L’amministratore preleva somme congrue al lavoro svolto: è bancarotta preferenziale

La Redazione
11 Dicembre 2015

Con la sentenza n. 48017/2015, i Giudici della V Sezione penale della Cassazione hanno affermato che, nel caso in cui l'amministratore di una società abbia distratto delle somme dalle casse dell'ente, il criterio per distinguere la bancarotta fraudolenta patrimoniale dalla fattispecie preferenziale è la congruità di tali somme rispetto all'attività lavorativa prestata.

Per delimitare i confini la bancarotta fraudolenta patrimoniale e la fattispecie preferenziale, al fine di stabilire in quale dei due delitti sia incorso l'amministratore che abbia distratto delle somme dalle casse societarie come compenso per la propria attività lavorativa, il criterio determinante è la congruità delle somme medesime rispetto al lavoro svolto. Questa la linea interpretativa tracciata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 48017, depositata il 3 dicembre scorso.

Con il ricorso presentato dinanzi alla Corte di Cassazione l'amministratore domandava se nella vicenda che lo riguardava fossero ravvisabili gli estremi del delitto di bancarotta fraudolenta o di bancarotta preferenziale, posto che egli era comunque il destinatario degli assegni emessi dal liquidatore della società fallita, dalla quale aveva prelevato le somme che gli spettavano.

A parere della Suprema Corte, l'amministratore che si ripaghi dei suoi crediti verso la società fallita, in merito a compensi per l'attività lavorativa effettivamente prestata, prelevando o comunque ottenendo dalla cassa sociale una somma congrua rispetto al lavoro svolto, non risponde di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, ma solo di bancarotta preferenziale. In tal caso è infatti ravvisabile l'elemento caratterizzante della fattispecie preferenziale consistente nell'alterazione della par condicio creditorum, “essendo irrilevante, al fine della qualificazione giuridica del fatto […] la specifica qualità dell'agente di amministratore della società”.

Il punto centrale per stabilire se si tratti di bancarotta fraudolenta è dunque quello di “stabilire se la somma prelevata dalle casse sociali dall'amministratore sia o meno congrua rispetto al lavoro prestato”. La determinazione del criterio di congruità viene rimessa dalla Suprema Corte ai giudici di merito e non agli organi societari: “Se, infatti, la somma prelevata corrisponda a quanto normalmente percepito dall'amministratore a titolo di compenso negli anni precedenti quando la società non trovatasi in stato di insolvenza o a quanto percepito dagli amministratori di società analoghe, non si può parlare di vantaggio indebito, avendo diritto chi abbia offerto una prestazione lavorativa al relativo compenso”.

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