gennaio 2006, n. 7555, De Rosa, in CED Cass. n. 233413; Cass. pen., sez. V, 24 maggio 2006, Bevilacqua, in CED Cass.n. 234606) hanno portato ad ampliare significativamente l'ambito di rilevanza della condotta distrattiva, in specie nella bancarotta dell'imprenditore individuale; al punto da far concludere che vi rientra “qualsiasi volontaria, ingiustificata e diversa destinazione del bene facente parte del patrimonio dell'imprenditore rispetto alla funzione tipica che questo assolve nell'ambito dell'impresa, quale elemento necessario per la sua funzionalità e quale garanzia verso i terzi” (Cass. pen, sez. V, 4 novembre 1993, Manco, in Cass. pen., 1995, 1635; in senso conforme Cass., sez. V, 7 marzo 1989, Bruzzese, in Cass. pen., 1991, 146; Cass., sez. V, 26 febbraio 1986, Gesnelli, in Cass. pen., 1987, 1827; Cass., sez. V, 28 marzo 1985, Passari, in Giur. pen., 1986, II, 21).
Viceversa, un'interpretazione conforme al principio di offensività e di determinatezza è quella che individua nella condotta distrattiva un nucleo di tipicità che ruota attorno alla diminuzione del patrimonio dell'imprenditore individuale da valutarsi in concreto, idonea a frustrare la garanzia patrimoniale dei creditori.
Posto che l'oggetto giuridico del reato è rappresentato dalla tutela dell'integrità del patrimonio del debitore in vista del ‘bene finale' della garanzia del ceto creditorio, in tutti i casi appena citati, come in quello qui in commento, il dato della formale liceità della condotta posta in essere dall'imprenditore fallito viene superato da quello sostanziale dell'effettivo danno al suo patrimonio individuale. Sicché la possibilità di qualificare in termini distrattivi una certa operazione dipende dall'accertamento in concreto sulle conseguenze – in termini di effettiva diminuzione della garanzia patrimoniale - che essa produce. Pur essendo, dunque, il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale reato di pericolo concreto per la garanzia ai creditori (C. PEDRAZZI, Reati fallimentari, in C. PEDRAZZI - A. ALESSANDRI - L. FOFFANI - S. SEMINARA - G. SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell'impresa. Parte generale e reati fallimentari, Bologna, 2003, 110; U. GIULIANI BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 2006, 362 nonché M. ZANCHETTI, in D. PULITANÒ (a cura di), Diritto penale (parte speciale), Torino, 2013, 390), la lettura qui fornita - lungi dal far coincidere la distrazione penalmente rilevante con il mero esercizio disfunzionale dell'autonomia patrimoniale dell'imprenditore rispetto agli interessi dell'impresa, - fonda l'accertamento della tipicità della distrazione sull'esistenza di un evento di danno ”interno“ alla stessa condotta (così D. BRUNELLI, Il diritto penale delle fattispecie criminose, Torino, 2013, 45, che parla di ‘condotta-risultato'). A tale accertamento circa la dannosità intrinseca dell'atto distrattivo - secondo l'orientamento suddetto che qualifica il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale come reato di pericolo concreto - dovrebbe aggiungersi l'ulteriore verifica in ordine alla concreta idoneità della condotta ad aggravare lo stato di insolvenza o comunque a generare uno squilibrio patrimoniale irreversibile (così P. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, cit., loc. cit). Su quest'ultimo punto, la sentenza in commento si limita ad affermare che l'esercizio del recesso, in quanto dannoso per il recedente, espone in concreto a pericolo le ragioni dei creditori: nulla di più.
Il principio enunciato dalla pronuncia in oggetto è allora che, in presenza di un'effettiva diminuzione del patrimonio del fallito, la formale liceità del recesso ai sensi dell'art. 2473 c.c. non esclude la riconducibilità della condotta allo schema tipico dell'art. 216 l. fall. Nella specie la deminutio patrimonii emerge dalla marcata sproporzione fra il valore di mercato delle quote fuoriuscite dal patrimonio individuale dell'imprenditore fallito e la somma ricevuta dal socio recedente a titolo di rimborso; a ciò si aggiunga la presenza di ulteriori indici, adeguatamente valorizzati nella motivazione, significativi anche sul terreno dell'elemento soggettivo, del carattere fraudolento del recesso finalizzato in via esclusiva alla sottrazione della quota sociale alla garanzia dei creditori.
Anche la seconda questione, circa la configurabilità del concorso in qualità di estraneo del socio-amministratore unico (la moglie del fallito) che si sia limitato a beneficiare dell'effetto espansivo della propria quota sociale in virtù dell'art. 2473 c.c., in conseguenza del recesso dell'altro socio dichiarato fallito in proprio, non sembra adeguatamente sviluppata nella motivazione. Non è ben chiaro infatti quale sia la ‘condotta concorsuale' ascritta alla moglie del fallito: quest'ultima, in realtà, sembra aver avuto il ruolo di ‘attore passivo' di un'operazione che si conclude con l'accrescimento della quota sociale, senza che l'accipiens abbia posto in essere alcun contributo ‘attivo' all'effetto distrattivo.

Riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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