Lo scioglimento delle società per sopravvenuta impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale

Niccolò Baccetti
21 Dicembre 2016

Lo scioglimento per impossibilità dell'oggetto sociale o per sopravvenuta impossibilità del suo conseguimento (art. 2484, comma 1, n. 2, c.c.) è tradizionalmente soggetto a criteri di stretta interpretazione in virtù di un'impostazione che, al fondo, tende ad attribuire al principio di conservazione delle attività produttive un rilievo preminente rispetto al diritto del singolo socio al proprio disinvestimento. Tale approccio è messo in discussione nei casi limite in cui l'impresa cade in uno stato di incapacità di proseguire l'attività imprenditoriale per manifesta insufficienza di mezzi propri ovvero, secondo una tesi più recente, per perdita del presupposto della continuità aziendale. All'esito di una ricognizione degli opposti orientamenti interpretativi, il contributo si concentra sul problema delle interferenze che una tale ipotesi dissolutiva può generare sul piano della funzione riorganizzativa o risanatoria dell'impresa affermatasi nell'ordinamento concorsuale.
Introduzione. I criteri tradizionalmente restrittivi nell'interpretazione dello scioglimento per conseguimento dell'oggetto sociale o per sopravvenuta impossibilità di conseguirlo

La dissoluzione delle società capitalistiche non provoca di per sé l'estinzione della società, né implica l'arresto e la disgregazione dell'impresa, posto che la stessa, ove ne ricorrano le condizioni, può continuare a operare come un complesso produttivo in funzionamento anche nella fase di liquidazione (artt. 2486, 2487, comma 1, lett. c., 2490, comma 5, c.c., nonché il principio contabile OIC 5, §3.4.2).

Lo scioglimento altera invece l'assetto dell'organizzazione (art. 2487 c.c.) e causa una rilevante riduzione nello scopo, dando avvio a una vicenda di disinvestimento collettivo governata da un modello di gestione orientato alla conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale (art. 2486 c.c.). Nella liquidazione, in altri termini, la soddisfazione della pretesa residuale dei soci non presuppone più il perseguimento dello scopo lucrativo tramite una gestione che è volta a sviluppare l'attività, assumere nuovo rischio e incrementare il valore dell'impresa. L'ordinamento della società dissolta presiede a una fase di trasformazione economica del capitale investito da strumento produttivo di remunerazione a un complesso di beni destinato alla conversione in denaro liquido (principio contabile OIC 5, §2.1). Si viene così a tutelare l'interesse dei soci a una rapida e vantaggiosa liquidazione del proprio investimento dopo il pagamento prioritario dei creditori, evitando, al contempo, che una tale attività di smobilizzo sia posta in essere con modalità tali da causare una dispersione del valore del patrimonio sociale e, se del caso, anche di quello organizzativo dell'attività imprenditoriale (di recente, cfr. Trib. Roma, 16 febbraio 2016, in questo portale. In dottrina, per tutti, cfr. G. Niccolini, Art. 2484 c.c., in Società di capitali. Commentario, a cura di G. Niccolini-A. Stagno d'Alcontres, III, Napoli, 2004, 1709; G. Ferri jr, La gestione di società in liquidazione, in Riv. dir. comm., 2003, 423 ss.; S. Turelli, Gestione dell'impresa e società per azioni in liquidazione, Milano, 2012, 83 ss.).

In coerenza con il regime applicabile ai contratti associativi (artt. 2272, n. 2, 2611, n. 2, c.c.; ma, con diversa formulazione, v. anche l'art. 27 c.c.), anche nelle società di capitali, lo scioglimento può essere causato dal “conseguimento dell'oggetto” o dalla “sopravvenuta impossibilità di conseguirlo”, secondo uno schema che riconduce l'effetto solutorio a due distinte vicende che producono, per motivi opposti, il venir meno dell'attività comune. Nel primo caso, infatti, l'attività programmata giunge al suo compimento, esaurendo per soddisfazione l'interesse tipico che i soci hanno riposto nel suo svolgimento. Nella seconda ipotesi, invece, la realizzazione del programma negoziale dei soci è impedita da circostanze che escludono la possibilità di proseguire l'attività comune. In entrambi casi, pertanto, la cessazione dell'attività fa venir meno la tutela che l'ordinamento assegna all'interesse comune dei soci alla continuazione del vincolo societario (tra gli altri, cfr. G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni,in Tratt. soc. per az., diretto da G.E. Colombo-G.B. Portale, VII, 3, Torino, 1997, 263, ove si afferma tuttavia l'esigenza di interpretare le cause di scioglimento in base alle caratteristiche della disciplina dissolutiva nei diversi contratti associativi).

Proprio il rilievo di tali eventi solutori su un piano così fondamentale, come quello che attiene all'esaurimento o all'impossibilità dell'attività comune, contribuisce a spiegare l'approccio tendenzialmente restrittivo con cui tali eventi vengono generalmente intesi nell'orientamento tradizionale. Si considerino, anzitutto, le opinioni che tendono a confinare l'ambito di applicazione di tali fattispecie dissolutive alle sole ipotesi in cui lo statuto indichi in modo sufficientemente circostanziato l'attività dedotta nell'oggetto sociale (imprese unius negotii o con oggetto sociale analiticamente indicato), escludendo così, non solo i casi (meno meritevoli) di oggetto sociale generico, ma anche quelli diffusi nella prassi che, per ragioni di funzionalità, tendono a declinare l'oggetto sociale in modo permanente o plurimo (cfr. Trib. Roma, 16 febbraio 2016, cit.; G. Ferri jr.-M. Silva, In tema di conseguimento dell'oggetto sociale e scioglimento delle società di capitali, in Studio del Cons. Naz. Notariato del 9 settembre 2014, n. 237-2014/I, 8 ss.; G. Niccolini, Scioglimento, cit.,265 ss.; P. Balzarini, Art. 2484 c.c., in Scioglimento e liquidazione delle società di capitali. Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti-L.A. Bianchi-F. Ghezzi-M. Notari, a cura di L.A. Bianchi e G. Strampelli, Milano, 2016, 17). Analoghe considerazioni possono tuttavia aiutare a comprendere anche l'opinione che attribuisce rilievo dissolutivo solo a quell'impossibilità (giuridica o materiale) tale da assumere carattere oggettivo, assoluto, irreversibile e definitivo (e che, in via esemplificativa, guarda alle ipotesi di revoca o cessazione dell'autorizzazione amministrativa indispensabile per l'esercizio dell'attività, all'istituzione di una riserva di legge per l'attività esercitata, nonché ad eventi materiali che precludono qualsiasi attività operativa. Cfr., tra le altre, Cass., 15 luglio 1996, n. 6410, in relazione all'art. 2272, comma 1, n. 2, c.c.; Cass., 6 aprile 1991, n. 3602; Cass., 21 luglio 1981, n. 4683; Trib. Roma, 16 febbraio 2016, cit.; Trib. Napoli, 25 maggio 2011, in Società, 2012, 387 ss.; Trib. Lecco, 19 febbraio 2007, in Società, 2008, 1027 ss. In dottrina, tra gli altri, cfr. G. Niccolini, Scioglimento, cit.,268 ss.; G. Ferri jr.-M. Silva, cit., 7; P. Balzarini, cit., 17 ss.).

Se poi si va al fondo di un tale atteggiamento restrittivo, è agevole scorgere anche la preoccupazione che il diritto individuale del socio al disinvestimento finisca per ledere i valori di conservazione delle attività imprenditoriali che emergono in vari e significativi frangenti delle vicende della società dissolta. E tra questi, oltre alla già indicata possibilità di continuazione dell'impresa nella liquidazione, va certamente sottolineato l'intervento della riforma del diritto societario che subordina l'operatività degli eventi dissolutivi qui esaminati alla mancata adozione da parte della assemblea di “opportune modifiche statutarie” idonee a neutralizzare il conseguimento dell'oggetto o la sua impossibilità sopravvenuta (art. 2482, comma 1, n. 2, c.c. In tal senso, tra gli altri, cfr. G. Niccolini, Art. 2485 c.c., in Società di capitali. Commentario, cit., 2485; G. Racugno, Venir meno della continuità aziendale e adempimenti pubblicitari, in Giur. comm., 2010, I, 225-226, nota 96-97; G. Strampelli, Capitale sociale e struttura finanziaria nella società in crisi, Riv. soc., 2012,628, nota 74; M. Centonze, Art. 2484, in Le società per azioni. Codice civile e norme complementari, diretto da P. Abbadessa-G.B. Portale, a cura di M. Campobasso-V. Cariello-U. Tombari, Milano, 2016, 2860). Una soluzione, questa, che, se da un lato incide in modo rilevante sulle competenze inter-organiche e sui doveri dell'organo di gestione nella fase di scioglimento, dall'altro richiama il modo in cui la sequenza dissolutiva si sviluppa nel diverso caso della riduzione del capitale al di sotto del minimo legale (art. 2482, comma 1, n. 4, c.c.), sollevando alcuni problemi applicativi che a tal ultimo riguardo già son stati discussi. Ci si chiede, infatti, se la delibera assembleare modificativa dello statuto operi come condizione sospensiva o risolutiva dello scioglimento (nel primo senso, cfr. F. Di Sabato, Diritto delle società2, Milano, 2005, 547; in relazione alle determinazioni dell'assemblea ex artt. 2447 e 2482-ter c.c., cfr. V. Buonocore, in Manuale di diritto commerciale4, a cura di V. Buonocore, Torino, 2003, 414-415; F. Brizzi, Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Torino,2015, 270 ss., nt. 331. In argomento, cfr. G.B. Portale, Osservazioni sullo schema di decreto delegato (approvato dal Governo in data 29-30 settembre 2012) in tema di riforma delle società di capitali, in Riv. dir. priv., 2002, 716 ss.). Ciò sempreché non s'intenda configurare una fattispecie di scioglimento complessa a formazione progressiva in cui, alla mancata adozione delle modifiche statutarie, si completa l'iter di perfezionamento della causa dissolutiva, con conseguente obbligo degli amministratori d'iscrivere la relativa dichiarazione al registro delle imprese e di determinare l'efficacia dello scioglimento nei confronti dei terzi (cfr. N. Baccetti, La gestione delle società di capitali in crisi tra perdita della continuità aziendale ed eccessivo indebitamento, in Riv. soc., 2016, 578, nt. 19). Infine, tenuto conto dell'ampiezza della formula normativa e dell'indeterminatezza degli eventi che possono condurre allo stato di impossibilità, sembra ragionevole affermare il carattere atipico degli interventi assembleari di neutralizzazione dello scioglimento per conseguimento o impossibilità dell'oggetto che, pertanto, potranno consistere anche nell'adozione di un oggetto sociale diverso, nella modificazione di quello esistente, piuttosto che nell'approvazione di un'operazione straordinaria idonea a rimuovere le cause dell'impossibilità (cfr. G. Niccolini, Art. 2484, cit., 1717; C. Montagnani, Crisi dell'impresa e impossibilità dell'oggetto sociale, in Riv. dir. comm., 2013, I, 253 ss.; G. Racugno, cit., 225, nota 96; G. Ferri jr.-M. Silva, cit., 9; P. Balzarini, cit., 16 ss.; M. Centonze, cit., 2860).

Il problema dello scioglimento per sottocapitalizzazione materiale o per perdita del presupposto della continuità aziendale

L'avanzamento del principio di conservazione delle attività produttive e il conseguente arretramento del diritto del socio al disinvestimento diventano più difficili da giustificare quando, anche in virtù degli incentivi distorti generati dalla responsabilità limitata in prossimità dell'insolvenza, l'attività delle società di capitali viene ad essere esercitata in condizioni tali da risultare irreversibilmente programmata alla distruzione di ricchezza e alla traslazione del rischio di impresa sui creditori e terzi.

Si pone così il problema di comprendere se l'impossibilità di conseguimento dell'oggetto sociale possa costituire una sorta di “clausola generale” in grado di sancire la dissoluzione della società anche per cause soggettive e interne come quelle che si possono verificare quando, per motivi di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, l'impresa societaria cade in uno stato di “impotenza” che si traduce in una vera e propria incapacità di proseguire l'esercizio dell'attività produttiva (una tale prospettiva di analisi può essere ricondotta, già sotto il vigore del cod. comm. del 1882, agli insegnamenti di L. Mossa, La perdita del capitale nella società in nome collettivo ed il suo scioglimento, in Riv. dir. comm., 1936, II, 465 ss.).

Una prima risposta al problema è stata fornita dagli studi in materia di sottocapitalizzazione materiale che, da tempo, hanno affermato l'esigenza di ricondurre all'impossibilità di conseguimento dell'oggetto sociale anche i casi in cui la società risulta dotata di un capitale (o, più in generale, di un livello di mezzi propri) manifestamente insufficiente alla soddisfazione delle esigenze economico-finanziarie dell'attività programmata (cfr. G.B. Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Riv. soc., 1991, 51 ss., e poi in Tratt. soc. per az., diretto da G.E. Colombo-G.B. Portale, I, 2, Torino, 2004, 71 ss., da cui si cita; nonché, tra i numerosi interventi dell'A., più di recente, Id., Capitale sociale e ragionevolezza nelle società di capitali, in G.B. Portale, Lezioni pisane di diritto commerciale, a cura di F. Barachini, Pisa, 2014, 50 ss.; Id., La parabola del capitale sociale nella s.r.l. (dall' «importancia cuasi-sacramental» al ruolo di ferro vecchio»?), in Riv. soc., 2015, 828 ss.; Id., Società a responsabilità limitata senza capitale sociale e imprenditore individuale con "capitale destinato" (Capitale sociale quo vadis?), in Riv. soc., 2010, 1237 ss. In giurisprudenza, cfr. Trib. Monza, 13 novembre 2003, in Società, 2004, 746 ss., con nota di A. Colavolpe, Sottocapitalizzazione “nominale” e “riqualificazione” forzata dei prestiti dei soci alla società in apporti di “capitale a rischio”). Una prospettiva questa che, con l'evoluzione dell'ordinamento societario, ha trovato elementi di coerenza anche nella possibilità di riconoscere valore sistematico ad alcuni principi di diritto dell'impresa desumibili dalla disciplina della postergazione dei finanziamenti anomali dei soci (artt. 2467-2497-quinquies c.c.) e dal vincolo di congruità del patrimonio destinato alla realizzazione dello specifico affare (giuridicamente imprenditoriale) che deve essere determinato in base a un piano economico-finanziario (art. 2447-ter, comma 1, lett. c, c.c.) (cfr. G.B. Portale, Capitale sociale e ragionevolezza, cit., 64-67; Id., La parabola, cit., 831; Id., Dal capitale sociale «congruo» al capitale sociale «zero» nelle società di capitali, in Il nuovo capitale sociale, a cura di I. Capelli-S. Patriarca, Milano, 2016, 9 ss., il quale afferma una più ampia regola di ragionevole capitalizzazione della società, anche in sede di costituzione, da determinarsi secondo una valutazione condotta sulla base delle prassi invalse tra gli operatori del settore e del territorio di volta in volta interessato; ma cfr. anche G. Strampelli, cit., 637-652, ove si configura un dovere degli amministratori - e, se necessario, dei soci - di subordinare la continuazione dell'impresa in crisi al compimento di atti ragionevolmente idonei ad assicurare il riequilibrio della situazione economico-finanziaria, nell'ambito di una soluzione che, pur non implicando necessariamente un divieto di sottocapitalizzazione manifesta, ammette lo scioglimento per perdita della continuità aziendale al fine di perseguire analoghi obbiettivi volti a contrastare la traslazione del rischio d'impresa sui creditori sociali; cfr. altresì F. Briolini, Verso una nuova disciplina delle distribuzioni del netto?, in Riv. soc., 2016, 80 ss., ove si configura un più ampio dovere di subordinare le distribuzioni della società ai soci alla soddisfazione di un solvency test; M. Maugeri, Art. 2327, in Le società per azioni. Codice civile e norme complementari, diretto da P. Abbadessa-G.B. Portale, cit., 165 ss., che accoglie l'orientamento volto ad affermare la responsabilità degli amministratori per aver effettuato distribuzioni ai soci idonee a compromettere irreversibilmente l'equilibrio economico-finanziario della società; Baccetti, cit., 628 ss., ove si delinea la possibilità di ricostruire un dovere degli amministratori di subordinare la continuazione della società in crisi alla pianificazione del riequilibrio economico-finanziario dell'attività la cui sostenibilità implica anche un divieto di sotto-patrimonializzazione manifesta, nonché Id., Creditori extracontrattuali, patrimoni destinati e gruppi di società, Milano, 2009, ss. 540-566, che valorizza i principi di diritto dell'impresa sopra illustrati nell'ambito di una diversa indagine che guarda ai profili di responsabilità dei soci nei confronti dei creditori da torto o involontari in conseguenza dell'esercizio dell'impresa societaria materialmente sottocapitalizzata).

Un secondo e più recente tentativo ha invece preso le mosse dalla constatazione del progressivo indebolimento del capitale sociale quale disciplina posta a difesa del patrimonio netto, secondo un indirizzo di politica legislativa che si è manifestato, tra l'altro, con i principi contabili internazionali, la s.r.l. semplificata (art. 2463-bis c.c.), la s.r.l. a capitale ridotto (art. 2463, comma 4 e 5, c.c.), le start-up innovative (art. 26, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito nella legge 17 dicembre 2012, n. 221), la sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione o scioglimento in caso di accordo di ristrutturazione dei debiti o concordato preventivo (art. 182-sexies l. fall.) e, infine, la deroga alla postergazione per i finanziamenti concessi dai soci in funzione o esecuzione di un accordo di ristrutturazione dei debiti o di un concordato preventivo (art. 182-quater l. fall.). In tale contesto, si è proposto un adattamento della teoria della sottocapitalizzazione in cui il criterio patrimoniale della manifesta inadeguatezza dei mezzi propri rispetto alle esigenze economico-finanziarie dell'attività è sostituito con una valutazione che è esclusivamente fondata sullo squilibrio economico-finanziario dell'affare sociale. Si è così affermata l'esigenza di collegare lo scioglimento per impossibilità dell'oggetto sociale alla perdita del presupposto della continuità aziendale o, se si vuole, al verificarsi di una crisi che rende stabilmente e irreversibilmente antieconomica la prosecuzione dell'attività, con la conseguenza che, al ricorrere di tale circostanza, anche se il patrimonio netto garantisce la copertura del capitale minimo, gli amministratori avrebbero l'obbligo di accertare tempestivamente il verificarsi dell'evento dissolutivo e di proseguire la gestione ai soli fini della conservazione del valore e dell'integrità del patrimonio sociale (art. 2485-2486 c.c.) (cfr., con varietà di argomentazioni, G. Racugno, cit., 223-228; R. Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell'impresa societaria, in Giur. comm., 2014, I, 323 ss.; F. Brizzi, Responsabilità gestorie in prossimità dello stato di insolvenza e tutela dei creditori, in Riv. dir. comm., 2008, I, 1074 ss., 1083-1099; Id., Doveri, cit., 275-291, G. Strampelli, cit., 626 ss.; A.M. Luciano, La gestione della s.p.a. nella crisi pre-concorsuale, Milano, 2016, 168 ss., 176 ss.). Tale costruzione finisce per promuovere una nuova articolazione degli obblighi gestionali in prossimità dell'insolvenza che si fonda sull'alternativa tra risanamento, ricapitalizzazione o scioglimento nell'ambito di una soluzione che presenta profili di coerenza anche con la maggiore flessibilità della fase di scioglimento in seguito agli interventi apportati dalla riforma del diritto societario. Sono a tal proposito valorizzati il venir meno dell'operatività di diritto delle cause di scioglimento, l'obbligo degli amministratori di accertare tempestivamente il loro verificarsi (art. 2485 c.c.), la posticipazione degli effetti dello scioglimento all'iscrizione della dichiarazione nel registro delle imprese (art. 2484, comma 3, c.c.), la sostituzione del divieto di compiere nuove operazioni con la più elastica regola di continuazione dell'impresa (ancorché nei limiti di una gestione conservativa ex art. 2486 c.c.) e, infine, come si è visto, il collegamento dell'effetto dissolutivo alla mancata adozione di opportune modifiche statutarie da parte dell'assemblea (art. 2484, comma 1, n. 2 c.c.).

(Segue) Gli argomenti contrari. Il problema della propagazione della funzione riorganizzativa e risanatoria dell'impresa in diritto concorsuale

Le tesi che riconducono all'impossibilità di conseguimento dell'oggetto sociale anche lo stato di sottocapitalizzazione materiale manifesta o la perdita del presupposto della continuità aziendale, sebbene incontrino oggi crescenti adesioni, continuano a registrare varie resistenze sul piano interpretativo.

Secondo l'argomentazione tradizionale, infatti, “l'impotenza” della società dettata da mezzi patrimoniali manifestamente insufficienti o da condizioni di squilibrio economico-finanziario può soltanto assumere carattere soggettivo e temporaneo, difettando così dei requisiti di oggettività, assolutezza e definitività che devono possedere gli eventi dissolutivi per rendere impossibile il protrarsi dell'attività sociale (di recente, Trib. Roma, 16 febbraio 2016, cit.; Trib. Lecco, 19 febbraio 2007, cit., 1027).

Sempre in una prospettiva critica, inoltre, si afferma che una tale costruzione, da un lato, introdurrebbe rilevanti difficoltà pratiche in relazione alla sindacabilità di un livello congruo di mezzi propri in sede costitutiva in base all'attività astrattamente programmata nell'oggetto sociale, d'altro, si porrebbe in contraddizione con la scelta normativa di attribuire valenza dissolutiva autonoma all'andamento aneconomico dell'attività imprenditoriale solo nel caso in cui la produzione di perdite e l'erosione del patrimonio netto siano tali da ridurre il capitale sociale al di sotto del minimo legale (art. 2484, comma 2, n. 4 c.c.) (tra gli altri, cfr. G. Niccolini, Scioglimento, cit., 273 ss., nonché, di recente, M. Maugeri, cit., 166, a cui si rinvia per ulteriori riferimenti).

Infine, si obbietta che lo scioglimento per sottocapitalizzazione materiale o perdita della continuità aziendale tende a sovrapporre lo scopo all'oggetto, muovendo il rilievo dell'impossibilità dal piano della prosecuzione dell'attività programmata (artt. 2328, comma 2, n. 3; 2463, comma 2, n. 3; 2380-bis, comma 1; 2437, comma 1, lett. a; 2497-quater, comma 1, lett. a, c.c.) a quello della sussistenza delle condizioni necessarie a consentire una gestione lucrativa dell'attività imprenditoriale (in tal senso, cfr. G. Ferri jr-M. Silva, cit., 2 ss.; Montagnani, cit., 252-253, 256-258, nonché Trib. Milano, 21 dicembre 2005, in Società, 2006, 1514, con nota di M. Venuti, ove si esclude lo scioglimento per impossibilità di conseguire l'oggetto sociale in un'ipotesi di insufficiente redditività prospettica della società. Contra, F. Brizzi, Doveri, cit., 294 ss.; Id., Responsabilità, cit., 1095, nota 150; G.B. Portale, Capitale sociale, cit., 73-75, nota 114. In argomento, più in generale, cfr., per tutti, G. Ferri jr, Fallimento e scioglimento della società, in Riv. dir. comm., 2009, I, 8-9, a cui si rinvia per ulteriori riferimenti).

Al di là di tali profili critici, tuttavia, il rilievo più profondo che viene oggi opposto allo scioglimento per impossibilità patrimoniale o economico-finanziaria viene ricavato dalla rimozione della dichiarazione di fallimento dall'elenco delle fattispecie dissolutive delle società di capitali (che la riforma del diritto societario ha attuato al contrario di quanto previsto per le società di persone ex art. 2308 c.c.). Se è infatti affermato che, se la dichiarazione giudiziale di insolvenza non produce più lo scioglimento del vincolo sociale, analoga conclusione dovrebbe valere anche per i casi in cui l'impresa si trova in condizioni di difficoltà di minore gravità, come quelle che contraddistinguono la “stato di crisi” (art. 160 l. fall.), la perdita della continuità aziendale o uno squilibrio soltanto patrimoniale (G. Ferri jr-M. Silva, cit., 4).

Il problema viene così a concentrarsi sui rapporti tra diritto societario e diritto delle procedure concorsuali e giunge a individuare le ragioni della scelta normativa di far sopravvivere la società alla crisi e all'insolvenza nell'esigenza di preservare quella capacità riorganizzativa o risanatoria dell'impresa che ha contraddistinto l'evoluzione del nostro ordinamento concorsuale. Qui basterà ricordare, non solo le caratteristiche degli strumenti di composizione (giudiziale o stragiudiziale) della crisi che, oggi, riconoscono alla società debitrice ampia autonomia di superare la crisi mediante modificazioni straordinarie della propria struttura organizzativa e patrimoniale (artt. 160, 182-bis, 67, comma 3, lett. d, l. fall.), ma anche la stessa disciplina speciale del concordato con continuità aziendale (artt. 182-quinquies e 186-bis l. fall.) e, soprattutto, la promozione dei risanamenti conservativi dell'impresa attuata mediante la sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione e scioglimento in caso di presentazione della domanda di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182-sexies l. fall.). Infine, l'avanzamento della capacità riorganizzativa o risanatoria dell'impresa invade oggi anche l'area del fallimento, come risulta dalla capacità delle società sottoposte a procedure concorsuali di partecipare ad operazioni di fusione, scissione e trasformazione (artt. 2501, comma 2, 2506, comma 4 e 2499 c.c.) e dal possibile rilievo degli aumenti di capitale e di altre operazioni straordinarie nella proposta di concordato fallimentare (art. 124, comma 2, lett. c, l. fall.).

In tale contesto, si viene allora a osservare come una tale propagazione della capacità risanatoria e riorganizzativa dell'impresa nel diritto concorsuale rischi di essere impedita o comunque ostacolata da un'eccessiva anticipazione della soglia dello scioglimento e dalla conseguente applicazione del vincolo di gestione conservativa (art. 2486 c.c.). Lo scioglimento, infatti, avrebbe l'effetto di subordinare le operazioni straordinarie di riorganizzazione dell'impresa e, se del caso, il ripristino della sua normale operatività, alle condizioni imposte dall'ordinamento per la revoca dello stato di liquidazione (2487-ter c.c.), la quale potrebbe essere in concreto ostacolata, sia dalla difficoltà di ottenere il voto favorevole della maggioranza richiesta per le modificazioni statutarie, sia dal diritto di recesso attribuito alle minoranze, sia, infine, dal diritto individuale di opposizione dei singoli creditori (salvo che lo stesso si ritenga assorbito dal diritto dei creditori di votare la proposta di concordato e di opporsi alla sua omologazione. In tal senso, tra gli altri, cfr. F. Guerrera-M. Maltoni, Concordati giudiziali e operazioni societarie di «riorganizzazione», in Riv. soc., 2008, 44-48; V. Calandra Bonaura, La gestione societaria dell'impresa in crisi, in Società, banche e crisi di impresa, Liber Amicorum Pietro Abbadessa, diretto da M. Campobasso-V. Cariello-V. Di Cataldo-F. Guerrera-A. Sciarrone Alibrandi, III, Torino, 2014, 2607-2608, 2612).

(Segue) Carattere reversibile o irreversibile della perdita del presupposto della continuità aziendale

Così inquadrata la questione, appare chiaro che il grado d'interferenza dello scioglimento per sottocapitalizzazione manifesta o perdita della continuità aziendale sulla funzione riorganizzativa e risanatoria dell'impresa in crisi dipende, in ultima istanza, dalle caratteristiche dello squilibrio a cui s'intende collegare lo scioglimento. E se tale interferenza tende ad assumere maggior rilievo ove l'impossibilità sia collegata a un'insufficienza patrimoniale che ancora non si è tradotta in crisi o insolvenza (ma v. al riguardo anche le indicazioni già richiamate desumibili dagli artt. 2467, comma 2 e 2447-ter, comma 1, lett. c, c.c.), un discorso a parte merita di essere riservato all'eventuale effetto dissolutivo che si potrebbe attribuire alla perdita della continuità aziendale. Occorre, infatti, comprendere se, in tale costruzione, l'effetto dissolutivo venga ricondotto a uno squilibrio economico-finanziario reversibile o irreversibile.

In base a un'analisi dei principi contabili e di revisione (cfr. i principi contabili IAS 1, §§25-26 e OIC 5, §§2.2, 2.3, 7, nonché il principio di revisione ISA Italia n. 570), è stato osservato come il presupposto della continuità aziendale richieda un giudizio prospettico volto a valutare “la capacità dell'impresa di continuare a operare come un'entità in funzionamento” nel “prevedibile futuro” (normalmente 12 mesi). Ai fini di tale giudizio, possono essere riscontrati indicatori di squilibrio economico-finanziario, gestionali o di altro tipo che sollevano “dubbi significativi” sulla capacità dell'impresa di operare in condizioni di normale funzionamento. La rilevanza delle incertezze che mettono in pericolo la continuità aziendale, tuttavia, dipende anche dalla possibilità di superare o contenere i riscontrati fattori di rischio con la pianificazione gestionale di adeguate misure correttive. In caso di incertezze collegate a uno squilibrio economico-finanziario, infatti, la ragionevole possibilità di portare a termine una manovra di risanamento può consentire la conservazione del going concern.

Ne consegue che, di fronte a uno squilibrio economico-finanziario che minaccia in termini significativi la continuità aziendale, l'abbandono del going concern non opera tutte le volte in cui sussistono ragionevoli prospettive di definire e portare a termine una manovra di risanamento idonea a ripristinare l'equilibrio dell'attività imprenditoriale. L'abbandono del presupposto della continuità aziendale, invece, sembra doversi affermare quando l'impossibilità di operare per ragioni di squilibrio economico-finanziario diventa più grave e irreversibile, eventualmente anche per gli effetti di un tentativo di risanamento non andato a buon fine. Si guarda, in altri termini, alle ipotesi in cui l'insufficienza dei mezzi finanziari disponibili è accompagnata dalla revoca dei fidi, dall'accelerazione dell'indebitamento esistente, dal venir meno di ogni moratoria nella sua esigibilità e, più in generale, dalla sostanziale incapacità della società di reperire credito o sostegno finanziario presso soci o terzi (cfr., tra gli altri, G. Racugno, cit., 216-217; R. Sacchi, cit., 327; F. Brizzi, Responsabilità, cit., 1093; Id., Doveri, cit., 267, nonché Baccetti, La gestione, cit., 587 ss.).

Tale posizione sembra trovare accoglimento anche nei recenti orientamenti del Tribunale di Milano, per il quale il giudizio prognostico sulla continuità aziendale risulta fondato, non solo sulla “rilevazione di uno o più eventi assunti come potenzialmente indicativi di una situazione di carenza di continuità”, ma anche sulla “esistenza e credibilità di un piano, approntato dagli amministratori, per fronteggiare adeguatamente gli eventi suindicati e risolverli o neutralizzarli definitivamente per un periodo di tempo significativo (tendenzialmente almeno 12 mesi)”. Ai fini dello scioglimento, pertanto, non sono ritenuti sufficienti gli eventi che pongono in dubbio la continuità aziendale, dovendosi invece “valutare la capacità della società di dare una soluzione a tali problematiche, ovviamene anche considerando l'atteggiamento dei terzi – fornitori, finanziatori ma anche governance - i cui comportamenti e decisioni sono in rapporto di causalità con quegli eventi, e, in particolare con la loro neutralizzazione/soluzione/sospensione prolungata” (così Trib. Milano, 19 aprile 2016, in Ilsocietario, agosto 2016, ove un'azione di accertamento dell'intervenuto scioglimento ex art. 2484, comma 1, n. 2 e 4, c.c., motivata anche in base a un'asserita perdita della continuità aziendale, è stata respinta all'esito di un accertamento che, nel merito, ha confermato la conservazione del going concern in virtù di una moratoria di fatto nell'esigibilità dell'indebitamento scaduto che è stata concessa dalle banche finanziatrici alla società debitrice in pendenza di trattative sulla ristrutturazione del debito. Cfr. tuttavia anche Trib. Milano, 7 maggio 2012, in Società, 2012, 839, in cui si è affermato che la perdita del presupposto della continuità aziendale può essere neutralizzata anche tramite operazioni oggetto di un piano attestato ex art. 67, comma 3, lett. d, l. fall. o di un accordo di ristrutturazione del debito ex art. 182-bis l. fall.).

Conclusioni

E' ancora oggi dibattuto se la dissoluzione delle società di capitali possa essere causata da una sottocapitalizzazione materiale manifesta o dalla perdita del presupposto della continuità aziendale quali eventi che rendono impossibile il conseguimento dell'oggetto sociale (art. 2484, comma 2, n. 2 c.c.).

Oltre a una serie di obbiezioni tradizionali che attengono alla natura e alla portata che l'evento di impossibilità deve assumere ai fini dissolutivi, i profili di maggior problematicità di tale soluzione sembrano oggi attenere all'interferenza di una tale ipotesi dissolutiva con la piena espressione della capacità riorganizzativa e risanatoria dell'impresa che si è andata affermando nel diritto concorsuale.

Con particolare riferimento alla perdita della continuità aziendale, tuttavia, la soluzione che tende a confinare il rilievo di tale circostanza solo quando essa assume carattere definitivo e irreversibile avrebbe l'effetto di escludere possibili ricadute negative sulla perseguibilità di operazioni risanamento in continuità tramite procedure di composizione concordata della crisi (che, in tale costruzione, sarebbero compiute quando ancora la società opera in condizioni di normale funzionamento). Un eventuale scioglimento per perdita irreversibile della continuità aziendale non potrebbe invece escludere possibili interferenze con le opportunità di riorganizzazione straordinaria dell'impresa insolvente che dovessero emergere nel fallimento.

Per le medesime ragioni, tuttavia, tale soluzione non appare particolarmente idonea a promuovere un'adeguata prevenzione dell'insolvenza e del dissesto. Se infatti il rilievo dissolutivo della perdita della continuità aziendale dovesse operare solo quando ogni ragionevole prospettiva di composizione della crisi viene meno, gli obblighi degli amministratori di dichiarare lo scioglimento e di limitarsi a una gestione conservativa dell'impresa (art. 2485-2486 c.c.) tenderebbero a emergere solo quando lo squilibrio economico-finanziario è degenerato in insolvenza o è ormai prossimo a tale condizione. Si tratterebbe, quindi, di una soluzione che, sotto il profilo della tutela dei creditori sociali, andrebbe sostanzialmente a rappresentare un'alternativa a quegli orientamenti che dalla disciplina penale della bancarotta (artt. 217, comma 1, n. 4 e 224 l. fall.) desumono una responsabilità civile degli amministratori per non aver richiesto in modo tempestivo la dichiarazione di fallimento o, comunque, per non aver diligentemente attivato le procedure e gli strumenti di composizione dell'insolvenza che sono offerti dall'ordinamento concorsuale (cfr. Cass., 27 febbraio 2002, n. 2906; Trib. Napoli, 24 aprile 2003, in Fall., 2004, 1225; Trib. Milano, 18 ottobre 2007, in Società, 2008, 1521 ss. In dottrina, con varietà di soluzioni, cfr., tra gli altri, H. Hirte-A. Vicari, La responsabilità degli amministratori di società di capitali verso i creditori in caso di omessa o ritardata presentazione della richiesta di fallimento al tribunale, nel diritto tedesco e italiano, in Giur. comm., 1997, II, 381 ss.; A. Vicari, I doveri degli organi sociali e dei revisori in situazioni di crisi di impresa, in Giur. comm., 2013,I, 134 ss.; Id., I finanziamenti delle banche a fini ristrutturativi, in Giur. comm., 2008, I, 500 ss.; G. Guizzi, Responsabilità degli amministratori e insolvenza: spunti per una comparazione tra esperienza giuridica italiana e spagnola, in Studi in onore di Umberto Belviso, II, Bari, 2011, 1235 ss.; M. Miola, Riflessioni sui doveri degli amministratori in prossimità dell'insolvenza, in Studi in onore di Umberto Belviso, I, Bari, 2011, 619 ss. Contra, v. ora F. Brizzi, Doveri,cit., 323 ss., a cui si rinvia per ulteriori riferimenti).

Anche in caso di scioglimento per perdita della continuità aziendale, quindi, resta l'esigenza di ricostruire uno statuto dei doveri dell'organo di gestione in prossimità dell'insolvenza sulla base di altri indici normativi rinvenibili nel diritto delle società e delle imprese in crisi (per tale ricostruzione e ulteriori riferimenti, cfr., di recente, N. Baccetti, La gestione, cit., 599 ss.).

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