Danno e criterio del patrimonio netto fallimentare
19 Febbraio 2016
Massime
In ipotesi di prosecuzione dell'attività sociale dopo l'avveramento della causa legale di scioglimento costituita dalla riduzione, per perdite, del capitale al di sotto del minimo legale, il pregiudizio imputabile agli organi sociali non può essere quantificato, neppure in assenza di scritture contabili, in misura pari al c.d. deficit fallimentare oppure al risultato dipendente dal generico confronto tra la situazione patrimoniale alla data di perdita del capitale e quella fallimentare, essendo, per contro, necessario dimostrare la specifica violazione dei doveri gestori o di controllo e la dipendenza, oggettiva e soggettiva, da questa violazione del pregiudizio subito dalla società e dai creditori (Cassazione)
Il danno da illecita prosecuzione dell'attività sociale in presenza di una causa di scioglimento consiste nell'aggravamento della c.d. perdita netta, vale a dire dell'erosione del patrimonio netto per effetto di una continuazione dell'attività aziendale, non meramente conservativa, senza potersi fare ricorso, quale criterio di quantificazione del relativo pregiudizio, alla differenza tra attivo e passivo fallimentare, giacché essa attiene a due grandezze che non sono riconducibili alla condotta illecita degli organi di gestione o di controllo, il passivo fallimentare include posizioni debitorie anteriori al verificarsi dello stato di scioglimento, e l'attivo fallimentare è frutto anche della condotta recuperatoria e/o liquidatoria del curatore. (Tribunale)
In caso di ritardata dichiarazione d'insolvenza, dipendente dalla presentazione di una domanda di concordato preventivo in luogo di un'istanza di fallimento in proprio, il curatore ha l'onere di dimostrare che la procedura concorsuale minore sia impercorribile secondo un giudizio di prognosi ex ante e che la sua attivazione abbia determinato un aggravio della perdita, con conseguente imputabilità oggettiva e soggettiva della maggiore erosione patrimoniale quale conseguenza immediata e diretta della ritardata pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento. (Tribunale) I casi
Nell'ambito di un'azione di responsabilità promossa nei confronti dell'amministratore unico di una società a responsabilità limitata, il curatore chiede che questi sia dichiarato responsabile della violazione del divieto, imposto dall'art. 2449 c.c. (nel testo anteriore riforma del diritto societario) di compiere nuove operazioni sociali dopo il verificarsi della causa di scioglimento costituita dalla riduzione, per perdite, del capitale sociale al di sotto del minimo legale, e sia condannato al risarcimento del danno causato alla società stessa, indicato nella differenza fra il passivo e l'attivo fallimentare. Il Tribunale dichiara la responsabilità dell'amministratore unico, condannandolo al risarcimento del danno in misura corrispondente al patrimonio netto fallimentare. La Corte d'Appello conferma la decisione anche sul presupposto che, al momento del verificarsi della causa di scioglimento, vi era un sostanziale equilibrio tra attivo e passivo della gestione, con la conseguenza che l'avversarsi di un aggravamento del deficit patrimoniale al momento della dichiarazione di fallimento dipendeva in via immediata e diretta dal comportamento illecito dell'amministratore unico. La Suprema Corte di Cassazione boccia questo ragionamento ed annulla la decisione della Corte d'Appello per non aver quest'ultima verificato se e per quali ragioni l'insolvenza sia effettivamente conseguenza delle condotte gestionali dell'amministratore unico, nonché se e per quali ragioni l'accertamento del nesso di causalità materiale tra queste condotte ed il danno allegato dal curatore sarebbe precluso dall'insufficienza delle scritture contabili sociali. La vicenda oggetto della pronuncia del Tribunale di Milano riguarda un'azione di responsabilità promossa da un curatore nei confronti di amministratori, liquidatore e sindaci di una società a responsabilità limitata sul presupposto della prosecuzione illecita dell'attività sociale in presenza di una causa di scioglimento e del ritardo nella dichiarazione dello stato di insolvenza, quest'ultimo dipendente dalla presentazione di una domanda di concordato preventivo ritenuta impercorribile ab origine, con finale richiesta di risarcimento di un danno pari alla differenza tra attivo e passivo fallimentare. Il Tribunale, dopo aver chiarito che le responsabilità degli organi sociali vanno scrutinate in base al periodo temporale di rispettiva permanenza in carica, esclude l'applicabilità del criterio del c.d. deficit fallimentare per quantificare tanto il danno da illecita prosecuzione dell'attività sociale in presenza di una causa di scioglimento legale, quanto il danno prodotto da un'attività di liquidazione negligente, argomentando che il primo va parametrato alle effettive conseguenze di una prosecuzione aziendale non conservativa ed il secondo al minor differenziale negativo che si sarebbe registrato tra l'inizio della liquidazione e la data di dichiarazione di fallimento, al netto dell'incremento di perdita che si sarebbe comunque verificato se la società avesse subito proposto istanza di fallimento in proprio. Il Tribunale esaminati anno per anno gli ultimi bilanci prima della dichiarazione di fallimento, avvenuta il 17 novembre 2011, sulla base della consulenza tecnica d'ufficio esperita nel corso di causa, rigetta le argomentazioni della Curatela che aveva preteso d'individuare nell'approvazione del bilancio dell'anno 2008 il momento in cui la società doveva essere messa in liquidazione, azzerando ex post un credito e le rimanenze finali di magazzino che invece in allora la società aveva ancora valorizzato; il Giudice rileva la correttezza e conformità al Principio contabile OIC 13 di tali poste, giungendo alla conclusione che gli amministratori non avevano ritardato la messa in liquidazione della società dal momento che il bilancio al 31.12.2008 aveva registrato un, seppur minimo, utile, mentre, a seguito dell'approvazione del bilancio al 31.12.2009, la società era stata posta in liquidazione. Il Tribunale, anche sulla base delle risultanze peritali acquisite agli atti di causa, respinge la domanda del curatore sul presupposto che i dati di bilancio non evidenziano una ritardata liquidazione, il liquidatore nell'adottare in sede concordataria lo schema del c.d. affitto ponte cessione ha operato una scelta gestoria coerente con la finalità liquidativa e migliore rispetto ad una diversa ipotesi di cessione atomistica dei beni aziendali, e non è stato provato che le condizioni di accesso alla procedura concordataria fossero irrealizzabili secondo un giudizio di prognosi ex ante. Le questioni giuridiche
I provvedimenti affrontano la delicata, e molto discussa, questione della quantificazione del danno nell'azione di responsabilità promossa da una curatela fallimentare, statuendo il principio secondo cui chi agisce in giudizio deve dimostrare il danno ed il suo collegamento causale con le condotte contestate all'organo gestorio o di controllo di una società dichiarata fallita, con finale impossibilità d'imputare a titolo risarcitorio, ed in difetto di prova contraria, l'intero deficit fallimentare, giacché esso rappresenta una grandezza qualitativa e quantitativa inidonea a rappresentare le conseguenze della violazione dei doveri amministrativi, liquidativi e sindacali. Osservazioni
La questione della quantificazione del danno imputabile ad un amministratore o ad un sindaco nell'azione di responsabilità promossa da una curatela fallimentare rappresenta da sempre un tema controverso, anche perché manca una disciplina specifica di riferimento. Al riguardo, è bene muovere dalla premessa per cui il promotore di un giudizio ai sensi dell'art. 146 l. fall. è richiesto di: identificare chi, tra i componenti degli organi di gestione e di controllo, sia oggettivamente e soggettivamente responsabile di ogni singolo addebito mosso e delle conseguenze patrimoniali arrecate alla società ed al ceto creditorio; indicare quale sia l'esatto momento in cui ciascun convenuto avrebbe dovuto o comunque potuto, secondo il criterio della diligenza amministrativa o sindacale, percepire il denunciato stato di dissesto della società poi dichiarata fallita; precisare la quantificazione del pregiudizio imputato a ciascun convenuto; indicare, qualora vi siano più soggetti ritenuti responsabili e costoro siano stati in carica durante periodi non omogenei, la quota di pregiudizio imputabile in via esclusiva alla condotta di ognuno di essi, dimostrare l'elemento oggettivo del nesso tra le condotte effettivamente ascrivibili ed i danni che ne sono derivati in rapporto di causalità necessaria; e non ultimo dare evidenza certa d'un dolo o, quanto meno, d'una colpa qualificata del soggetto ritenuto responsabile. In questa prospettiva, la quantificazione del pregiudizio va ricondotta nell'alveo delle norme dettate dal legislatore in materia di danno risarcibile, dovendosi rammentare che l'art. 1223 c.c. fissa il contenuto dell'obbligazione risarcitoria nella perdita subita (c.d. danno emergente) e nel mancato guadagno (c.d. lucro cessante) che siano conseguenza immediata e diretta di un comportamento illecito. Facendo propri questi rilievi e con riferimento al caso specifico, la giurisprudenza di legittimità è pervenuta alla conclusione, generalmente condivisa, per cui il danno risarcibile dev'essere determinato sulla base delle conseguenze immediate e direttedelle violazioni contestate ad amministratori o sindaci e che tale danno vada calcolato in misura pari alla diminuzione patrimoniale effettivamente sofferta dalla società poi dichiarata fallita. In altre parole, al fine di procedere alla verifica di quale sia la concreta conseguenza di una condotta amministrativa o sindacale pregiudizievole, è necessario scindere l'accertamento del rapporto tra comportamento ed evento dannoso dall'accertamento del danno risarcibile, attraverso una comparazione tra la situazione che si è verificata in conseguenza dei fatti scrutinati e la situazione che si sarebbe verificata in loro assenza. Con il che, il danno risarcibile da amministratori e sindaci è quello causalmente riconducibile alla loro condotta colposa o dolosa ed entro tale limite comprende, secondo i principi generali, il danno emergente ed il lucro cessante, dovendo essere in concreto commisurato al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, attivo od omissivo, non fosse stato posto in essere. Nel tempo si sono affermati e sono stati smentiti numerosi orientamenti sul tema della quantificazione del danno nel corso di un'azione di responsabilità fallimentare. La situazione che nella pratica ricorre con maggiore frequenza è quella di una responsabilità degli organi sociali per l'indebita prosecuzione dell'attività sociale in presenza di una causa di scioglimento della società e per il conseguente aggravamento del dissesto, contemplata un tempo dall'art. 2449 c.c. e, dopo la riforma, dal combinato disposto degli artt. 2485 e 2486 c.c. Rispetto a tale specifica ipotesi si è fatto, nel tempo, ricorso sostanzialmente a tre criteri: il criterio tradizionale del c.d. patrimonio netto fallimentare, il criterio della c.d. differenza tra patrimoni netti (i.e., quello alla data di ritenuta perdita del capitale sociale e quello fallimentare) ed il criterio equitativo. (per un approfondimento sul tema, si rinvia al Focus “Danno azionabile contro amministratori e sindaci: condizioni e limiti di applicazione del criterio del patrimonio netto fallimentare”, in questo portale). Il Tribunale di Milano ha dimostrato di aderire all' impostazione in base alla quale, ove si contesti ad amministratori e sindaci l'aggravamento del dissesto, non si dovrebbe cercare, ad ogni costo, una regola di calcolo generale, ma bisognerebbe probabilmente procedere, anche su base equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., ad una simulazione di “liquidazione virtuale”, accertando se e quali oneri passivi sarebbero comunque maturati anche in caso di tempestivo arresto dell'attività aziendale, onde calcolare esattamente il pregiudizio da indebita prosecuzione e collegarlo causalmente alla condotta dei soggetti ritenuti responsabili. Così, nella sentenza in commento si è valutata la condotta del liquidatore che, prima di richiedere il fallimento della società, aveva cercato di addivenire alla cessione dell'azienda all'esito di una procedura di concordato preventivo, trattandosi ex ante di “una scelta ispirata a criteri ordinari di diligenza e prudenza in vista del conseguimento dell'interesse sociale e dei creditori, poiché, come è noto, avrebbe permesso di realizzare un prezzo dalla vendita dell'azienda sicuramente superiore a quello che si sarebbe potuto realizzare con il fallimento della società”. Il metodo di calcolo del c.d. patrimonio netto fallimentare ha continuato, ancora di recente, a trovare un suo riconoscimento in alcune situazioni specifiche, vale a dire in presenza di contabilità tenuta in modo irregolare, in sua completa assenza od ancora in ipotesi di configurabilità di una contestazione di causazione del dissesto (anche, ad esempio, per avere compiuto per un lungo arco di tempo operazioni in data successiva alla perdita del capitale sociale). E' alle prime due fattispecie che occorre avere specifico riguardo, anche perché, ai fini della quantificazione del danno, qualora sia oggettivamente impossibile valutare l'esatto disavanzo della società al momento della dichiarazione di insolvenza a causa di carenze gestionali imputabili agli stessi organi responsabili, potrebbe essere ritenuto legittimo il ricorso al criterio equitativo di cui all'art. 1226 c.c. e, nell'applicazione di tale criterio, la considerazione del parametro rappresentato dalla differenza tra attivo e passivo della procedura concorsuale. Ora, alla luce della constatazione per cui la mancanza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili non è soltanto segno di grave inadempimento degli amministratori o dei sindaci, ma può anche generare l'impossibilità per il curatore di ricostruire le vicende societarie e di ricavarne l'effettivo danno imputabile alla condotta dei responsabili, occorre domandarsi se ed a quali condizioni possa ancor oggi trovare applicazione il criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare. Sul punto, è possibile riscontrare l'esistenza di due orientamenti. Il primo in base al quale la totale mancanza di contabilità sociale, o la sua tenuta in modo sommario o non leggibile, è di per sé giustificativa della condanna di un amministratore o di un sindaco al risarcimento del danno, giacché la violazione del dovere della regolare tenuta delle scritture contabili, essendo idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale e non consentendo all'attore in responsabilità di dimostrare il nesso di causalità, giustifica l'inversione dell'onere probatorio di questo nesso e, quindi, l'attribuzione all'amministratore od al sindaco che non sia a lui imputabile il dissesto. Il secondo in base al quale l'applicazione del creditore del “netto fallimentare” è giustificabile se e nella misura in cui, all'esito di un giudizio presuntivo che poggi su di una rigorosa ricostruzione cronologica e di una valutazione eziologica delle vicende causative del dissesto, il giudice ritenga che la differenza tra attivo e passivo fallimentare sia il frutto di comportamenti illegittimi posti in essere dagli organi sociali, integranti violazione dell'obbligo di regolare tenuta delle scritture contabili e del divieto di proseguire l'attività aziendale in presenza di una causa di scioglimento legale. Il contrasto giurisprudenziale appena evidenziato ha di recente portato ad interpellare le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affinché chiarissero, data l'importanza della questione di diritto e le sue ricadute su numerose controversie giudiziali, le condizioni e i limiti di applicabilità del criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare nelle azioni di responsabilità promosse da una curatela fallimentare; e ciò anche considerato il principio, espresso nella diversa materia della responsabilità medica, per cui la difettosa tenuta d'una cartella clinica consente, ove risulti provata l'idoneità della condotta del medico a provocare l'evento lesivo, il ricorso alla presunzione sulla sussistenza del nesso causale, esattamente come accade in ogni altra situazione in cui la prova di un fatto non possa essere fornita per un comportamento ascrivibile alla parte contro la quale questo fatto viene contestato. I Giudici di legittimità, nel comporre il contrasto interpretativo sul quale sono stati chiamati a pronunciarsi, con la sentenza n. 9100 del 2015, hanno anzi tutto correttamente constatato che i doveri imposti dalla legge, dallo statuto e dall'atto costitutivo ad un amministratore sono molteplici, risultando in alcuni casi definiti (ad esempio, rispetto alla tenuta delle scritture contabili ed al divieto di agire in concorrenza sleale) ed in altri, e maggiori casi, non definiti, dipendendo in larga misura dalla circostanza che l'amministratore è preposto alla gestione dell'attività aziendale e pertanto deve compiere con diligenza tutto quanto è necessario perché questa gestione sia corretta. Di qui, la successiva constatazione per cui è logico parlare di danno, oltre che di nesso tra questo e la condotta amministrativa, soltanto se sia prima chiarito quale sia il comportamento contestato al gestore di un'impresa e quale violazione questo comportamento abbia concretamente integrato, con il conseguente e corretto corollario per cui l'inadempimento di un'obbligazione c.d. di comportamento non può desumersi da qualunque inadempimento, ma soltanto da quello che si ponga in rapporto di efficienza causale o concausale con il danno di cui si chiede la liquidazione. Su questa base, le Sezioni Unite hanno quindi sindacato se la mancanza di scritture contabili della società, pur se dipendente da una condotta negligente amministrativa, sia da sé sola idonea a consentire che il danno risarcibile vada individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, dando una risposta sostanzialmente negativa sul presupposto per cui, anche in questo caso specifico, non sarebbe logicamente corretto imputare a titolo risarcitorio quote di perdite patrimoniali che potrebbero essere maturate prima della manifestazione di una situazione di crisi e quote di perdite patrimoniali posteriori che comunque sarebbero insorte anche in caso di immediato arresto dell'attività aziendale. Su questo medesimo filone interpretativo si inseriscono i provvedimenti in commento, i quali hanno evidenziato che il danno, malgrado la responsabilità dell'organo gestorio o di controllo, non può essere calcolato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, giacché questo significherebbe imputare una responsabilità oggettiva per il solo fatto che la una società sia caduta in dissesto, con l'ulteriore aggravante di addebitare, a titolo di colpa, anche le perdite d'esercizio dovute ad una “normale” crisi aziendale. Fermi questi principi, è sicuramente utile, anche alla luce delle mende che sono state mosse ai promotori delle due azioni oggetto delle decisioni qui in esame, verificare quale debba essere il contenuto di un atto introduttivo di un giudizio di responsabilità fallimentare, essendo essenziale, anche considerata l'oggettiva complessità tecnica della materia, offrire al Tribunale un quadro che risulti il più possibile strutturato, completo e lineare. Tutto ciò non solo e non tanto nella prospettiva di conseguire una sentenza favorevole, quanto soprattutto di delimitare esattamente il perimetro delle contestazioni in funzione delle operazioni peritali che, di regola, vengono disposte e soprattutto della ricerca di un accordo transattivo che, come si è avuto modo di avvertire, rappresenta pur sempre il miglior risultato nell'interesse della massa dei creditori concorsuali. Senza che quanto segue abbia una valenza scientifica, costituendo la semplice proposizione di uno schema tratto dall'esperienza giudiziale, va detto che l'atto introduttivo di un giudizio di responsabilità, a prescindere dal fatto che abbia forma di ricorso cautelare oppure di atto di citazione ordinario, dovrebbe compendiarsi di almeno sette paragrafi, di cui i primi quattro da allocare nella sezione rappresentativa del “fatto” e gli altri tre da allocare invece nella sezione rappresentativa del “diritto”. In particolare e quanto al “fatto”. Il primo paragrafo dovrebbe essere dedicato all'anagrafica della società con indicazione di quale sia la denominazione, la sede, l'oggetto principale, il capitale ed i suoi soci, specificandosi le rispettive quote di partecipazione al capitale e la ricorrenza di un'ipotesi di direzione e coordinamento. Il secondo paragrafo dovrebbe individuare gli organi sociali, precisando quale sia il modello di gestione (tradizionale, dualistico o monistico) ed il modello di controllo (sindaco unico o collegio sindacale), con precisazione se vi siano un revisore contabile oppure una società di revisione, eventuali amministratori di fatto, un direttore generale e, in base allo stato della società, un liquidatore. Con particolare riferimento agli organi di gestione e controllo, andrebbe chiarito quale fosse lo specifico ruolo di ciascuno (i.e., presidente del consiglio di amministrazione, amministratore delegato, consigliere di amministrazione, presidente del collegio sindacale, sindaco effettivo, sindaco supplente eventuale subentrato ad un sindaco effettivo), adottando l'accorgimento, anche ai fini della quantificazione del danno, di collocare la data di entrata in carica alla data di iscrizione di accettazione della nomina presso il competente Registro delle Imprese e la data di cessazione della carica alla data di ricezione o, comunque, di conoscenza legale da parte della società della causa di scioglimento (ad esempio, dimissioni) del rapporto di gestione o di controllo. In questo modo, dovrebbero potersi evitare eventuali contestazioni circa l'imputazione di pregiudizi maturati in periodi in cui il soggetto interessato non era stato effettivamente in carica. Il terzo paragrafo dovrebbe contenere, ove si muova dalla contestazione di prosecuzione dell'attività sociale dopo l'avveramento di una causa di scioglimento legale, l'indicazione della data di assunta perdita dal capitale sociale, normalmente indicando il 31 dicembre dell'anno in cui si assume che il patrimonio netto si sia eroso al punto tale da rendere integrata la fattispecie di cui all'art. 2447 c.c. oppure di cui all'art. 2482-ter c.c. A tanto andrebbe fatta seguire la proposta di riclassificazione dei bilanci sociali con decorrenza dalla data di assunta perdita del capitale, chiarendo le specifiche rettifiche apportate, le motivazioni di queste rettifiche sulla base dei principi contabili ed una tabella di confronto, esercizio per esercizio, del confronto tra i dati approvati e quelli riclassificati, in modo tale dare evidenza della progressione del dissesto imputabile. Il quarto paragrafo dovrebbe rappresentare quali sono le risultanze del patrimonio fallimentare, con distinzione tra passivo, sulla base delle risultanze delle verifiche condotte sino a quel momento, ed attivo, sulla base dei rendiconti periodici predisposti sino a quello stesso momento, con la necessaria avvertenza che i relativi dati devono intendersi provvisori e soggetti a variazione, in aumento ed in variazione, in rapporto allo svolgimento della procedura concorsuale tanto con riferimento all'ipotesi di registrazione di maggior passivo eventualmente in dipendenza di istanze di insinuazione tardive od ultra tardive, quanto con registrazione di maggior attivo eventualmente in dipendenza di vendite di beni appresi alla massa oppure di risultati positivi di gestione in termini di recupero crediti o di fruttuoso esperimento di azioni giudiziali. Tutto ciò in funzione della successiva proposizione della quantificazione del danno che si ritiene di imputare nei confronti degli organi di gestione e di controllo di un ente collettivo che sia stato dichiarato fallito. Con i dati che sono stati appena rappresentati, la sezione del “fatto” potrebbe ritenersi completa, essendo utile a questo punto procedere alla valutazione degli ulteriori paragrafi in rapporto alla diversa sezione del “diritto”. Il quinto paragrafo andrebbe dedicato all'esatta individuazione delle condotte amministrative, sindacali o revisionali ritenute censurabili, attraverso l'articolazione di sotto paragrafi destinati ad esaminare separatamente gli atti e/o i fatti, attivi e/o commissivi, di singoli organi, con distinzione di questi atti e/o fatti in rapporto ai singoli esercizi successivi alla data in cui sia stata assunta la perdita del capitale sociale, specie se la contestazione principale mosse è quella di prosecuzione dell'attività sociale in data posteriore all'avveramento di una causa legale di scioglimento. In questo paragrafo e nei relativi sotto paragrafi è essenziale riuscire ad essere il più analitici possibile, individuando singole e specifiche condotte, con evidenza che la loro identificazione e scrutinio in termini di responsabilità è tratta dai libri sociali, e su tutti dal libro del consiglio di amministrazione e/o dal libro delle adunanze del collegio sindacale. In questa prospettiva, risulta molto utile verificare se e quali motivazioni siano state adottate determinate decisioni, nonché se ed in quale modo siano stati costruiti i verbali delle adunanze del collegio sindacale, rammentando che è molto frequente assistere per molti anni a report seriali che, in prossimità della dichiarazione di fallimento, lasciano il passo a verbali molto più articolati e ricorrenti con rappresentazione di una sorta di ultra attivismo che spesso può essere valorizzato in termini di responsabilità quanto meno sotto il profilo della consapevolezza del degenerarsi della situazione patrimoniale, reddituale e finanziaria della società. Il sesto paragrafo dovrebbe avere la funzione precipua di individuare il pregiudizio ritenuto imputabile a ciascun organo e, nell'ambito di ogni organo, a ciascuno dei suoi componenti, giustificando, alla luce delle risultanze del patrimonio fallimentare e delle causali sottostanti ai crediti che sono stati ammessi nello stato passivo, il criterio di quantificazione che è stato adottato nel caso specifico e le modalità matematiche attraverso le quali si è proceduto alla quantificazione del pregiudizio totale ed individuale. Tanto maggiore sarà la precisione della relativa rappresentazione, tanto maggiore sarà la possibilità di avere una base chiara ed utile in prospettiva non solo delle operazioni peritali che verranno disposte in corso di causa, ma anche e soprattutto della ricerca di una soluzione transattiva, specie se amministratori o quanto sindaci e revisore siano dotati di polizza assicurativa con adeguato massimale. Il settimo ed ultimo paragrafo dovrebbe contenere l'indicazione delle istanze istruttorie che si intendono richiedere, proponendo dove possibile un testo di quesito peritale che si richiede venga demandato al consulente tecnico d'ufficio che sarà prescelto dal Tribunale all'esito dello scambio delle memorie introduttive di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c. Conclusioni
Chi agisce in giudizio deve dimostrare il danno ed il suo collegamento causale con le condotte contestate all'organo gestorio o di controllo di una società dichiarata fallita, con finale impossibilità d'imputare a titolo risarcitorio, ed in difetto di prova contraria, l'intero deficit fallimentare, giacché esso rappresenta una grandezza qualitativa e quantitativa inidonea a rappresentare le conseguenze della violazione dei doveri amministrativi, liquidativi e sindacali. E ciò non tanto per ragioni di equità, quanto invece per rispetto dei principi della responsabilità civile, ammettendosi un'inversione dell'onere della prova (che ha ad oggetto la dimostrazione della non imputabilità del deficit fallimentare) soltanto se la mancanza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili sia ascrivibile a dolo o colpa dell'amministratore o del sindaco e soltanto se sia plausibilmente sostenibile, in base ad un giudizio presuntivo fondato su elementi gravi, precisi e concordanti da condursi anche attraverso un'attenta analisi delle poste iscritte nello stato passivo fallimentare in termine di causa generatrice e tempo di generazione, che la condotta amministrativa o sindacale sia la causa esclusiva, o quanto meno prima, del dissesto sociale. In altre parole, l'assenza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili non può, da sé sola, far venire meno non solo uno specifico onere d'allegazione in capo a colui che agisce in responsabilità, ma anche e soprattutto il principio della necessità dell'individuazione di un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui il soggetto è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nella sfera giuridica altrui. Un diverso automatismo non solo condurrebbe a risultati che empiricamente risultano poco rispondenti all'effettiva realtà dei fatti, ma soprattutto si porrebbe in insanabile contrasto con i principi che regolano la responsabilità civile. Tutto ciò, naturalmente, non esclude l'applicazione del criterio del “patrimonio netto fallimentare” come criterio di valutazione ai fini del risarcimento del danno in via equitativa (ai sensi dell'art. 1226 c.c.); si impone, però, d'accertare l'effettiva impossibilità di addivenire ad una ricostruzione degli specifici effetti pregiudizievoli procurati al patrimonio sociale dall'illegittimo comportamento degli organi della società, ciascuno distintamente valutato e, comunque, la plausibilità logica nel caso concreto dell'imputazione causale dell'intero sbilancio patrimoniale della società a tale comportamento.
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