Aggravamento del dissesto della società sovvenuta: onere probatorio e quantificazione del danno
19 Giugno 2017
Nell'ambito di un'azione del fallimento ex art. 146 l.fall., in cui la causa petendi è costituita dalla prosecuzione illecita dell'attività economica della società dopo la perdita del capitale sociale, in violazione del disposto dell'art. 2486 c.c., il fallimento deve: a) allegare in modo qualificato il comportamento inadempiente che assume causativo del danno; b) provare che tale prosecuzione illegittima dell'attività sociale ha causato un danno alla società o ai creditori; c) provare l'entità del danno, qui di natura certamente patrimoniale. Quando il danno non può essere provato in modo puntuale e specifico – ad esempio perché le scritture contabili non sono state tenute o non sono state tenute in modo regolare - può farsi ricorso ex art. 1226 c.c. a criteri equitativi nella quantificazione del danno. Il ricorso a tali criteri di liquidazione del danno, tuttavia, non solo deve essere giustificato da circostanze che non hanno permesso l'accertamento degli effetti dannosi delle condotte contestate, ma i criteri stessi devono essere allegati in modo preciso nella loro astratta dimensione metodologica, e soprattutto devono risultare “plausibili” cioè capaci di produrre un risultato che rappresenti in modo comunque attendibile gli effetti patrimoniali dannosi del comportamento illecito addebitato agli organi sociali. Tali plausibili criteri, poi, dovranno trovare applicazione ai fatti gestionali e contabili rilevanti, come provati, sortendo da tale operazione appunto la prova del danno, incombente al fallimento attore. La vicenda processuale
La sentenza del Tribunale di Milano (Sez. Specializzata, 27 ottobre 2015, n. 12000), ha ad oggetto una fattispecie in cui la procedura fallimentare conveniva in giudizio l'amministratore unico, i membri del ‘penultimo' collegio sindacale e i ‘penultimi' revisori della società fallita, sostenendo che sulla base di una sovrastima delle attività e di una sottovalutazione delle passività, il capitale reale della fallita fosse sceso sotto il minimo legale molto prima della messa in liquidazione della società, e in specie certamente già al termine dell'esercizio 2004. Avendo dunque i predetti soggetti mancato di porre in essere gli atti loro commessi dalla legge per il tempestivo accertamento della causa di scioglimento della società ex art. 2484, n. 4, c.c., il fallimento chiedeva la loro condanna al risarcimento dei relativi danni. Nello specifico il fallimento attore deduceva che il capitale sociale sarebbe divenuto negativo già al 31 dicembre 2004, ottenendosi tale risultato dalla sottrazione delle rettifiche operate dal fallimento – segnatamente rettifiche di ricavi, maggior accantonamento rischi crediti, accantonamento fondo imposte – al patrimonio netto contabile. Quanto al nesso di causalità ed alla quantificazione del danno il fallimento faceva riferimento alle perdite appostate nel bilancio al 31 dicembre 2007. Veniva espletata CTU contabile che evidenziava “l'impossibilità di ricostruire la situazione patrimoniale ed economica della società a far data dal 31.12.2003 e fino alla dichiarazione di fallimento e l'impossibilità di esprimere un giudizio sulle rettifiche indicate dal Fallimento al fine di evidenziare il momento della perdita del capitale sociale ai sensi dell'art. 2447 c.c.”. Il giudizio giungeva in decisione ed il Tribunale, pur riconoscendo come non fosse stata attuata dai convenuti una gestione conservativa del valore e dell'integrità del patrimonio, rilevava che dalle risultanze della espletata CTU si evincesse che le allegazioni attoree fossero sfornite della necessaria base probatoria e ciò principalmente per la predetta incompletezza di scritture contabili. In altre parole il Tribunale non condivideva il criterio di liquidazione adottato dal fallimento sostenendo come non ci potesse essere identificazione del ‘danno' nelle perdite registrate nel bilancio al 31 dicembre 2007, quale effetto dell'illegittima prosecuzione dell'attività economica della Società. La quantificazione del danno: orientamenti a confronto
La sentenza in esame affronta la tematica dell'onere probatorio e della quantificazione del danno risarcibile nell'ambito delle azioni di responsabilità ex art. 146 l.fall., con particolare riferimento al caso in cui vi sia l'impossibilità di ricostruire l'effettiva situazione patrimoniale della società fallita. Si segnala, dunque, come una delle prime sentenze successive alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 9100 del 2015 (in questo portale, con commento di Covino, Auricchio, Jeantet, Danno azionabile contro amministratori e sindaci: il criterio del “patrimonio netto fallimentare”; anche in Giur. Comm., 2015, 4 II, 643). La tematica era (e per il vero è tutt'oggi) oggetto di accesi dibattiti dottrinali e di pronunce giurisprudenziali tutt'altro che uniformi. L'orientamento giurisprudenziale che si era affermato in passato, ma certamente non condivisibile, era quello di imputare agli amministratori colpevoli la differenza tra attivo e passivo fallimentare (tra le tante: Cass. Civ., 4 aprile 1977, in Giur. Comm., 1977, II, 449; Trib. Milano, 13 ottobre 1983, in Società, 1984, 545). La soluzione, come anticipato, era tutt'altro che condivisibile, assomigliando più all'irrogazione di un danno punitivo che non ad una decisione in linea con le regole (sostanziali e processuali) proprie del nostro ordinamento. E così apparivano legittime le critiche mosse dalla dottrina ad un tale metodo di quantificazione del danno, fino a spingere autorevoli voci della stessa a sostenere che in tale modo si snaturava l'azione ex art. 146 l.fall. e si avvicinava la responsabilità degli amministratori a quella dei soci illimitatamente responsabili (Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, in Giur. Comm., 1988, I, 458). Si andò, dunque, affermando il più corretto orientamento, secondo cui non potesse farsi automaticamente discendere da atti di mala gestio degli amministratori un danno risarcibile pari alla mera differenza contabile tra passivo ed attivo patrimoniale, così come accertati nell'ambito della procedura concorsuale, ribadendo invece la necessità di valutare le specifiche conseguenze dannose che sono causalmente riconducibili ai singoli atti gestori lesivi (Cass. Civ., 22 ottobre 1998, n. 10488; Cass. Civ., 17 settembre 1997, n. 9252) ed il vecchio metodo di differenziazione tra attivo e passivo fallimentare fu relegato al caso in cui fosse oggettivamente impossibile valutare l'esatto disavanzo della società al momento della dichiarazione di insolvenza a causa di carenze gestionali imputabili agli stessi organi responsabili (App. Roma, 14 marzo 2000, in Gius., 2000, 1879; App. Milano, 6 giugno 2007, in Fall., 2007, 1486, secondo cui l'applicazione del criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare possa gravare sugli amministratori quando: "la mancanza di contabilità risulti addebitabile ad essi e non ad amministratori precedenti"). A tal proposito fu osservato dalla Suprema Corte che: "l'identificazione automatica del danno imputabile all'illegittima condotta di amministratori e sindaci con la differenza tra attività e passività accertate in sede concorsuale è concettualmente insostenibile [...] I principi da cui è retto il risarcimento del danno civile impongono, del resto, l'individuazione di un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell'altrui sfera giuridica e richiedono che di tale nesso sia fornita la prova da parte di chi il risarcimento invoca [...] Il rifiuto di ogni automatismo nell'applicazione del suindicato criterio differenziale non vale però, di per sé solo, ad escludere che anche quel medesimo criterio possa soccorrere, in guisa di parametro cui ancorare una liquidazione equitativa, una volta accertata l'impossibilita` di ricostruire i dati in modo cosı` analitico da individuare le conseguenze dannose dei singoli atti illegittimi imputati ad amministratori e sindaci della società [...] Occorre però [...] che il giudice di merito dia in proposito una puntuale motivazione" (Cass. Civ., 15 febbraio 2005, n. 3032). Proprio alcuni di questi principi, ampliati ed espressi con maggior dovizia di dettagli, sono stati ripresi dall'ormai nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 9100 del 2015. In buona sostanza, ricalcando alcuni passaggi maggiormente significativi di tale pronuncia a Sezioni Unite, è stato statuito che la circostanza per cui “il mancato rinvenimento delle scritture contabili (ma lo stesso potrebbe dirsi per la loro irregolare tenuta) non consenta al curatore del fallimento di ricostruire con sufficiente certezza le vicende che hanno condotto all'insolvenza dell'impresa può esser forse addotta, essa stessa, come una causa di danno, almeno nella misura in cui ciò comporti un maggiore onere nell'espletamento dei compiti del curatore ed, eventualmente, un aggravio dei costi della procedura destinato ad incidere negativamente sull'attivo disponibile”, ma in ogni caso non “appare logicamente plausibile il farne discendere la conseguenza dell'insolvenza o dello sbilancio patrimoniale della società divenuta insolvente”. “Una simile conseguenza”, hanno osservato le Sezione Unite, “non può esser fatta discendere nemmeno dalla considerazione che la mancanza (o l'irregolarità) delle scritture contabili impedirebbe al curatore che agisce in responsabilità contro l'amministratore della società fallita di ricostruire, e perciò di provare con sufficiente precisione, il danno sofferto dal patrimonio della medesima società (e dai suoi creditori), onde si giustificherebbe che l'onere della prova del danno e del nesso di causalità venga spostato a carico dell'amministratore convenuto, giacchè è proprio l'illegittimo comportamento di costui ad impedire all'attore di assolvere quell'onere”. In ultimo è stata auspicata l'adozione della ‘valutazione equitativa' “se la mancanza delle scritture contabili rende difficile per il curatore una quantificazione ed una prova precisa del danno che sia di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all'amministratore della società fallita”. La dottrina non ha accolto con entusiasmo la pronuncia delle Sezioni Unite, prova ne sono le valutazioni emerse nell'autorevole seminario ex distantibus ("Differenza tra attivo e passivo e quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori", in Giur. Comm., 2015, 4, II, 643). E' stata infatti rilevata l''inutilità' della pronuncia (Bassi, in Giur. Comm., 2015, 4, II, 652), l'eccessivo rigore della prova del danno (Cabras, idem, 655), la scarsa linearità nella parte relativa alla ‘liquidazione equitativa' (Fortunato, idem, 662), ma soprattutto che “l'impatto delle indicazioni provenienti dalle Sezioni unite vanno probabilmente ridimensionati” (Cian, idem, 658; in senso conforme Galletti, idem, 665) a mente della troppo penetrante influenza esercitata dalla fattispecie concreta oggetto di rimessione alle Sezioni Unite. Ed infatti, come condivisibilmente osservato, “nella fattispecie oggetto del ricorso deciso dalle Sezioni Unite … la procedura fallimentare attrice si era limitata a dedurre la mancata tenuta delle scritture contabili, e a fondare su tale allegazione la richiesta di commisurare il danno alla differenza tra attivo e passivo. Mancava dunque un'allegazione di un comportamento astrattamente idoneo a cagionare un danno, sufficiente a legittimare un'indagine istruttoria” (Galletti, idem, 665). Tale ultima problematica, per il vero, era già stata rilevata proprio all'esito dell'ordinanza di rimessione a seguito della quale si è poi addivenuti alla predetta pronuncia delle Sezioni Unite (n. 12366 del 3 giugno 2014), laddove veniva osservato che “L'utilizzo promiscuo o non rigorosamente argomentato che talora, più o meno consapevolmente, viene fatto dei due principi, sebbene rispondente alla più che condivisibile esigenza di rimediare all'evidente asimmetria informativa che opera in favore di amministratori e sindaci, rischia allora di nascondere prassi applicative non del tutto rispettose dei più recenti orientamenti in punto di causalità del danno da mala gestio. Come già detto, trattandosi di confusione a livello di applicazione alle concrete fattispecie decise, è lecita qualche riserva sul fatto che una presa di posizione sul piano astratto, quale quella cui sono istituzionalmente chiamate le Sezioni Unite, basti per fare chiarezza” (Fotticchia, Differenza tra attivo e passivo e quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità: la parola alle sezioni unite, in Giur. Comm., 2015, 1, 116). La soluzione adottata dal Tribunale di Milano, come visto, si colloca nell'ambito di un'azione del fallimento ex art. 146 l.fall. in cui veniva censurato il comportamento negligente ed inadempiente dell'amministratore e dei sindaci, consistito nella prosecuzione illecita dell'attività economica della società dopo la perdita del capitale sociale, in violazione del disposto dell'art. 2486 c.c. e quindi incorrendo in responsabilità rispettivamente ex artt. 2392 e 2407 c.c. Il Tribunale, dunque, ha rilevato la mancanza di prova e di nesso di causalità dell'azione attorea, riscontrando che il fallimento non avrebbe specificato quali svalutazioni avrebbero dovuto imputarsi al periodo antecedente alla perdita del capitale, quali si sarebbero comunque verificate per effetto della liquidazione e quali sarebbero invece dovute alla prosecuzione dell'attività. Il tutto non potendosi effettuare tale discrimine a motivo, sostanzialmente, della mancanza delle scritture contabili di riferimento. A fronte di una tale decisione è lecito porsi degli interrogativi in primis sul concreto onere probatorio incombente sul fallimento nell'ambito di un'azione per illecita prosecuzione dell'attività sociale ed in caso di mancato reperimento delle scritture contabili. Il rilievo secondario, almeno per quanto rileva ai nostri fini, riguarda invece la tematica della quantificazione del danno risarcibile. Si tratta in primis di tentare di delineare quello che è stato definito come il punctum dolens della questione ovvero se sia possibile invertire l'onere probatorio in caso di mancato rinvenimento delle scritture contabili (Spiotta, L'atteso chiarimento delle Sezioni unite sull'utilizzabilità del criterio del deficit, Giur. It., 2015, 1420). Ebbene, pur potendo pacificamente condividere l'iter logico argomentativo svolto dalle Sezioni Unite in tema di onere probatorio in materia di azioni di responsabilità, è a nostro avviso da escludere in radice che la mancanza di scritture contabili possa essere ostativo al pieno assolvimento dell'onere probatorio in capo al curatore/attore nell'ambito delle azioni ai sensi dell'art. 146 l.fall., come invece sembra aver statuito la sentenza in commento. In altre parole la mancanza dei documenti contabili di riferimento non possono essere posti a motivo della mancata dimostrazione del danno qualora, invece, il curatore/attore abbia pienamente dimostrato la sussistenza di una gestione non conservativa del valore del patrimonio e dell'impresa, in violazione anche del disposto di cui all'art. 2486 c.c. Come noto, infatti, il vecchio ‘divieto di nuove operazioni' ha lasciato il campo all'art. 2486 c.c. definita come la norma che ha fatto cadere la labile base presuntiva che assisteva la prova del nesso di causalità tra la violazione del divieto di prosecuzione dell'attività e la diminuzione ulteriore del patrimonio sociale (in senso conforme: Niccolini, Commento all'art. 2485, Società di capitali. Commentario, a cura di Niccolini - Stagno d'Alcontres, III, Napoli, 2004, 1727 e segg.; Vaira, Commento agli artt. 2485 e 2486, in Il nuovo diritto societario, Commentario diretto da Cottino – Bonfante – Cagnasso - Montalenti, III, Bologna, 2004, 2052; Paciello, Commento all'art. 2485, in Sandulli - Santoro (a cura di), La riforma delle società. Commentario del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, III, Torino, 2003, 243 e segg.; Pasquariello, Commento all'art. 2485, in Maffei Alberti (a cura di), Il nuovo diritto delle società, III, Padova, 2005, 2171). In realtà, ciò che è stato condivibilmente affermato è che pur essendo corretto sostenere che la 'nuova' disposizione normativa non consente più di giovarsi della presunzione semplice per cui tutti i nuovi atti gestori siano illegittimi, l'onere probatorio incombente sull'attore si esaurisce (almeno per quanto concerne la prova della mala gestio) con la dimostrazione secondo cui sono stati compiuti nuovi atti d'impresa non collegati a operazioni in corso, nè dettati da finalità conservative (in tal senso Rondinone, in Responsabilità per il dissesto o il suo aggravamento: le «mobili frontiere del» deficit fallimentare, Fallimento, 2005, 1, 37). Tra l'altro dottrina autorevole ha (altresì condivisibilmente) ritenuto che in un caso il comportamento gestionale da parte degli amministratori potrebbe essere addirittura ritenuto ex se dannoso ovvero nella situazione in cui non esista alcun valore patrimoniale suscettibile di mantenimento attraverso l'attività d'impresa (Piselli, La responsabilità degli amministratori verso la società alla vigilia della riforma, in Società, 2003, 1278). La violazione del dovere di tenere la contabilità, dunque, almeno in determinate circostanze, non può essere considerata avulsa da altri comportamenti illeciti, i quali, appunto, hanno materialmente prodotto l'evento dannoso; anzi, la violazione inerente la contabilità sociale può talvolta assumere una connotazione strumentale rispetto ad atti illeciti pregiudizievoli, nel senso che può essere finalizzata ad occultarli (Ferraro, La pronuncia delle Sezioni Unite sul danno nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori di società fallite, in Corr. Giur., 2015, 12, 1580). Si pensi ad una fattispecie in cui vi è una sequenza di atti illeciti in cui quello relativo alla contabilità è strumentale rispetto agli ulteriori illeciti prodottisi precedentemente o anche successivamente (Patti, La determinazione del danno risarcibile nell'azione di responsabilità per la perdita del capitale sociale, in Fallimento, 2013, 173). Il tutto con chiare conseguenze sull'adottabilità (o meno) del rigido schema previsto dalle Sezioni Unite in termini di onus probandi.
Conclusioni
Ad avviso di chi scrive, i ‘generali' principi espressi dalle Sezioni Unite non sembrano poter trovare una totale applicazione in fattispecie analoghe a quella di specie. Il rischio sarebbe non solo quello di creare delle pericolose ‘zone franche' per gli amministratori infedeli, ma di creare un'altrettanto pericolosa contraddizione con il principio della vicinanza della prova espresso dalle stesse Sezioni Unite secondo cui "l'onere della prova viene ripartito tenuto conto in concreto della possibilità per l'uno e per l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d'azione" (cfr. Cass., SS. UU., 11 gennaio 2008, n. 582). Principio della ‘vicinanza della prova' che, per il vero, proprio le Sezioni Unite (sentenza 6 maggio 2015, n. 9100) avevano sostenuto non essere invocabile “nella fattispecie in esame” e forse confermando che le ‘statuizioni conclusive' siano state influenzate dalla fattispecie concreta (ovvero quella oggetto della già citata ordinanza di rimessione) in cui, lo ricordiamo, “mancava … un'allegazione di un comportamento astrattamente idoneo a cagionare un danno, sufficiente a legittimare un'indagine istruttoria” (Galletti, in Giur. Comm., 2015, 4, II, 665). La conferma sarebbe proprio nella locuzione per cui le Sezioni Unite avevano ammesso l'applicazione del principio di tale principio nel caso in cui “l'attore abbia allegato un inadempimento del convenuto almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui si chiede il risarcimento”. Ed allora, seguendo tale ragionamento, nella fattispecie in commento, almeno per quanto riguarda l'onere di allegazione del fallimento, non pare potersi dubitare che lo stesso sia stato assolto laddove è dato leggere che “è pacifico in causa che mai … è stata attuata una gestione conservativa del valore e dell'integrità del patrimonio”. In conclusione è auspicabile che i criteri individuati dalle S.U. in merito all'onus probandi vertente sul curatore non siano applicabili indistintamente a tutte le fattispecie ex art. 146 l.fall. Un'eccessiva enfatizzazione dell'onere di allegazione comporterebbe per l'attore una vera e propria alligatio diabolica, richiedendogli di rappresentare in giudizio avvenimenti gestionali di cui non ha, né può avere, conoscenza a causa di un'attività di occultamento posta in essere dall'amministratore (in tal senso Ferraro, La pronuncia delle Sezioni Unite sul danno nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori di società fallite, in Corr. Giur., 2015, 12, 1580). Oltre ad un problema nell'an il rischio concreto è, conseguentemente, anche la riduzione del danno risarcibile con esclusione (quasi tombale) dell'applicabilità della differenza tra attivo e passivo fallimentare. Il provvedimento in commento non affronta specificamente la tematica del ‘criterio differenziale' e pertanto ci limiteremo a brevi considerazioni sul punto. Sul quantum, infatti, il Tribunale precisa che pur ritenendo inammissibile la valutazione equitativa del danno per essere stata tardivamente richiesta dal fallimento, nemmeno si proporrebbe un problema in tal senso giacchè l'attore non avrebbe, come detto, assolto al proprio onere probatorio. Sul tema pare condivisibile il pensiero della dottrina secondo cui “il criterio differenziale non è stato … respinto in ragione di una sua asserita inidoneità a fungere da parametro valutativo di eventi già accertati e già ricondotti ad una condotta gestoria (colposa), bensì a causa della sua incapacità di sostituirsi all'allegazione e alla prova di quest'ultima e dei primi” (Cian, in Giur. Comm., 2015, 4, II, 658). Quanto all'applicazione del criterio equitativo, invece, sembrano condivisibili i dubbi di chi ritiene “irto di difficoltà” il percorso che condurrebbe all'applicazione di tale criterio (Fortunato, in Giur. Comm., 2015, 4, II, 662) e di chi ha manifestato la propria insoddisfazione “alla possibilità di considerare in tutto o in parte lo sbilancio patrimoniale della società in sede di liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.” (Sacchi, in Giur. Comm., 2015, 4, II, 676). |