Partecipazione per facta concludentia e impossibilità di estendere il fallimento
10 Novembre 2015
Massima
Non può essere esteso il fallimento di una società a responsabilità limitata ad una società in accomandita semplice in virtù di un'asserita società di fatto costituita tra le due compagini societarie in quanto la partecipazione di una società di capitali in una società di fatto comportante la responsabilità illimitata può essere ammessa solo qualora siano rispettate le condizioni poste dall'art. 2361 c.c. mentre tale partecipazione deve ritenersi esclusa qualora essa avvenga per facta concludentia. Il caso
Il curatore del fallimento di una società a responsabilità limitata presenta istanza di estensione del fallimento a norma dell'art. 147 l. fall. nei confronti di una società in accomandita semplice, nonché del socio accomandatario e del socio accomandante esercente, però, attività di amministrazione della società e, come tale, illimitatamente responsabile, sulla scorta della esistenza di una società di fatto tra le due compagini sociali delle due società in questione. La domanda di estensione del fallimento poggia fondamentalmente su tre punti principali: a) identità della compagine sociale; b) identità dell'oggetto sociale; c) identità della sede legale. Si costituisce in giudizio il socio accomandatario della società di accomandita semplice che chiede il rigetto del ricorso, contestando l'esistenza della società di fatto ed invocando le esimenti di cui all'art. 1 l. fall. La questione
Il provvedimento in commento riaccende i riflettori sulla complessa questione relativa alla possibilità di estendere il fallimento di una società di capitali ad una società di persone e, prima ancora, sulla relativa possibilità che una società di capitali possa partecipare, tramite comportamenti concludenti, ad una società di fatto costituita con una società di persone.
L'annosa questione ha da sempre acceso i dibattiti sia in dottrina che in giurisprudenza dando spesso vita ad orientamenti contrastanti. In dottrina, ad esempio, ci si è chiesti se si possa considerare opponibile ai terzi la partecipazione ad una società di persone, frutto di meri comportamenti degli amministratori, in assenza di una specifica delibera assembleare (Irrera, La società di fatto tra società di capitali e il suo fallimento per estensione, in Fallimento, 2008, 1328). Secondo un orientamento, potrebbe condividersi la soluzione dell'inopponibilità ai terzi sui quali si potrebbe ritenere non debba gravare l'onere di accertare la previa esistenza di una delibera assembleare, in presenza di un atto formale degli amministratori comportante l'acquisto della partecipazione (o anche quando l'atto posto in essere dagli amministratori ecceda i loro poteri) (in tal senso, Sciuto, Il potere di rappresentanza degli amministratori di s.r.l., in Aa.Vv., La governance nelle società di capitali. A dieci anni dalla riforma, Milano, Egea, 2013, 724).
Sotto il profilo del dibattito giurisprudenziale, in particolare, si è assistito ad un brusco cambio di rotta: da un orientamento tendenzialmente favorevole alla sussistenza della società di fatto tra società di capitali e società di persone con conseguente possibilità di estensione del fallimento, si è passati ad un orientamento opposto che nega tale possibilità. Infatti, secondo un primo orientamento, al quale non aderisce la pronuncia del tribunale di Como, la costituzione per facta concludenda di una società di fatto tra società di capitali e una società di persone sarebbe ammissibile con conseguente ammissibilità dell'estensione del fallimento da una società di capitali ad una società di persone ex art. 147, quinto comma, l. fall. (di tale segno, tra le più recenti pronunce commentate, si segnalano: Trib. Parma, 13 marzo 2014, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, 2014, 5, 598; Trib. Bari, ord., 20 novembre 2013, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, 2014, 2, 233). Al contrario, secondo un opposto e più recente orientamento giurisprudenziale, al quale si conforma il provvedimento in oggetto, sarebbe inammissibile la sussistenza di una società di fatto costituita tra una società di capitali e una società di persone e, di conseguenza, sarebbe altrettanto inammissibile l'estensione alla società di persone del fallimento della società di capitali (di tale orientamento, tra le più recenti commentate, si citano: Trib. Foggia, decr., 3 marzo 2015, in Fallimento, 2015, 6, 745-746; Trib. Santa Maria Capua Vetere, decr., 15 gennaio 2015, in Fallimento, 2015, 6, 746).
Il fulcro della questione è ravvisabile nel dettato normativo dell'art. 147 l. fall.: infatti, il quinto comma dell'art. 147 non menziona la figura dell'imprenditore collettivo, riferendosi solo ed esclusivamente all'imprenditore individuale, specificazione questa che non consentirebbe di avanzare l'ipotesi di una “svista” del legislatore o di una “lacuna” normativa, quanto piuttosto di ravvisare una specifica volontà in tal senso da parte del legislatore di limitare l'operatività della norma al solo imprenditore individuale.
Inoltre, se alla lettura del quinto comma dell'art. 147 l. fall. si associa quella dell'art. 2361 c.c. in tema di partecipazione di società ad altre società, si evince chiaramente, dal disposto del secondo comma del predetto articolo, che l'eventuale partecipazione ad altre imprese che importi l'assunzione di una responsabilità illimitata per le obbligazioni assunte da tali imprese, deve essere deliberata dall'assemblea, al fine di rendere partecipe la compagine sociale che deve essere opportunamente informata mediante la nota integrativa del bilancio. La ratio sottesa a tale norma è di facile intuizione: da un lato, evitare che i soci siano esposti, senza averne preventivamente valutato ed accettato il rischio, alla responsabilità illimitata derivante dalla partecipazione nella società di persone (i.e., società di fatto nel caso de quo) e, dall'altro, dare maggior tutela al ceto creditorio della società partecipante alla società di fatto, consentendo loro di valutare la consistenza patrimoniale della società (eventuale) debitrice, anche alla luce di tale partecipazione che potrebbe modificare, aumentandola, l'esposizione debitoria della società con conseguente depauperamento della garanzia patrimoniale.
Sull'aspetto della tutela del ceto creditorio, autorevole dottrina già in passato aveva affermato che in caso di estensione del fallimento si verrebbero a pregiudicare i creditori che hanno fatto affidamento su di un'area circoscritta di responsabilità (in assenza della prescritta indicazione in nota integrativa) a favore di un'area di creditori, anch'essi d'impresa, ma che sulla più ampia area patrimoniale di responsabilità non avevano fatto affidamento alcuno (Montalenti, Società per azioni, corporate governance e mercati finanziari, Milano, 2011, 252).
Ulteriore questione che emerge dall'analisi del provvedimento in esame è quella relativa al potere di rappresentanza dell'organo amministrativo; infatti, avvalorando l'ipotesi della sussistenza di una società di fatto con conseguente possibilità di estensione del fallimento ai partecipanti, si finirebbe per valorizzare indebitamente, e contro il chiaro disposto normativo, l'operato degli amministratori, posto che la necessità di una previa delibera assembleare all'operazione di partecipazione rappresenterebbe una vera e propria limitazione imposta dalla legge al potere dell'organo amministrativo, limitazione che – argomentando a contrario rispetto all'art. 2384, secondo comma, c.c. – sarebbe direttamente opponibile con la conseguenza che la partecipazione assunta in violazione delle tutele di cui all'art. 2361 c.c. risulterebbe illegittima. Determinante, ai fini della partecipazione di una società di capitali ad una società di persone è la volontà sociale espressa in assemblea. Difatti, la massima tutela dei soci e dei terzi la si ottiene attraverso l'applicazione del principio di collegialità, tipico delle deliberazioni assembleari. Infatti, nel caso de quo, se anche il curatore istante volesse assumere, sulla base di comportamenti concludenti dell'organo amministrativo, la sussistenza di una società di fatto tra la s.r.l. già dichiarata fallita e la s.a.s. alla quale si vuole estendere tale fallimento, tale assunto non avrebbe rilevanza stante la circostanza che, il potere di determinare l'effettiva partecipazione di una società ad altra società si esprime solo attraverso delibera assembleare dei soci; pertanto, qualora l'amministratore della società avesse posto in essere atti e/o attività tali da far ipotizzare la sussistenza di una società di fatto tra le parti, ciò non sarebbe sufficiente a determinarne l'effettiva esistenza del legame sociale. Infatti, anche nell'ipotesi in cui l'organo amministrativo ponga in essere comportamenti tali da ingenerare il convincimento della sussistenza di una società di fatto tra determinati soggetti, sarà la sola volontà dei soci espressa in assemblea a poter concretamente deliberare la partecipazione ad una società di fatto, assumendone i relativi rischi. Conclusioni
La partecipazione ad una società di fatto di una società di capitali e di società di persone non può configurarsi qualora essa si basi su comportamenti concludenti, in quanto risulta fondamentale, così come disposto dall'art. 2361, secondo comma, c.c., la delibera assembleare che sancisca tale partecipazione, stante la responsabilità illimitata che dalla stessa ne scaturisce. Di conseguenza, non può essere esteso il fallimento, ex art. 147, quinto comma, l. fall., di una società di capitali ad una società di persone tra le quali si assume esistere una società di fatto determinata dai soli comportamenti concludenti (come identità di sede e di oggetto sociale), essendo necessaria una delibera assembleare che provi la sussistenza di tale società di fatto; inoltre, non potrebbe ritenersi applicabile quanto disposto dall'art. 147, quinto comma , l. fall. all'imprenditore collettivo in quanto la norma espressamente fa riferimento al solo imprenditore individuale. |