Successione dei soci di società estinta: un'annosa questione all'ennesimo vaglio della Cassazione

19 Luglio 2017

I soci di una società cancellata dal Registro delle Imprese sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla stessa, ma non definiti all'esito della liquidazione, indipendentemente, dunque, dalla circostanza che essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione.
Massima

I soci di una società cancellata dal Registro delle Imprese sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla stessa, ma non definiti all'esito della liquidazione, indipendentemente, dunque, dalla circostanza che essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione. Che i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente neanche ai fini dell'esclusione dell'interesse ad agire del Fisco creditore.

(Fonte: IlTributario.it)

Il caso

L'Agenzia procedeva ad accertamento induttivo di maggiore materia imponibile ai fini IVA, IRAP e imposte dirette in conseguenza dell'omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi per gli anni dal 2003 al 2005 da parte di una S.r.l..

L'Ufficio emetteva pertanto emessi gli avvisi di accertamento per gli anni soggetti a controllo, con i quali procedeva al recupero delle maggiori imposte, oltre sanzioni ed interessi.

La società impugnava gli atti con argomentazioni volte a contrastare nel merito la pretesa dell'Ufficio. La linea difensiva della ricorrente veniva accolta dalla Commissione Tributaria Provinciale e successivamente confermata anche da quella Regionale.

In data 26 ottobre 2012, ossia dopo la pubblicazione della sentenza della CTR, ma prima della proposizione del ricorso per Cassazione da parte dell'Agenzia, veniva depositato il bilancio finale di liquidazione della società accertata, la quale veniva poi cancellata dal Registro delle Imprese.

Nonostante ciò, l'Ufficio impugnava la decisione della CTR intimando sia la società ormai estinta, sia i tre soci (uno di questi anche nella sua veste di liquidatore).

La questione

La Corte è stata chiamata a prendere posizione su un nodo tematico – gli effetti della cancellazione delle società dal Registro – ampiamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza.

Il giudizio di legittimità ha visto prevalere la trattazione di tematiche strettamente processuali, richiedendo un intervento del giudice di legittimità volto a stabilire i criteri di ammissibilità di un ricorso in Cassazione proposto contro i soci a seguito della cancellazione dal Registro Imprese, intervenuta tra un grado e l'altro del processo, della società originariamente parte in causa.

Le soluzioni giuridiche

Il fulcro della controversia ha riguardato il giudizio di ammissibilità del ricorso proposto contro ciascuno dei soggetti intimati dall'Agenzia con il ricorso per Cassazione: società estinta, soci e liquidatore.

Preliminarmente, la Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso proposto nei confronti della società cancellata. Secondo gli Ermellini, la stabilizzazione della posizione giuridica della società derivante dall'applicazione del principio dell'ultrattività del mandato sarebbe venuta meno per effetto dell'evocazione e della costituzione in giudizio dei soci, successori, sia pure sui generis, della stessa (cfr. Cass. civ., ss.uu., 4 luglio 2014, n. 15295; conf., 18 gennaio 2016, n. 710 e 29 luglio 2016, n. 15762).

Ricorso ritenuto invece infondato, per carenza di legittimazione passiva, quello proposto nei confronti del liquidatore. L'Ufficio non può richiedere il pagamento delle obbligazione fiscali al liquidatore in forza di un rapporto giuridico di successione, come invece accade per i soci.

Il liquidatore è infatti chiamato a rispondere di un debito proprio distinto dalla obbligazione tributaria della società, anche se a questa commisurato. La Corte di Cassazione ha più volte stabilito che la responsabilità dei liquidatori ex art. 36 d.P.R. n. 602/1973 dipende strettamente dalla “conseguita certezza e definitività del debito tributario”, con l'osservazione che “l'obbligato è del tutto estraneo al procedimento diretto all'accertamento del debito stesso”.

Conseguentemente, il liquidatore sarà chiamato a rispondere solo in un secondo momento e solo nel caso in cui l'Amministrazione Finanziaria riesca a dimostrare l'esistenza di un debito tributario definitivo in capo alla società, così come avviene nel caso di un avviso non impugnato o di una sentenza passata in giudicato. L'aspetto che più interessa è però quello che coinvolge le sorti del ricorso proposto nei confronti dei soci.

I creditori rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società di capitali dal registro imprese possono, ai sensi dell'art. 2495 comma 2 del Codice Civile, agire nei confronti degli ex soci fino a concorrenza di quanto dagli stessi riscosso in base al bilancio di liquidazione. Principio che, in campo tributario, è contenuto anche all'art. 36 comma 3 del d.P.R. n. 602/1973, il quale prevede che “I soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi d'imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi, salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile. Il valore del denaro e dei beni sociali ricevuti in assegnazione si presume proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio od associato, salva la prova contraria”.

Si tratta di un fenomeno di tipo successorio la cui ampiezza è stata oggetto di ampio e combattuto dibattito in dottrina e giurisprudenza.

In un primo momento la Cassazione (Cass. civ., 16 maggio 2012, nn. 7676 e 7679; Cass. civ., 9 novembre 2012, n. 19453) ha ritenuto che alla suddetta norma potessero essere collegati effetti processuali, stabilendo che il descritto meccanismo successorio fosse limitato all'ipotesi in cui i soci di società di capitali (o il socio accomandante della società in accomandita semplice) avessero goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione, individuando tale condizione come quella da cui sarebbe dipesa la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l'azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società.

Interpretazione che, però, mal si concilia con la necessità di tutelare i diritti dei creditori: sostenere che con l'estinzione della società derivante dalla sua volontaria cancellazione dal Registro delle Imprese si estinguano anche i debiti ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo, significherebbe consentire al debitore di disporre unilateralmente del diritto altrui.

Sul punto, si prenda a riferimento quanto correttamente stabilito dalle Sezioni Unite, sentenze nn. 6070 e 6072 del 12 marzo 2013, “deve escludersi che la cancellazione dal registro, pur provocando l'estinzione dell'ente debitore, determini al tempo stesso la sparizione dei debiti insoddisfatti che la società aveva nei riguardi dei terzi, è del tutto naturale immaginare che questi debiti si trasferiscano in capo a dei successori e che, pertanto, la previsione di chiamata in responsabilità dei soci operata dal citato art. 2495 implichi, per l'appunto, un meccanismo di tipo successorio, che tale è anche se si vogliano rifiutare improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile accostamento tra l'estinzione della società e la morte di una persona fisica. La ratio della norma dianzi citata, d'altronde, palesemente risiede proprio in questo: nell'intento d'impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest'ultimo del suo diritto”.

Pertanto, secondo le Sezioni Unite, il fenomeno successorio dei soci si produrrebbe in ogni caso, con la possibilità di proseguire verso di questi il giudizio promosso ab origine contro la società. L'art. 2495 c. 2 del c.c. (e, in campo tributario, anche l'art. 36 del d.P.R. n. 602/1973) avrebbe quindi efficacia sostanziale, limitando la responsabilità dei soci a quanto eventualmente percepito in sede di riparto (a differenza di quanto accade per i soci di società di persone, che in tale caso subentrerebbero nei debiti sociali con tutto il proprio patrimonio).

Nonostante l'intervento delle Sezioni Unite non sono mancate recenti pronunce della Cassazione che hanno dato reviviscenza al precedente orientamento.

Con la sentenza n. 2444/2017 e le ordinanze nn. 23916/2016 e 13259/2015, la Corte ha nuovamente sostenuto la limitazione del fenomeno successorio al caso in cui gli ex soci abbiano goduto di un riparto quale esito della liquidazione. Sicché, secondo questa interpretazione, gli ex soci potrebbero subentrare dal lato passivo del rapporto di imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso al termine della liquidazione, qualificando questa circostanza quale presupposto necessario per poterne affermare la legittimazione passiva ai fini della prosecuzione del processo.

L'applicazione di tale orientamento avrebbe principalmente due effetti: da un lato, l'inammissibilità dell'appello in CTR o del ricorso per Cassazione proposti dall'Agenzia nei confronti degli ex soci di una società medio tempore estinta senza ripartizione dell'attivo; dall'altro, che, in applicazione dei principi vigenti in materia di onere probatorio, sia gravante sul creditore che voglia agire nei confronti dell'ex socio l'onere di provare che egli abbia beneficiato (e riscosso) parte dell'attivo liquidato con il bilancio finale di liquidazione.

Osservazioni

La Cassazione, con la sentenza qui in commento (successiva alle ultime due citate), è ritornata nuovamente su suoi passi, censurando l'ultimo orientamento citato e dando applicazione a quello coniato dalle Sezioni Unite.

La sentenza n. 9094/2017 contiene un pedissequo richiamo alle sentenze delle Sezioni Unite nn. 6070 e 6072 del 2013, le quali hanno negato che la presenza di una distribuzione di attivo a seguito di liquidazione possa essere considerata causa ostativa al riconoscimento della legittimazione passiva in capo ai soci e, pertanto, alla prosecuzione del processo nei loro confronti del processo originariamente instaurato contro la società poi estinta.

All'opposto, gli ex soci sono sempre destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società estinta ma non definiti al termine della liquidazione, fermo restando il loro diritto di opporre il limite di responsabilità ex art. 2495 comma 2 e art. 63 d.P.R. n. 602/1973.

Inoltre, secondo la Corte, “che i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente neanche ai fini dell'esclusione dell'interesse ad agire del fisco creditore”.

Infatti, pur ammettendo che la circostanza si potrebbe riflettere sul requisito dell'interesse ad agire, non può essere escluso che il creditore possa avere comunque interesse all'accertamento del proprio diritto.

Questo potrebbe avere comunque interesse a proseguire il giudizio nell'ipotesi in cui vi fosse la possibilità, per i soci, di succedere in eventuali rapporti attivi della società non definiti al termine della liquidazione. Si pensi, ad esempio, al caso delle sopravvenienze attive derivanti da crediti della società incerti e non liquidi al momento della liquidazione; oppure a quello di beni o diritti non compresi nel bilancio di liquidazione, i quali si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa.

Sicchè, continuano i giudici, “la possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono di escludere l'interesse dell'Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell'interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti”.

Pertanto, la Corte ha dichiarato l'ammissibilità del ricorso proposto verso i soci quali successori della società, rigettandolo però per l'infondatezza delle censure relative al merito della controversia.

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