Responsabilità della capogruppo per l'insolvenza delle società eterodirette
08 Febbraio 2016
Massima
L'art. 2497 c.c. prevede un'unica azione di responsabilità che può essere esercitata dai creditori sociali della società eterodiretta (e, in caso di fallimento, dal curatore) nei confronti dell'ente o della società che ha abusato dell'attività di direzione e coordinamento, al fine di ottenere il ristoro del pregiudizio conseguente alla lesione cagionata all'integrità del patrimonio sociale. Pertanto, il 3° comma della menzionata disposizione, nel prevedere che il creditore sociale può agire nei confronti dell'ente o della società che svolge attività di direzione e coordinamento solo se non sia stato soddisfatto dalla società soggetta a tale attività, si limita ad individuare una condizione di ammissibilità dell'azione di responsabilità prevista dal 1° comma, ma non costituisce il fondamento normativo di un'ulteriore responsabilità sussidiaria tipica della cd. "holding" per il pagamento dei debiti insoddisfatti della società eterodiretta. Il caso
Il curatore del fallimento della Costruzioni Edili M.L. s.n.c., società soggetta ad attività di direzione e coordinamento da parte di una società di fatto con funzioni di holding, a sua volta dichiarata fallita dal Tribunale di Napoli, chiedeva l'ammissione al passivo del fallimento di quest'ultima del credito asseritamente dovuto alla società eterodiretta a titolo di risarcimento del danno, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2497 c.c. In assenza di attivo, il pregiudizio sofferto veniva quantificato in misura pari al passivo fallimentare. La suddetta istanza veniva rigettata dal giudice delegato con ordinanza avverso la quale il curatore proponeva opposizione al Tribunale di Napoli.
Il Tribunale di Napoli, sul presupposto che la responsabilità ex art. 2497 c.c., nei confronti dei creditori delle società “dipendenti” debba ricondursi allo schema della responsabilità extracontrattuale, rigettava l'opposizione, osservando che l'opponente aveva omesso di assolvere l'onere probatorio gravante sullo stesso, in relazione agli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità invocata. In particolare, il provvedimento di rigetto veniva motivato alla luce della considerazione per cui l'opponente non aveva dimostrato né quali fossero le condotte illegittime tenute dalla holding (ovvero le specifiche operazioni della controllata realizzate su direttiva della holding), né il nesso eziologico tra condotta e danno (secondo il Tribunale, infatti, l'opponente si era limitato, sotto il primo profilo, a fare generico riferimento ad alcune vicende intercorse tra la società capogruppo ed un istituto bancario omettendo, tuttavia, di indicare le ripercussioni negative prodottesi sul patrimonio della controllata e, sotto il secondo, a prospettare un criterio di liquidazione del danno del tutto inidoneo).
Avverso tale provvedimento, il curatore del fallimento della società eterodiretta presentava ricorso per Cassazione lamentando, quali motivi principali di impugnazione, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2497 c.c., nella misura in cui la disposizione richiamata andrebbe correttamente inquadrata ed interpretata nel senso di ritenere che, nel compimento dell'attività di eterodirezione, dalla violazione dei doveri di corretta gestione derivi una forma di responsabilità contrattuale di tipo patrimoniale, configurabile in capo alla società capogruppo (non già per danni, bensì) per i debiti della società dipendente rimasti insoddisfatti.
La Suprema Corte, accertata l'irrilevanza pratica ai fini della dimostrazione del danno e del nesso di causalità della questione concernente la natura della responsabilità e rifiutata l'interpretazione proposta dal ricorrente, rigettava il ricorso principale. Le questioni giuridiche
Secondo quanto sopra sinteticamente esposto, a fondamento e motivo principale del ricorso deciso dalla sentenza in commento veniva posta la tesi per cui l'abuso dell'attività di direzione e coordinamento da parte della società capogruppo determinerebbe, ex lege, l'assunzione da parte della medesima di una forma di responsabilità patrimoniale (di carattere e natura “contrattuale”) per i debiti delle società dipendenti rimasti insoddisfatti. Nella prospettiva del ricorrente, siffatta interpretazione troverebbe la propria base normativa nel 3° comma dell'art. 2497 c.c., previsione con la quale il legislatore avrebbe, per l'appunto, inteso istituire una autonoma fattispecie di responsabilità patrimoniale “per debiti”, tipica e distinta rispetto a quella, avente invece carattere risarcitorio, disciplinata dal 1° comma della medesima disposizione. Inoltre, sempre secondo il ricorrente, tale ipotesi di responsabilità verrebbe comunque a determinarsi e giustificarsi alla luce del collegamento negoziale che (necessariamente) viene ad instaurarsi tra i contratti di società all'interno del gruppo.
A fronte di tale ricostruzione, la Suprema Corte ha evidenziato, in sintesi, che: i) la questione inerente la natura contrattuale ovvero extracontrattuale della responsabilità ex art. 2497 c.c. appare puramente teorica, giacché il ricorrente deve, in ogni caso, provare la sussistenza degli stessi elementi. Più in particolare, i giudici di legittimità hanno chiarito che il creditore di un'obbligazione contrattuale che agisce per ottenere il risarcimento dei danni prodotti dall'inadempimento del debitore, è comunque tenuto, al pari di colui che agisce in via extracontrattuale, a fornire la prova del danno sofferto e del nesso di causalità con la condotta del debitore violativa dell'obbligazione; ii) il tenore letterale del 3° comma dell'art. 2497 c.c. induce unicamente a ritenere che con tale norma il Legislatore abbia dettato una condizione di ammissibilità dell'azione di responsabilità per danni prevista - con una definizione che “riecheggia” quella dell'art. 2394 c.c. - dal 1° comma della medesima disposizione, azione che il curatore, ai sensi dell'ultimo comma della disposizione richiamata, risulta legittimato a esercitare per conto della massa dei creditori a fronte di pregiudizi sofferti dal patrimonio sociale della società eterodiretta fallita. La suddetta norma non vale invece a configurare, in capo alla holding, alcuna autonoma ipotesi di responsabilità patrimoniale, neppure di carattere sussidiario, nei confronti dei creditori delle società soggette a direzione unitaria, per i debiti propri di quest'ultime.
Per quanto attiene al secondo profilo, il collegio giudicante, confermando un precedente orientamento espresso dalla stessa Corte nella pronuncia n. 9143/08, ha poi rilevato che il dedotto collegamento negoziale tra contratti di società facenti parte del medesimo gruppo non può, in ogni caso, comportare il venir meno del principio della autonomia e della separatezza dei patrimoni delle società che compongono il gruppo. Pertanto, anche nel caso di operazioni infragruppo, non risulta, in ogni caso, consentito imputare alla holding atti che siano direttamente riferibili alle società partecipate, ancorché dalla prima voluti e coordinati. Osservazioni
La sentenza in commento offre lo spunto per approfondire alcune rilevanti tematiche in materia di diritto dei gruppi di imprese. In particolare, assumendo la specifica prospettiva di verificare ed individuare quali siano - e come risultino disciplinati - gli strumenti di “protezione” offerti dall'ordinamento societario a tutela dei creditori di società soggette ad attività di direzione e coordinamento, in ipotesi di insolvenza di quest'ultime, si evidenzia, in sintesi, quanto segue.
Un primo importante profilo sul quale la decisione in esame si sofferma è quello relativo alla questione se possa ritenersi sussistente, nel nostro ordinamento, una responsabilità patrimoniale, di carattere principale o sussidiario, della società o dell'ente capogruppo per i debiti delle società soggette a direzione e coordinamento, fondata sull'unico presupposto dell'appartenenza di quest'ultime al “gruppo”. Al riguardo, la conclusione fermamente negativa raggiunta dai giudici di legittimità appare coerente con gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali formatisi sul punto. In termini generali, risulta, infatti, pacifico che, pur in presenza di attività di direzione e coordinamento, le società del gruppo continuino a rappresentare centri autonomi di imputazione di rapporti giuridici, con la conseguenza che ciascuna delle predette società “è, di fronte ai terzi, un soggetto di diritto distinto da ogni altra società del medesimo gruppo, ciascuna responsabile dei debiti da essa assunti, non responsabile dei debiti assunti dalle altre società, che per esse sono, giuridicamente, debiti altrui” (in tal senso, si veda, in luogo di molti, Galgano, in Commentario del Codice Civile Scialoja - Branca- Galgano, Direzione e coordinamento di società, Bologna, 2014, p. 4). Tale principio, peraltro, trova piena applicazione, anche con riguardo alla società (o all'ente) che esercita attività di direzione e coordinamento. Pertanto, sempre in termini generali, anche la holding capogruppo, sia essa società od ente, deve considerarsi “terza rispetto ai rapporti giuridici che le società controllate abbiano posto in essere; sicché coloro che abbiano acquistato ragioni di credito nei loro confronti non hanno titolo per invocare la responsabilità patrimoniale della capogruppo” (in tal senso, si veda sempre Galgano, in Commentario del Codice Civile Scialoja - Branca- Galgano, cit. p. 4). Ed in questo senso, la stessa Corte di Cassazione, in un precedente arresto, aveva chiarito che la partecipazione di una società ad un contesto organizzativo, finanziario e commerciale (quale, tipicamente, un gruppo di imprese) “non ne annulla tuttavia le capacità economiche e reddituali e la conseguente attitudine a far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni” (in tal senso, cfr. Cass. 21 aprile 2011, n. 9260; Cass. 18 novembre 2010, n. 23344. Cfr., altresì, App. Napoli, 1 agosto 2014, con nota di Angiolini, in Il Fallimento, 6, 2015, pp. 677 e ss.). Il quadro sopra descritto, per quanto più interessa, non sembra destinato a mutare neppure allorquando, come nel caso oggetto della decisione in commento, la società eterodiretta sia sottoposta ad una procedura concorsuale: anche in tale ipotesi, infatti, secondo un orientamento assolutamente pacifico, sia in dottrina che in giurisprudenza, la società continua a rappresentare una distinta massa patrimoniale rispetto alle altre società del gruppo e, di conseguenza, la capogruppo non risponde delle obbligazioni della società “dipendente” soggetta a procedura (v. Galgano, Commentario del Codice Civile Scialoja - Branca- Galgano, cit, p. 74).
Alla luce di quanto sopra evidenziato, deve parimenti escludersi, secondo l'opinione prevalente, che una forma di responsabilità patrimoniale della società o ente capogruppo per i debiti della società eterodiretta possa in qualche modo farsi discendere dal dato formale dell'avvenuto adempimento degli obblighi pubblicitari previsti dall'art. 2497-bis c.c. A questo proposito si è osservato, infatti, che la pubblicità di cui al menzionato articolo non può svolgere “il ruolo di titolo e/o fatto costitutivo” della responsabilità della capogruppo per debiti e/o illeciti delle società figlie, non rinvenendosi nell'ordinamento alcuna norma che affermi e disciplini siffatta responsabilità (in tal senso, cfr. Cariello, sub art. 2497-bis, in Codice delle s.p.a., diretto da Abbadessa e Portale, in corso di pubblicazione. In argomento cfr., altresì, Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, Milano, 2010, pp. 34-35; Montalenti, Direzione e coordinamento nei gruppi societari: principi e problemi, in Riv. Soc., 2007, p. 329). Né, d'altra parte, sembra consentito sostenere che dal dato formale dell'avvenuto adempimento degli obblighi pubblicitari di cui all'art. 2497-bis c.c., da parte della società (o dell'ente) capogruppo, possa farsi discendere, in assenza di un'espressa manifestazione di volontà in tal senso,un anomalo ed automatico effetto di patronage erga omnes a carico di quest'ultima[in argomento cfr., ex multis, Cariello, La pubblicità del gruppo (art. 2497-bis c.c.): la trasparenza dell'attività di direzione e coordinamento tra staticità e dinamismo, in RDS, 2009, p. 490, ove ulteriori riferimenti; Id, sub art. 2497-bis, in Codice delle s.p.a., cit., in corso di pubblicazione; Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, cit. p. 35]. La pubblicità in esame (ed, in particolare, l'iscrizione nel registro delle imprese di cui al 1° comma del predetto articolo) assolve, infatti, essenzialmente alla funzione di rendere conoscibili i fatti che vi sono soggetti (c.d. pubblicità notizia), senza influire sulla loro efficacia e senza che ne possa discendere né un'ipotesi di responsabilità patrimoniale a carico della controllante, né un implicito effetto di patronage [sul punto, cfr. Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, cit., pp. 34-35; Galgano-Sbisà, sub art. 2497-bis, in Commentario del Codice Civile Scialoja - Branca- Galgano, cit., p. 221].
Fermo quanto precede in termini di inquadramento generale della tematica, la Suprema Corte, nell'arresto in commento, ha espressamente escluso che una deroga al principio della separazione patrimoniale tra le società appartenenti al medesimo gruppo sia introdotta dalla disposizione contenuta nel 3° comma dell'art. 2497 c.c., la quale, infatti, non può essere intesa, secondo i giudici di legittimità, nel senso di riconoscere ai creditori delle società eterodirette un'azione - autonoma e distinta da quella risarcitoria di cui al primo comma della disposizione codicistica richiamata - nei confronti della capogruppo, diretta a far valere una ipotesi di responsabilità per “debiti” di tale società o ente. Conclusione interpretativa, quest'ultima, che appare pacifica, sebbene l'esegesi della previsione di cui al 3° comma dell'art. 2497 c.c. risulti, in dottrina come in giurisprudenza, assai controversa. In particolare, parte della giurisprudenza di merito ha ravvisato nella disposizione richiamata (la quale come noto stabilisce che “il socio ed il creditore sociale possono agire contro la società o l'ente che esercita l'attività di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta alla attività di direzione e coordinamento”) un onere di preventiva escussione della società eterodiretta, da taluno qualificato come vera e propria condizione di procedibilità/ammissibilità dell'azione di cognizione (in questo senso, cfr. Trib. Palermo, 3 giugno 2010, in Foro It., 2011, 03, I, pp. 931 e ss.; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 20 marzo 2013). Altre pronunce, invece, hanno ritenuto che l'onere di preventiva escussione della società eterodiretta operi solo in fase esecutiva, ossia dopo che sia stata giudizialmente accertata la responsabilità della holding (per questa interpretazione, si veda, ad esempio, Trib. Pescara, 2 febbraio 2009, in Foro it., 09, I, 2829; Trib. Palermo, 15 giugno 2011, in Giur. comm., 2013, 508. In questo senso in dottrina, cfr., in luogo di molti, Fimmanò, sub art. 2497, commi 3-4, in Commentario alla riforma delle società, Direzione e coordinamento di società, diretto da Marchetti - Bianchi - Ghezzi - Notari - Milano, 2012, pp. 119-120). Recentemente, infine, si registrano alcune pronunce di merito secondo le quali la disposizione richiamata assolverebbe unicamente alla funzione di inibire al socio o al creditore sociale, le cui ragioni siano state eventualmente soddisfatte dalla società “figlia”, di agire nei confronti della capogruppo; in tali casi, resterebbe, tuttavia, ferma la possibilità per la società eterodiretta di agire nei confronti della holding per ottenere il risarcimento del danno, che, altrimenti, subirebbe due volte (in questo senso, si veda, Trib. Milano, 7 maggio 2014; Trib. Milano, 20 dicembre 2013, ord; Trib. Milano, 27 febbraio 2012, in Giur. It. 2012, pp. 2585 e ss.; Trib. Milano, 17 giugno 2011, in Società, 2012, 258 ss. In dottrina, cfr., in luogo di molti, Maugeri, Partecipazione sociale e attività d'impresa, Giuffrè, 2010, p. 379. Per una più ampia ricostruzione sul tema, cfr., in luogo di molti, Valzer, sub art. 2497, in Codice delle s.p.a, in corso di pubblicazione; Sbisà, sub art. 2497, in Commentario del Codice Civile Scialoja - Branca - Galgano, Direzione e coordinamento di società, cit.; Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, cit., pp. 48 e ss.; Maddaluno, Dieci anni di giurisprudenza sulla «direzione e coordinamento» di società, in Giur. comm., 2013, pp. 758 e ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici). Sulla base di siffatta interpretazione, pertanto, sembra legittimo ritenere che ai soci o i creditori sociali che volessero agire in giudizio contro la capogruppo sia riconosciuta la facoltà (ma non l'obbligo) di “sollecitare” la società eterodiretta affinché quest'ultima provveda ad ottenere le risorse dalla holding per risarcire il danno da essa provocato, ciò che potrà avvenire anche chiamando in giudizio la società controllata, a titolo di denuntiatio litis (sul punto, cfr., da ultimo, Trib. Milano, 20 dicembre 2013, ord., cit.). Peraltro, in una diversa prospettiva, tale soluzione consentirebbe alla capogruppo di evitare volontariamente “la promozione di una azione ex art. 2497 trasferendo alla società controllata le risorse sufficienti al ristoro del pregiudizio lamentato” (in questi termini, Montalenti, Le società per azioni, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, IV, Padova, 2010, p. 1066). Da ultimo, occorre segnalare come in dottrina sia stata proposta una diversa lettura dell'art. 2497, 3° comma, c.c., il quale verrebbe a definire l'assetto, non solo temporale, ma anche strutturale, della tutela approntata dal legislatore a difesa dell'investimento di minoranza nell'impresa di gruppo. In particolare, la norma richiamata imporrebbe ai soci ed ai creditori della società eterodiretta di risolvere il conflitto con il socio di controllo anzitutto lì dove esso è sorto, ovverosia agendo direttamente nei confronti della controllata, la quale rappresenta una voce dell'attivo patrimoniale della holding. Tale prospettiva si dimostrerebbe non solo coerente, ma anche dotata di efficacia di deterrente nei confronti della capogruppo: posto che, infatti, tutte le perdite di valore della società eterodiretta si riflettono in una diminuzione del patrimonio della stessa holding, la responsabilità solidale della società eterodiretta individuerebbe una forma di ulteriore “sanzione” della capogruppo, la quale verrebbe costretta a fornire alla società diretta e coordinata le risorse per provvedere al risarcimento (in argomento, si vedano, tra gli altri, Valzer, sub art. 2497, in Codice delle s.p.a., cit., nt. 13; Sbisa', sub art. 2497 commi 1-2, in Commentario alla riforma delle società, Direzione e coordinamento di società, cit., p. 104; ID, sub art. 2497, in Commentario del Codice Civile Scialoja - Branca- Galgano, Direzione e coordinamento di società, cit. pp. 208 e ss.).
Tanto evidenziato con riferimento all'interpretazione dell'art. 2497, comma 3, c.c., la sentenza annotata non precisa, nella prospettiva segnata della tutela degli interessi dei creditori “esterni”, se ed quali condizioni, esclusa, come chiarito, ogni forma di responsabilità per debiti, possa, invece, configurarsi una responsabilità di carattere risarcitorio in capo alla società che esercita l'attività di direzione e coordinamento, in caso di insolvenza delle società eterodirette. In questa prospettiva, sembra, anzitutto, opportuno individuare ed approfondire quali siano i doveri e, di conseguenza, i poteri gravanti sulla società (o sull'ente) capogruppo in caso di crisi di una società soggetta alla sua direzione e coordinamento. Al riguardo, il punto di riferimento principale è rappresentato dalla stessa disciplina generale di cui all'art. 2497 c.c., il quale nell'affermare indirettamente la legittimità dell'attività di direzione e coordinamento, prescrive che la stessa si svolga nel rispetto dei “principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale” (in argomento si veda, in luogo di molti, G. Scognamiglio, “Clausole generali”, principi di diritto e disciplina dei gruppi di società, in Riv. dir. priv., 2011, pp. 530 e ss.; Maugeri, op. cit., pp. 337 e ss.; Mozzarelli, Responsabilità degli amministratori e tutela dei creditori nella s.r.l., Giappichelli, 2007, p. 212; Valzer, Il potere di direzione e coordinamento di società tra fatto e contratto, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gianfranco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, III, 2007, p. 851; Bianchi, Problemi in materia di disciplina dell'attività di direzione e coordinamento, in Riv. soc., 2013, p. 422. Nella giurisprudenza più recente cfr. Trib. Milano, 10 novembre 2014; Trib. Milano, 15 maggio 2014). Se questo è pacifico, è stato osservato che i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, operando con funzione, per così dire, “normogenetica”, necessitano, per tradursi in regole di condotta dal contenuto determinato, di essere “specificati” e “concretizzati” con riferimento ai diversi contesti situazionali in cui viene ad esplicarsi l'attività di direzione e coordinamento da parte della società capogruppo (in argomento, cfr. Tombari, Crisi di impresa e doveri di “corretta gestione societaria e imprenditoriale” della società capogruppo. Prime considerazioni, in Riv. dir. comm., 2011, p. 637). Venendo, quindi, a concentrare l'attenzione sui contesti di crisi, è stato sostenuto in dottrina che il rispetto dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale impone alla società (o all'ente) capogruppo: i) di provvedere senza indugio a risanare in modo energico la controllata o, in alternativa; ii) di promuovere, secondo le circostanze l'adozione di un piano di risanamento, di un accordo di ristrutturazione o la presentazione di un ricorso per concordato preventivo, ovvero, qualora non sia possibile o non vi sia la volontà di procedere in tal senso; iii) di disporre la liquidazione in forma ordinata della società diretta e coordinata o, in caso di insolvenza, di attivarsi al fine di far dichiarare il suo fallimento [cfr., in particolare, Tombari, Crisi di impresa e doveri di “corretta gestione societaria e imprenditoriale” della società capogruppo. Prime considerazioni, cit., pp. 640 e ss.; Miola, Attività di direzione e coordinamento e crisi di impresa nei gruppi di società, in M. Campobasso ed altri (diretto da), Società, Banche e Crisi di Impresa, 3, Torino, 2014, pp. 2719 e ss.; G. Scognamiglio, Profili di tutela dei creditori nei gruppi di società, a dieci anni dalla riforma, in La riforma del diritto societario dieci anni dopo, Milano, 2015, p. 311; Abriani-Panzani, Crisi e insolvenza nei gruppi di società, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Cagnasso e Panzani, in corso di pubblicazione]. Più in generale, dunque, sulla scorta del richiamato orientamento dottrinario, sembrerebbe legittimo asserire che la società (o l'ente) capogruppo non possa disinteressarsi dello stato di crisi in cui si trova l'impresa societaria diretta e coordinata, essendo, piuttosto, tenuta a “fronteggiarlo” allo scopo, tra l'altro, di evitare il peggioramento dello stato di crisi o la sua “propagazione” all'interno del gruppo (in argomento v. Miola, op. cit., pp. 2735 e ss.). In questo senso, deve ritenersi ormai riconosciuto ed acquisito “un principio o standard di corretta gestione imprenditoriale, che impone alla società capogruppo di non proseguire passivamente l'esercizio di imprese prive della prospettiva della continuità” (in questi termini, Abriani-Panzani, op. cit., in corso di pubblicazione). Alla luce di tale standard comportamentale, dunque, in caso di insolvenza di società soggetta a direzione e coordinamento, potrebbe astrattamente configurarsi, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2497 c.c., un'ipotesi di responsabilità risarcitoria della capogruppo nei confronti dei creditori della società eterodiretta rimasti insoddisfatti, nella misura il patrimonio della suddetta società risulti essere stato pregiudicato per non avere la società capogruppo (in violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria): i) valutato in modo diligente la situazione della società, individuando un percorso di “gestione” della crisi inidoneo ad assicurare la continuazione dell'attività in regime di continuità aziendale; ii) attuato in modo efficace gli interventi di risanamento necessari ed aver conseguentemente proseguito passivamente la gestione della società in assenza di una seria prospettiva di continuità aziendale, ritardando l'adozione delle necessarie misure alternative.
Fermo quanto precede, la configurabilità in concreto di un'ipotesi di responsabilità ex art. 2497 c.c., presupporrà l'effettiva sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie e, dunque, l'onere del soggetto che agisce in responsabilità di fornire la dimostrazione che la società o ente capogruppo: a) abbia esercitato una “attività di direzione e coordinamento di società”; b) “in funzione esclusivamente dell'interesse imprenditoriale proprio o di un soggetto terzo”; c) in violazione dei “principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale” della società dipendente; d) arrecando ai soci o ai creditori delle società “figlie” un danno nella forma rispettivamente del “pregiudizio recato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale” e della “lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società” (sul punto, si veda, in luogo di molti, Sbisà, sub art. 2497, in Commentario alla riforma delle società, Direzione e coordinamento di società, cit. p. 182; Valzer, sub art. 2497, in Codice delle s.p.a., cit., in corso di pubblicazione. In giurisprudenza, Trib. Milano, 10 novembre 2014, cit.; App. Milano, 20 giugno 2012, in Società, 2012, 10, p. 1099; Trib. Milano, 17 febbraio 2012 in RDS, 2012, pp. 734 e ss; Trib. Milano, 17 giugno 2011, cit.; Trib. Pescara, 2 febbraio 2009, cit.). Al riguardo, la Suprema Corte non ha preso posizione sulla natura contrattuale od extracontrattuale della responsabilità da abusiva direzione unitaria, essendosi piuttosto limitata a rilevare come, ai fini della ripartizione dell'onere probatorio, la distinzione richiamata assuma scarso rilievo pratico (in favore della ricostruzione in termini “contrattuali” della responsabilità, cfr. Pavone La Rosa, Nuovi profili della disciplina dei gruppi societari, in Riv. soc., 2003, p. 770; Sacchi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in Giur. comm., 2003, I, pp. 670-671; G. Scognamiglio, Poteri e doveri degli amministratori nei gruppi di società dopo la riforma del 2003, in Profili e problemi dell'amministrazione nella riforma delle società, a cura di G. Scognamiglio, p. 195; Abbadessa, La responsabilità della società capogruppo verso la società abusata: spunti di riflessione, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, p. 283; Montalenti, I gruppi di società, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, IV, I, Le società per azioni, p. 1065; Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, cit., p. 36; Benedetti, La responsabilità da etero direzione abusiva della capogruppo. Natura contrattuale o aquiliana? Eventuale carattere sussidiario?, in Giur. comm., 2013, II, pp. 523 e ss.; Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma societaria fra aperture ed incertezze: una prima riflessione, in Società, 2003, p. 335. Nella giurisprudenza recente, cfr. Trib. Milano, 7 maggio 2014, cit.; Trib. Milano 17 giugno 2011, cit.; Trib. Milano, 25 luglio 2008, decr., in RDS, 2011, pp. 125 ss.; Trib. Milano, 13 febbraio 2008, in Giur. comm., 2009, II, 762). Al di là della predetta distinzione “teorica”, merita evidenziare come, al fine di facilitare la prova dell'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento, il legislatore abbia introdotto una presunzione relativa circa il soggetto che dirige e coordina, prevedendo all'art. 2497-sexies c.c. che, salvo prova contraria, questa attività si considera “esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento del bilancio o che comunque le controlla ai sensi dell'art. 2359”. Fuori dalle ipotesi contemplate dalla suddetta presunzione, la giurisprudenza di merito ha chiarito che, ai fini della prova dell'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento, “non può comunque essere richiesta l'acquisizione della prova diretta dell'esistenza materiale e del contenuto della direttiva, essendo sufficiente l'acquisizione di indizi da cui desumere che l'influenza, da parte dell'ente dirigente sugli amministratori della società diretta, vi sia stata ed abbia concorso a determinare il compimento dell'operazione o della serie di operazioni dannose per la società diretta, i suoi soci od i suoi creditori e vantaggiose per l'ente dirigente” (Trib. Milano, 20 dicembre 2013, ord., cit.). Più in generale, si è sostenuto che non è necessario fornire la dimostrazione che le singole operazioni pregiudizievoli poste in essere dalla società eterodiretta siano causalmente riconducibili ad atti di eterodirezione della controllante. La riconducibilità delle singole operazioni nell'ambito del “generale” esercizio dell'attività “direttiva” della holding costituisce, difatti, una normale ed automatica conseguenza del fenomeno stesso dell'eterodirezione, risultando dunque consentito ritenere che le decisioni di particolare rilievo per la società eterodiretta siano “fisiologicamente” influenzate dall'ente di vertice (sul quale graverà, semmai, l'onere di dimostrare la propria estraneità rispetto alle operazioni censurate; sul punto cfr., ex multis, Sbisà, sub art. 2497, in Commentario alla riforma delle società, cit., pp. 91-92; Valzer, sub art. 2497, in Codice delle s.p.a., cit., in corso di pubblicazione. In giurisprudenza, in senso conforme, cfr. Trib. Milano, 20 dicembre 2013, ord., cit.; contra: Trib. Milano, 10 novembre 2014, cit.). Conclusioni
In ultimo, si ritieneopportuno evidenziare come, sul piano astratto, non possa escludersi che a fianco della specifica fattispecie di responsabilità disciplinata dall'art. 2497 c.c. con riferimento all'illegittimo esercizio dell'attività di direzione e coordinamento, possa, quantomeno astrattamente, configurarsi a carico della holding un'ipotesi di responsabilità “da affidamento nella capogruppo”, riconducibile alla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c.
Più in particolare, tale ipotesi di responsabilità, potrebbe farsi derivare da “dichiarazioni (della società partecipata, rese da organi di quest'ultima su direttive della controllante, e di dichiarazioni) riconducibili immediatamente ad organi della controllante, che non siano di per sé vincolanti e coercibili (come nell'ipotesi della c.d. lettera di patronage "forte", su cui cfr. Cass. n. 4888/01), ma siano state espresse con contenuti ed in modi o contesti tali da indurre o rafforzare l'affidamento dei creditori della società controllata nella capacità di adempimento di quest'ultima” (in questi termini cfr. Cass., 28 febbraio 2012, n. 3003. In dottrina,cfr. Cariello, sub art. 2497-bis, in Codice delle s.p.a., cit., in corso di pubblicazione). Così come osservato con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 2497 c.c., anche in questo caso non si tratterebbe di una forma di responsabilità patrimoniale della controllante per i debiti delle società “figlie”, bensì di una responsabilità per danni, collegata al venir meno della garanzia patrimoniale dei crediti nei confronti della società eterodiretta.
Al riguardo, la giurisprudenza richiamata in materia di “affidamento nella capogruppo” riconduce la fattispecie in esame alla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c. Sul piano teorico, si potrebbe tuttavia sostenere che l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento determini una relazione giuridica, per così dire, “qualificata” tra i creditori delle società dipendenti e la società capogruppo, la quale, come chiarito, è tenuta (anche) nell'interesse di questi al rispetto di obblighi “preesistenti” (i principi di corretta gestione). Se questo è vero, non è da escludere che la fattispecie in esame configuri una particolare ipotesi di c.d. responsabilità da “contatto sociale”, qualificabile, secondo un consolidato orientamento dottrinario e giurisprudenziale, come contrattuale (in argomento, cfr., ex multis, Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, pp. 469 e ss. Nella giurisprudenza di legittimità cfr., in tema di responsabilità medica, Cass. 20 marzo 2015, n. 5590; Cass. 30 settembre 2014, n. 20547; Cass. 8 luglio 2014, n. 15490; Cass. 12 settembre 2013, n. 20904; Cass. 18 luglio 2013, n. 17573; in tema di responsabilità dell'insegnante, cfr. Cass. 8 febbraio 2012, n. 1769; in tema di intermediazione finanziaria cfr. Cass. Sez. Un. 26 giugno 2007, n. 14712; in tema di responsabilità del mediatore, cfr. Cass. 14 luglio 2009, n. 16382; in tema di rapporti con la pubblica amministrazione, cfr. Cons. Stato 4 luglio 2012, n. 3897; Cons. Stato 31 ottobre 2008, n. 5453; in tema di responsabilità dell'ex datore di lavoro nei confronti dell'ex dipendente per inesatte informazioni attinenti al rapporto di lavoro, cfr. Cass. 21 luglio 2011, n. 15992). La natura contrattuale della responsabilità potrebbe astrattamente incidere, “semplificandolo”, sull'onere probatorio (oltreché, evidentemente, sul termine di prescrizione applicabile).
Aderendo, tuttavia, alla qualificazione proposta dalla Suprema Corte nell'arresto citato (cfr. Cass., 28 febbraio 2012, n. 3003, cit.), in applicazione delle regole che disciplinano la ripartizione dell'onere della prova in materia di illecito extracontrattuale, graverà sul (preteso) danneggiato fornire la prova in ordine: i) alle dichiarazioni e/o informazioni che hanno ingenerato in esso l'affidamento, siano esse provenienti dagli organi della società controllante nei suoi confronti (a nulla rilevando la circostanza che questi fosse, in tale momento, un creditore meramente potenziale) ovvero direttamente dalla società controllata. Secondo quanto sopra osservato, si potrebbe presumere, in via generale e salvo prova contraria, che tutti gli atti di maggiore rilievo per la società eterodiretta siano riconducibili all'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento della società (o dell'ente) capogruppo e, dunque, a questa riferibili, a prescindere da una espressa dichiarazione di quest'ultima (in questo senso, cfr. Trib. Milano, 20 dicembre 2013, ord., cit.; contra: Trib. Milano, 10 novembre 2014, cit.); ii) al danno derivante dalla lesione dell'affidamento provocata dalle predette dichiarazioni e/o informazioni inesatte, il quale dovrà essere circoscritto agli effetti “diretti” delle condotte censurate; iii) all'elemento soggettivo, colposo o doloso, della condotta; iv) al nesso eziologico tra condotta ed evento lesivo, cioè tra le dichiarazioni e/o informazioni false o inesatte e le scelte compiute con riguardo ai rapporti contrattuali con la controllata tale per cui in ragione delle predette dichiarazioni e/o informazioni, il danneggiato è stato indotto a tenere un comportamento che altrimenti non avrebbe tenuto (in questi termini, cfr. Cass. 28 febbraio 2012, n. 3003, cit.). |