La Suprema Corte interviene in materia di autonomia della responsabilità dell’ente

Giulia Natali
19 Settembre 2016

Sebbene l'art. 8 D. Lgs. n. 231/2001 preveda la responsabilità dell'ente anche in mancanza di identificazione dell'autore, per la piena applicazione della norma è necessario accertare l'esistenza di un reato, nonché individuare la categoria alla quale appartiene l'autore ed escludere che abbia agito nel proprio esclusivo interesse o vantaggio.
Massima

Sebbene l'art. 8 D. Lgs. n. 231/2001 preveda la responsabilità dell'ente anche in mancanza di identificazione dell'autore, per la piena applicazione della norma è necessario accertare l'esistenza di un reato, nonché individuare la categoria alla quale appartiene l'autore (soggetto c.d. “apicale” o soggetto sottoposto alla direzione o vigilanza del primo) ed escludere che abbia agito nel proprio esclusivo interesse o vantaggio.

Il caso

La vicenda ha ad oggetto una serie di episodi di corruzione nell'ambito di gare di appalto indette da tre colossi operanti nel settore energetico.

In sostanza, la società interessata a partecipare ad una gara veniva contattata da un intermediario delle società appaltanti che offriva o forniva informazioni utili ai fini dell'aggiudicazione dell'appalto o dell'ottenimento di vantaggi nella fase esecutiva della gara.

Il medesimo intermediario si occupava quindi di predisporre fatture o contratti fittizi per giustificare il pagamento della tangente, determinata sulla base del valore dell'appalto e generalmente fatta transitare su conti esteri, per poi essere ripartita tra l'intermediario e le società.

In particolare, per quanto riguarda una delle tre società, gli episodi corruttivi trattati nella sentenza sono riferiti alla fornitura di dodici turbogas. Un'azienda (ALFA) aveva infatti pagato una tangente alla società appaltante BETA per aggiudicarsi l'appalto a discapito di una società concorrente.

Nello specifico, nel marzo 2000, era stato perfezionato un accordo corruttivo tra il direttore commerciale della predetta azienda ALFA (Tizio) ed un funzionario della società appaltante BETA (Caio). Nel marzo 2003 tale accordo era appunto sfociato nel pagamento effettivo della tangente da parte dell'azienda ALFA per il tramite di una società intermediaria GAMMA che aveva agito attraverso il proprio rappresentante legale (Sempronio).

Le questioni giuridiche

I punti su cui si è incentrato il ricorso in Cassazione dei soggetti coinvolti nella vicenda, di interesse ai fini del D. Lgs. n. 231/2001, sono essenzialmente due:

1. Qualifica di pubblico ufficiale riconosciuta in capo a Caio, funzionario della società appaltante BETA, ai fini della configurabilità della fattispecie di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, ex art. 25, comma 3, D. Lgs. n. 231/2001.

Tale qualifica è stata riconosciuta dalla sentenza di appello sulla base di due punti essenziali:

  • ruolo di Project Manager ricoperto da Caio nella società Beta. Tale ruolo, secondo i ricorrenti, sarebbe però stato assunto solo nel 2004, a condotte esaurite;
  • rapporto di dipendenza di Caio con una società (Beta appunto) partecipata dalla società DELTA che svolgeva attività di rilevanza pubblica.

La sentenza tuttavia non avrebbe dato rilievo al fatto che la produzione di energia elettrica non è di per sé attività pubblica, essendo esercitata, in regime di concorrenza, anche da imprese private.

Per i ricorrenti non si potrebbe quindi invocare nella fattispecie in esame la figura del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio

2. Indeterminatezza nell'individuazione del soggetto che aveva proceduto al pagamento della tangente.

La sentenza di appello specifica che all'accordo corruttivo del marzo 2000 tra Tizio e Caio aveva dato seguito un soggetto diverso rispetto al direttore commerciale dell'azienda ALFA, il quale aveva rassegnato le proprie dimissioni nel luglio 2001.

Tale sentenza omette tuttavia l'identificazione della persona fisica che ha materialmente eseguito l'accordo del 2000 effettuando il pagamento nel 2003.

Il reato di corruzione si sarebbe consumato infatti solo con il versamento della tangente nel marzo 2003 non essendo peraltro ancora in vigore il D. Lgs. n. 231/2001 all'epoca dell'accordo corruttivo (marzo 2000).

Questa carenza sarebbe rilevante ai fini del riconoscimento della responsabilità dell'ente ex art. 8 D. Lgs. n. 231/2001 in quanto, pur essendo possibile affermare la colpevolezza dell'ente in assenza di identificazione della persona fisica autore del reato, è necessario tuttavia accertare l'illecito amministrativo in tutte le sue componenti.

In sostanza, l'art. 8 sarebbe applicabile solo ove venisse quantomeno accertata la riconducibilità del soggetto ad una delle categorie ex art. 5 D. Lgs. n. 231/2001, nonché l'organo interno o l'ufficio di appartenenza dell'autore del reato presupposto.

Le soluzioni giuridiche

In merito al primo punto, la Corte di Cassazione ha ritenuto astrattamente corretta la qualifica pubblicistica attribuita al funzionario (Caio) della società appaltante (Beta).

Il percorso logico seguito dalla Corte ha avuto inizio con un esame delle nozioni di pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio secondo quanto previsto dal codice penale (artt. 357 e 358) e, quindi, secondo una concezione “oggettiva” delle qualifiche pubblicistiche.

I caratteri connotanti tali nozioni si basano infatti non tanto sul legame tra soggetto ed ente pubblico quanto piuttosto sulla disciplina pubblicistica che regola l'attività svolta e sui contenuti giuridici ed il rilievo pubblico che la connotano.

La differenza tra i due ruoli risiede nel fatto che il pubblico ufficiale svolge le sue funzioni essendo dotato di poteri deliberativi, autoritativi o certificativi.

Accertato che tali poteri non rientravano sicuramente nella titolarità del dipendente della società appaltante, la Corte ha inteso verificare se al soggetto potesse essere attribuita perlomeno la qualifica di incaricato di pubblico servizio.

In tal senso soccorre senza dubbio l'art. 358 c.p., che offre una definizione di “incaricato di pubblico servizio” svincolata dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con la Pubblica Amministrazione ma ancorata invece allo svolgimento di attività disciplinate nelle stesse forme della pubblica funzione senza i poteri tipici che la connotano.

Da più di un ventennio la giurisprudenza riconosce tale qualifica a funzionari di società per azioni privatizzate che perseguono finalità pubbliche, sostenendo che la trasformazione in società private non elimina la natura pubblicistica propria dell'ente (ex multis, Cass., sez. VI, n. 10138/1998).

È considerato, ad esempio, pubblico ufficiale, il Presidente di una società per azioni concessionaria di autostrade nell'esercizio dell'attività connessa alla scelta dell'appaltatore cui affidare l'esecuzione di progetti di costruzione di tronchi autostradali, nonché di altre opere inerenti l'autostrada: “ le dette attività infatti non sono privatizzate solo perché vengono poste in essere da soggetti privati, ma conservano la loro natura di attività amministrativa in senso obiettivo avendo la funzione di assicurare la protezione dell'interesse pubblico” (Cass., sez. III, n. 1806/1993).

Anche in tema di trasporto ferroviario, riconosciuto quale servizio pubblico essenziale, la Suprema Corte ha ritenuto che la trasformazione in società per azioni dell'ente pubblico economico Ferrovie dello Stato non pregiudicasse in alcun modo il carattere di servizio diretto“a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà, alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'istruzione ed alla libertà di comunicazione” (Cass., sez. VI, n. 6980/1994).

La Cassazione, seguendo il medesimo orientamento, ha riconosciuto la qualifica di pubblico ufficiale anche al dipendente dell'Ente Poste Italiane al quale sia affidata la mansione di addetto al servizio dei conti correnti postali, in quanto, nell'attività connessa alla riscossione delle somme versate in conto corrente, esercita poteri certificativi “che si esplicano attraverso il rilascio di documenti aventi efficacia probatoria”. La trasformazione in società per azioni non ha pregiudicato in alcun modo l'esercizio di tale potere (Cass., sez. VI, n. 7972/1997).

E ancora, in tema di reati contro la Pubblica Amministrazione, devono considerarsi enti pubblici economici in base alla L. 16 giugno 1938, n. 1303, “quelli che perseguono un fine pubblico e sociale attraverso un'attività imprenditoriale improntata a criteri di economicità (che cioè garantiscano almeno un'autosufficienza economica mediante un equilibrio tra costi e ricavi) anche se non necessariamente di lucro” (Cass., sez. VI, n. 6575/2000).

Nel caso in esame, si osserva che il settore energetico deve essere considerato “speciale” e, per ragioni di trasparenza, correttezza e prevenzione di fenomeni corruttivi, anche le società private che vi operano sono tenute all'osservanza della normativa sulle gare ad evidenza pubblica.

Gli appalti di forniture e servizi in tale ambito sono appunto retti da norme di diritto pubblico con limitato ricorso alla trattativa privata e maggiori forme di controllo pubblico.

Da ciò deriva quindi correttamente la qualifica pubblicistica attribuita al funzionario (Caio) della società appaltante (Beta) rilevante ai fini dell'astratta configurabilità della fattispecie di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio ex art. 25, comma 3, D. Lgs. n. 231/2001.

In merito al secondo punto, la Corte di Cassazione ha rimarcato il fatto che la sentenza di appello non ha fornito alcun elemento utile per risalire concretamente alla persona fisica della società ALFA che, unitamente al direttore commerciale (Tizio, poi dimessosi) della medesima società corruttrice, avrebbe portato a termine l'accordo corruttivo con il pagamento materiale.

Per la piena applicazione del D. Lgs. n. 231/2001 occorre infatti che il reato sia commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente da uno dei soggetti indicati nell'art. 5 del Decreto (apicali o sottoposti, in base al “ruolo” peraltro discende un differente meccanismo di responsabilità).

L'art. 8 del Decreto («Autonomia della responsabilità dell'ente») è stato introdotto per ovviare alla difficoltà di procedere all'individuazione dell'autore del reato presupposto nelle organizzazioni a struttura complessa.

Secondo tale articolo, la mancata identificazione del soggetto “non impedisce la prosecuzione del procedimento nei confronti della società indagata nei cui interesse o vantaggio è stato commesso il reato”.

Questa scelta legislativa non comporta tuttavia un'autonomia totale, nel senso che la responsabilità dell'ente deve in primo luogo essere comunque collegata all'obiettiva realizzazione di un reato.

Occorre altresì individuare a quale categoria appartenga l'autore (non identificato) del reato ed escludere che lo stesso abbia agito nel proprio esclusivo interesse o vantaggio.

Solo così facendo il giudice potrà pervenire ad una “decisione di affermazione della responsabilità dell'ente”.

In altre parole la ratio dell'art. 8 è sottolineare che la responsabilità dell'ente è cosa diversa e distinta dalla responsabilità del singolo; esse viaggiano su “binari” separati.

Infatti la norma non opera solo nel caso di mancata identificazione dell'autore del reato.

Si è ritenuto di applicare l'articolo anche quando l'autore non è imputabile, quando è stato assolto per causa diversa dalla non sussistenza del reato (Cass. n. 20060/2013), nell'ipotesi in cui la persona fisica sia deceduta prima della condanna (Trib. Molfetta, 11 gennaio 2010) o quando il reato si è estinto (ad esempio per prescrizione, si veda in tal senso Cass. n. 21192/2013).

Tuttavia non si può invocare l'articolo in esame per ovviare all'accertamento degli elementi costitutivi dell'illecito amministrativo, tra cui se il soggetto è “apicale” o “sottoposto” e il perseguimento di vantaggi o interessi dell'ente.

Quindi solo se si appura l'effettiva commissione di un reato e si verifica l'esistenza dei presupposti previsti dal D. Lgs. n. 231/2001, si potrà affermare la responsabilità dell'ente anche in mancanza della specifica identificazione della persona fisica.

In argomento però l'indagine dei Giudici di secondo grado si è rivelata carente e la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello per un nuovo giudizio.

La pronuncia in commento rappresenta una naturale prosecuzione rispetto alle precedenti interpretazioni dell'art. 8 fornite in passato.

Con la sentenza n. 31989/2006, la Suprema Corte aveva infatti rimarcato che il D. Lgs. n. 231/2001“configura la responsabilità degli enti come autonoma, anche se alla base di essa si colloca il rapporto di carattere organico sussistente con la persona fisica autore del reato, che porta quest'ultima a tenere una condotta illecita nell'interesse o a vantaggio dell'ente (art. 5): si tratta, peraltro, di un collegamento tra individuo e persona giuridica che in alcuni casi sfuma del tutto (art. 8)”.

In tale circostanza la Corte era stata chiamata ad esprimersi in merito ad un ricorso fondato sul presupposto (ritenuto erroneo dalla Cassazione) della sussidiarietà nella confisca del profitto del reato a danno della persona fisica responsabile.

In sostanza il ricorrente sosteneva che, quando il profitto del reato sia stato conseguito da una società per la quale abbia operato uno dei suoi amministratori, la confisca e, poi il sequestro, devono essere disposti a danno dell'ente in via preventiva.

Solo qualora non si riesca a rintracciare il profitto del reato nel patrimonio della società e la stessa non abbia beni di valore equivalente al profitto medesimo, sarebbe possibile disporre il sequestro e la confisca in via sussidiaria nei confronti di chi si sia reso responsabile, anche a titolo di concorso, nel reato.

Successivamente, con la sentenza n. 26611/2009, la Cassazione aveva comunque già precisato che “l'appartenenza dell'autore individuale all'ente è imprescindibile punto di partenza della complessiva vicenda criminosa, nel senso che è proprio la condotta della persona fisica, posta in essere nell'interesse o a vantaggio dell'ente, a determinare l'estensione a questo della responsabilità per il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio”.

E ancora, nel 2015, la Ia sezione, con sentenza n. 35818, ha affermato che, ai fini della sussistenza della responsabilità amministrativa dell'ente ex D. Lgs. n. 231/01, “è necessario che venga commesso un reato da parte di un soggetto riconducibile alla società; non è invece necessario che tale reato sia accertato con individuazione e condanna del responsabile”.

In sostanza il giudice di merito aveva erroneamente ritenuto esclusa la responsabilità amministrativa dell'ente conseguentemente all'assoluzione del suo funzionario.

Osservazioni

Sarà quindi interessante seguire l'ulteriore giudizio della Corte di merito e lo sviluppo della vicenda di indubbia rilevanza soprattutto per gli enti di notevoli dimensioni.

Infatti è proprio nelle grandi strutture, frazionate in molti uffici con più di dieci addetti ciascuno, che può divenire difficile ricondurre una condotta criminosa ad un ambito/settore specifico dell'Azienda.

In tali contesti, diviene quindi più che mai necessaria una stretta regolamentazione dei singoli passaggi operativi in procedure aziendali specifiche (e, conseguentemente, l'attivazione di controlli periodici circa il rispetto di tali procedure), al fine di arginare o quantomeno limitare il rischio di commissione di reati e la conseguente contestazione all'ente ex D. Lgs. n. 231/2001.

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