La responsabilità solidale della banca con gli amministratori della società fallita per ricorso abusivo al credito

Emiliano Cerisoli
19 Aprile 2017

La banca che non ha diligentemente attivato le procedure di verifica del merito creditizio ed ha concesso linee di credito a società poi dichiarata fallita, è responsabile in via solidale con gli amministratori, ed a titolo extracontrattuale, dell'aggravamento del dissesto ...
Massima

La banca che non ha diligentemente attivato le procedure di verifica del merito creditizio ed ha concesso linee di credito a società poi dichiarata fallita, è responsabile in via solidale con gli amministratori, ed a titolo extracontrattuale, dell'aggravamento del dissesto quantificabile nella differenza tra il deficit sussistente alla data in cui sarebbe stato dichiarato il fallimento in mancanza del sostegno finanziario erogato e quello risultante alla data di effettivo fallimento.

Il caso

La Curatela di un Fallimento ha convenuto in giudizio la Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a e Monte dei Paschi di Siena Capital Services Banca per l'Impresa S.p.a. al fine di sentirle condannare, in via solidale con gli amministratori della fallita società, al risarcimento dei danni consistenti nella maggiorazione del passivo e nella diminuzione dell'attivo determinati avuto riguardo al periodo intercorrente tra la data in cui avrebbe dovuto essere dichiarato il fallimento in mancanza di ricorso abusivo al credito (e della abusiva concessione da parte delle banche) e la data dell'effettivo fallimento.

Il Tribunale di Prato, all'esito di una articolata istruttoria e previa approfondita analisi della astratta configurabilità del concorso dell'istituto di credito in caso di ricorso abusivo al credito, ha ritenuto sussistere la responsabilità della banca, in via solidale con gli amministratori della fallita società, laddove, non avendo debitamente vigliato sugli indici di copertura, indicatori di solvibilità dell'azienda, il credito erogato abbia consentito il protrarsi dell'attività aziendale, pur sussistendo già lo stato di decozione, con conseguente aggravamento del deficit fallimentare.

La questione

La pronuncia del giudice pratese si segnala per avere riconosciuto in capo al curatore fallimentare la legittimazione attiva a proporre l'azione risarcitoria in oggetto, laddove l'autorevole precedente rappresentato dalle S.U della Corte di Cassazione (sent. n. 7029/2006) ha escluso tale legittimazione avendo ritenuto ridetta azione non annoverabile tra le cosiddette “azioni di massa”.

La legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori, ha rilevato la Corte, è limitata a quelle azioni finalizzate alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo.

Nella fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite, l'azione esperita dal Curatore – che ai sensi dell'art. 146 l. fall. può cumulativamente ed indistintamente proporre tanto l'azione sociale di responsabilità quanto l'azione dei creditori sociali - è stata qualificata come iniziativa assunta nell'interesse del singolo creditore – specularmente all'azione ex art. 2395 c.c.. La Corte infatti, dalla negazione della sussistenza in capo al Curatore del potere di rappresentanza di tutti i creditori, indistinto e generalizzato, ha fatto conseguire che la legitimatio ad causam non sussiste in presenza di azioni esercitabili individualmente, in quanto dirette ad ottenere un vantaggio esclusivo e diretto del creditore nei confronti di soggetti diversi dal fallito.

Il Tribunale di Prato, per contro, ha invece ricondotto in capo al Curatore la legittimazione attiva ad agire anche nei confronti delle banche, quali corresponsabili solidali, ritenendo che l'azione esercitata sia da considerarsi e qualificarsi quale azione sociale di responsabilità finalizzata ad azionare un credito risarcitorio da illecito che, in considerazione del suo contenuto patrimoniale, non rientra tra i beni ed i diritti di natura strettamente personale esclusi dall'esecuzione concorsuale ai sensi dell'art. 46 n. 1, l. fall. ed è quindi anch'esso acquisito alla massa attiva del fallimento.

Nel senso sopra indicato, quindi, il Curatore ben può convenire in giudizio le banche responsabili della sovvenzione abusiva in quanto l'azione esercitata è finalizzata alla reintegrazione del patrimonio sociale danneggiato dagli istituti di credito in via concorsuale con gli amministratori.

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Prato, in ragione delle plurime eccezioni sollevate dalle difese delle banche convenute, ha affrontato ed analizzato molteplici istituti la cui disamina, a corredo del principio di diritto di cui sopra, rappresentante il cuore ed il tratto distintivo della pronuncia oggetto di commento, concorre ad aumentarne il pregio giuridico.

Il giudice ha infatti preliminarmente affrontato la questione della competenza territoriale che, secondo la prospettazione attorea, afferiva al Tribunale di Prato in virtù della vis attractiva di cui all'art. 24 l.fall. che attribuisce al Tribunale che ha dichiarato il fallimento la competenza per tutte le cause che ne derivano, e che invece, secondo le difese delle banche, avrebbe dovuto riconoscersi in favore del Tribunale di Siena ex art. 19 c.p.c. (foro generale del convenuto) o, alternativamente, ex art. 20 c.p.c. in favore del Tribunale di Firenze nel cui circondario si trova la Direzione Generale degli istituti convenuti essendo quello il luogo in cui avrebbe dovuto essere eseguita l'obbligazione ai sensi dell'art. 1182 c.c..

Il Tribunale di Prato ha ritenuto sussistente la propria competenza non in ragione del disposto di cui all'art. 24 l.fall. ma ai sensi dell'art. 20 c.p.c. in quanto è nell'ambito della competenza territoriale di ridetto tribunale che si è verificato l'evento dannoso (il locus commissi delicti).

Oltre al tema della legittimazione ad agire in capo al Curatore, di cui si è detto sopra, è stato anche affrontato quello della possibilità per quest'ultimo di agire ex art. 146 l.fall. per la responsabilità degli amministratori (presupposto da accertarsi necessariamente nell'ambito del giudizio per potere conseguentemente statuire sulla responsabilità concorsuale delle banche) anche in relazione alle società di persone. E' stata riconosciuta tale possibilità a nulla rilevando, scrive il giudice pratese, l'eventuale assenza di personalità giuridica o la indistinguibilità tra soci e società o il fallimento personale dei soci illimitatamente responsabili giacchè da un lato l'art. 2260 c.c. (applicabile anche alle s.a.s ex artt. 2293 e 2315 c.c.) prevede espressamente la responsabilità degli amministratori nei confronti della società, dall'altro perché è pacifico per la giurisprudenza, anche di legittimità, che la società di persone possa riconoscersi quale centro autonomo di interessi e di imputazione di diritti sostanziali e processuali, autonomamente quindi tutelabili anche con la responsabilizzazione dell'amministratore.

Interessante inoltre la disamina effettuata dal giudice di merito sulla prescrizione dell'azione, aspetto la cui analisi ha implicato l'accertamento della natura della responsabilità delle banche, riconosciuta avente matrice extracontrattuale. E' stato ritenuto applicabile, quindi il termine quinquennale e, quanto al dies a quo, quello in cui il danno è divenuto percepibile all'esterno e si è manifestato nella sfera patrimoniale della società. Considerato che la società fallita era società non soggetta all'obbligo di pubblicazione del bilancio, il Tribunale ha ritenuto che, in ragione della condotta dissimulatoria degli amministratori – che non hanno attivato i meccanismi liquidatori imposti dalla legge modificando le risultanze contabili – con avallo delle Banche che, omettendo di verificare e monitorare nel tempo le condizioni di solvibilità della società, hanno continuato ad erogare denaro, il termine di prescrizione dovesse decorrere dalla data di dichiarazione di fallimento, momento in cui si è consolidato il danno che, solo così, per la prima volta è divenuto avvertibile “all'esterno”.

Osservazioni

La pronuncia oggetto di commento, che, come visto, affronta svariate tematiche giuridiche, rivela ulteriori profili di interesse per quanto concerne in primo luogo la valutazione effettuata sulla corresponsabilità delle banche per ricorso abusivo al credito, in secondo luogo per quanto concerne l'individuazione del criterio di determinazione del danno suggerito dal consulente d'ufficio ed adottato dal giudice.

Censurata la condotta degli amministratori per violazione di plurime disposizioni di legge (artt. 217, comma 1, n. 3, 218, comma 1, n. 4, l.fall., artt. 1710 e 1176 c.c.), il giudice ha accertato la concorrente responsabilità delle banche per violazione del protocollo di cui alle Istruzioni di Vigilanza della Banca d'Italia (Circolare n. 229 del 21/04/1999) nonché delle disposizioni di cui all'accordo di Basilea II sulla valutazione del merito creditizio.

Gli istituti di credito, si legge in sentenza, hanno censito ed indagato del tutto sommariamente la solidità economica, finanziaria e patrimoniale della società poi fallita, limitandosi alla mera acquisizione dei bilanci e senza chiedere agli amministratori (o eventualmente acquisire presso l'Agenzia delle Entrate) le dichiarazioni dei redditi e IRAP che, come accertato nel corso dell'istruttoria espletata in corso di causa, avrebbero offerto dati veritieri e difformi da quelli risultanti dai bilanci (essendo stati questi ultimi “aggiustati” dagli amministratori ed essendo invece le prime “fedeli” alla reale situazione). Inoltre non sono stati valutati i dati evincibili agevolmente dai flussi della Centrale Rischi che testimoniavano un persistente e consistente sconfinamento dei rapporti bancari a breve termine. Le difese delle convenute hanno eccepito che gli istituti di credito si sono sempre premurati di acquisire garanzie reali da parte dei soci e da parte di altre società appartenenti al medesimo gruppo familiare, ma tali considerazioni sono state superate in quanto è stato accertato in sede di indagine peritale che vi fosse una situazione di utilizzo massimo della capienza ipotecaria degli immobili gravati e che in alcuni casi si fosse oltre il limite della capienza.

Il Giudice ha pertanto rilevato che, così come il c.t.u. è stato in grado di ricostruire esattamente la reale situazione della fallita, altrettanto avrebbero potuto (ed anzi dovuto) fare le Banche convenute che se avessero diligentemente attivato le procedure di verifica e di indagine avrebbero certamente rilevato la sostanziale situazione di insolvenza con ben cinque anni di anticipo rispetto alla dichiarazione di fallimento. In ragione della contravvenzione alle regole di diligenza imposte dalle norme di settore, a cui operatori altamente specializzati, quali sono gli istituti di credito, avrebbero dovuto inderogabilmente attenersi, il Tribunale ha imputato alle convenute (in concorso con gli amministratori) una responsabilità “extracontrattuale da contratto” intendendo con ciò la responsabilità per avere causalmente interferito, violando il principio del neminem laedere, nell'altrui rapporto contrattuale (il contratto sociale).

L'imprudente concessione del credito da parte delle banche, da un punto di vista eziologico, ha determinato da un lato la possibilità per gli amministratori di procrastinare oltre il consentito l'attività aziendale, e dall'altro ha tratto in inganno tanto i creditori quanto gli altri soggetti finanziatori che, vendendo costantemente alimentate le linee di credito da parte di un importante gruppo bancario, hanno ritenuto persistere in capo alla fallita il requisito della solidità e della solvibilità. Tale ultima considerazione appare forse lo snodo più debole di un tessuto motivazionale solido e persuasivo, posto che la medesima “leggerezza” addebitata alle banche convenute pare potersi specularmente addebitare anche agli altri soggetti finanziatori (non parti in causa).

Per quanto concerne in ultimo la determinazione del danno, il giudice pratese ha ritenuto che la metodologia più corretta per addivenire ad una equa individuazione del quantum risarcitorio fosse quello dei cosiddetti “netti patrimoniali”. La nota sentenza n. 9100 resa dalle S.U. della Corte di Cassazione in data 6 maggio 2015 ha infatti definitivamente chiarito che il criterio del deficit patrimoniale, consistente nel determinare il danno in misura corrispondente al differenziale tra attivo e passivo fallimentare, non può essere adottato automaticamente, in quanto vanno rilevati caso per caso gli specifici inadempimenti imputabili agli amministratori a cui ricondurre eziologicamente il danno contestato; tale criterio, suggerisce la Suprema Corte, può essere utilizzato solo in via del tutto residuale e solo quale parametro meramente orientativo per addivenire ad una valutazione equitativa laddove, ad esempio, i bilanci mancassero o fossero del tutto inattendibili o ancora peggio falsi. Nel caso di specie, essendo stato possibile ricostruire, attraverso una complessa ed elaborata indagine peritale, la contabilità della società fallita, il giudice ha adottato il sopra accennato criterio dei netti patrimoniali consistente nella determinazione della differenza tra il patrimonio netto della società al momento in cui avrebbe dovuto essere posta in liquidazione (o avrebbe dovuto essere presentata istanza di fallimento) ed il patrimonio netto della società alla data di effettiva dichiarazione di fallimento.

Guida all'approfondimento

Il tema della responsabilità delle banche per concorso in abusivo ricorso al credito bancario è stato per la prima volta affrontato alla fine degli anni settanta dalla giurisprudenza francese (Cour de Cassation del 7 gennaio 1976, in Rev. Soc., 1976, 126) ed in Italia è stato affrontato, con orientamenti contrastanti (dipendenti essenzialmente dalla qualificazione della azione proposta e dall'inquadramento giuridico della responsabilità), prevalentemente per quanto attiene il profilo della legittimazione attiva del curatore fallimentare ad agire in giudizio.

Chi, come nel caso in esame, riconosce esperibile dalla curatela tale azione, in quanto annoverabile tra le cosiddette “azioni di massa”, ritiene sostanzialmente equiparabile l'iniziativa giudiziaria all'azione di responsabilità spettante ai creditori sociali di una s.p.a. contro gli amministratori (art. 2394 c.c.) azione che, in caso di successiva sottoposizione della società a fallimento, si trasferisce al curatore (artt. 2394 bis c.c. e 146 l.fall.) (si segnalano, tra i precedenti: Trib. Milano, 25 febbraio 2016, in questo portale, con nota di Franchi, La responsabilità della banca per aggravamento del dissesto della società sovvenuta; Trib. Foggia, 7 maggio 2002, in Fall., 2002, 1157; Trib. Foggia, 12 dicembre 2000, in Dir. banca e mercato fin., 2002, I, 260)

Chi invece non ritiene riconducibile in capo al curatore la legittimazione processuale per proporre tale azione inquadra invece la fattispecie sussumendola tra le azioni ex art. 2935 c.c. esperibili dai singoli danneggiati anche in costanza di procedura fallimentare (ex multis, App. Milano, 11 maggio 2004; Cass S.U. 7029, 7030 e 7031, 28 marzo 2006).

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