In che modo la responsabilità da reato delle società opera nei gruppi di impresa?

Ciro Santoriello
20 Gennaio 2017

Come è noto, il d.lgs. 231 del 2001 non contiene alcuna regolamentazione relativa alla responsabilità da reato degli enti collettivi nell'ambito del cosiddetto gruppo di imprese, nonostante l'importanza e la rilevanza, tanto giuridica quanto economica, che il fenomeno del gruppo societario riveste nell'attuale diritto commerciale.
Massima

È ammissibile una responsabilità, ai sensi del d.lgs. 231 del 2001, della società capogruppo per reati commessi nell'ambito dell'attività delle società da essa controllate a condizione che a) il soggetto che agisce per conto della holding concorra con il soggetto che commette il reato per conto della persona giuridica controllata; b) possa ritenersi che la holding abbia ricevuto un concreto vantaggio o perseguito un effettivo interesse a mezzo del reato commesso nell'ambito dell'attività svolta da altra società.

Il caso

In un procedimento penale si contestava ad una pluralità di imputati la predisposizione di un'associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di più reati di truffa aggravata ex art. 640-bis c.p. per il conseguimento di erogazioni pubbliche riconosciute ad imprese italiane operanti all'estero. In particolare gli amministratori di più società esportatrici e facenti parte di un unico gruppo diretto dalla holding di famiglia – i cui gestori si intromettevano direttamente nella gestione operativa delle controllate – dopo aver costituito una fittizia società, apparentemente operativa in Svizzera ma in realtà gestita e controllata dagli imputati per il tramite delle loro imprese operanti in Italia, utilizzavano tale impresa svizzera per interporla fittiziamente nei rapporti commerciali correnti fra le imprese esportatrici italiane e le società estere effettive acquirenti dei beni; in questo modo l'impresa italiana vendeva (apparentemente) i manufatti all'impresa svizzera con pagamento dilazionato a 5 anni a tasso agevolato per l'85% del valore della merce e per il restante 15% cash, l'impresa svizzera – che si ricorda era in realtà facente capo agli imputati italiani – a sua volta vendeva la merce ad un soggetto estero terzo allo stesso prezzo a cui l'aveva acquistata non apportando alcun ricarico, non avendo sopportato alcun costo ma con una dilazione di pagamento di 60/90 giorni; l'impresa svizzera, dopo aver incassato dall'acquirente finale il prezzo della vendita, pagava alla società italiana il 15% della fornitura ed emetteva delle promissory notes (cambiali internazionali) per il restante 85% a favore dell'impresa italiana, la quale a sua volta le portava allo sconto presso un intermediario estero elvetico, attraverso l'utilizzo di un intermediario creditizio italiano che raccoglieva ed inviava a SIMEST – società a partecipazione pubblica che sostiene la crescita delle imprese italiane attraverso l'internazionalizzazione della loro attività – tutti i documenti di esportazione e così inducevano in errore lo Stato italiano, ottenendo attraverso il meccanismo sopra descritto le diverse società facenti capo allo stesso gruppo imprenditoriale sia l'immediato pagamento dei beni venduti che l'erogazione del finanziamento pubblico di sostegno

In sede di merito, accanto alle persone fisiche, per i fatti sopra indicati venivano giudicate responsabili ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 anche le diverse società coinvolte a vario titolo nella vicenda e che avevano goduto dei vantaggi illeciti che ne erano derivati. Tuttavia, fra le società coinvolte i giudici di merito avevano individuato non solo le diverse le società controllate ed operative i cui vertici avevano in effetti partecipato a pieno titolo alla vicenda criminale e che avevano maturato nel proprio patrimonio il profitto delle diverse truffe poste in essere ma anche avevano giudicato colpevole anche la holding capogruppo, la quale – nell'ipotesi accusatoria – aveva omesso di attuare efficaci modelli di prevenzione degli illeciti e non avendo verificato la correttezza delle condotte delle società controllate con riferimento all'ottenimento ed alla gestione dei contributi percepiti dallo Stato tramite la SIMEST.

In sede di ricorso per cassazione, quest'ultima statuizione di responsabilità era impugnata dalle difese, secondo cui sarebbe stato implausibile sostenere la responsabilità da reato di una società pacificamente estranea ad ogni condotta criminosa ed in quanto tale anche non beneficiaria di alcuno dei vantaggi economici derivanti dalla vicenda. Nel caso di specie, dunque, la responsabilità della holding si sarebbe potuta sostenere solo evocando la dottrina della impresa di gruppo, già non accolta in termini generali dalla giurisprudenza ed in ogni caso, con specifico riferimento alla responsabilità degli enti da reato, da sempre viene esclusa la configurabilità di un interesse di gruppo, e conseguentemente la possibilità di dichiarare la holding responsabile ex d.lgs. 231 del 2001 per il solo fatto della commissione di un illecito da reato in seno ad una controllata, dovendo sempre e comunque ricorrere i criteri ascrittivi di cui agli artt. 5 ss. del predetto decreto 231.

La questione

Come è noto, il d.lgs. 231 del 2001 non contiene alcuna regolamentazione relativa alla responsabilità da reato degli enti collettivi nell'ambito del cosiddetto gruppo di imprese, nonostante l'importanza e la rilevanza, tanto giuridica quanto economica, che il fenomeno del gruppo societario riveste nell'attuale diritto commerciale (anche in dottrina il tema non pare aver ricevuto particolare attenzione. Sul punto si segnalano, SCAROINA e SANTORIELLO; PISTORELLI; SGUBBI). È stato dunque principalmente in ambito dottrinario che si è verificato se il sistema sanzionatorio delineato dal decreto legislativo 231/2001 possa trovare applicazione anche nell'ipotesi in cui uno dei reati indicati dagli artt. 24 ss. d.lgs. 231 del 2001 sia stato posto in essere nell'interesse o a vantaggio di un raggruppamento di imprese.

In proposito, si è sostenuto che lo stesso raggruppamento d'imprese sarebbe un diretto destinatario delle sanzioni previste dal citato decreto legislativo 231/2001: nonostante nell'art. 1 del d.lgs. 231/2001 non compaia alcun riferimento diretto a tale ipotesi, si potrebbe sostenere – richiamando anche esperienze straniere (si pensi, ad esempio, all'ordinamento statunitense) – che pure il gruppo societario, in quanto ente privo di personalità giuridica, potrebbe ritenersi potenziale soggetto attivo, ai sensi del comma 2 del citato art. 1, degli illeciti dipendenti da reato (Giudice delle indagini preliminari presso trib. Milano, 20 settembre 2004, secondo cui la holdingesercita, in modo mediato, la medesima attività d'impresa che le controllate esercitano in modo immediato e diretto; l'oggetto della holding in questo caso non è la gestione di partecipazioni azionarie come tali, ma l'esercizio indiretto di attività d'impresa. Si veda anche trib. Milano, Sez. riesame, 20 dicembre 2004, in Il merito, 2005, 2, 61). In dottrina, poi, si è sostenuto che, laddove il reato sia stato posto in essere nell'ambito di un raggruppamento di imprese e risponda alla logica imprenditoriale del gruppo stesso, occorre ricostruire la nozione di interesse in termini peculiari e particolarmente ampli, onde riconoscere rilevanza anche al cosiddetto interesse di gruppo, inteso quale interesse che prescinde dalle particolari posizioni delle diverse società che compongono il gruppo per identificarsi in un interesse unitario da riferirsi direttamente alla holding o al raggruppamento imprenditoriale complessivamente inteso (DI GIOVINE, secondo cui un'interpretazione lata della locuzione legislativa [di cui all'art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001] consente di ritenere che un comportamento nell'interesse della controllata sia realizzato anche in quello della controllante. Nello stesso senso, PECORELLA; FOFFANI)

A questa impostazione è stato però obiettato che l'interesse che rileva per fondare la responsabilità da reato di una persona giuridica deve essere immediato e diretto e non frutto di affrettate generalizzazioni mentre individuare nel gruppo il destinatario delle disposizioni presenti nel decreto del 2001 presuppone una lettura in controluce del fenomeno di gruppo all'interno di un meccanismo di imputazione che, verosimilmente, non lo aveva tenuto in considerazione e che, allo stato, non è in grado di adattarsi ad esso (SCAROINA, 120. Così anche PISTORELLI). Inoltre, la tesi sovra esposta pretende di rinvenire nel gruppo di imprese un unico soggetto di diritto ma l'autonoma personalità giuridica delle diverse società che compongono il gruppo è di ostacolo alla operazione ermeneutica sopra indicata anche per un altro profilo ed ammettere la responsabilità della holding per reati commessi da soggetti che operano all'interno di una delle società controllate porterebbe a sconfessare l'intero impianto (oggettivo e soggettivo) del decreto, [il quale] condiziona la punibilità dell'ente all'adozione ed attuazione di un modello che da un lato, disciplini le attività a rischio reato e, dall'altro, abbia efficacia in qualche modo prescrittiva - essendo espressione del potere di autoregolamentazione dell'ente – nei confronti sia dei vertici che dei sottoposti: in tale contesto è evidente che la holding, non avendo alcun potere giuridico di imporre alla controllata l'adozione di un modello efficace, si troverebbe, nel caso di commissione da parte di esponenti di questa di un reato, ad essere responsabile del conseguente illecito in virtù di un generico potere di vigilanza e pure nell'impossibilità (giuridica) di apprestare le cautele richieste dall'ordinamento (BASTIA).

Altri autori hanno invece sostenuto, sempre nell'intento di consentire l'operatività anche nei confronti del gruppo di imprese del sistema sanzionatorio del decreto legislativo 231/2001, che – sulla base di quanto disposto dagli artt. 5 e 6 d.lgs. 231 del 2001 – potrebbe rinvenirsi una responsabilità diretta della holding per illeciti commessi da parte delle altre società nell'interesse della capogruppo o del gruppo complessivamente inteso. Questa affermazione postula l'adesione ad una prospettiva secondo la quale la holding potrebbe configurarsi quale amministratore di fatto della o delle società controllate (per un suggerimento in tal senso, sia pur senza alcun riferimento al tema in esame, ROSSI), di modo che la società controllante sarebbe responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone che, in quanto esponenti della società controllata sottoposta alla direzione di gruppo della controllante, sono a loro volta sottoposte alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lett. a) art. 5 d.lgs. 231/2001, a loro volta esponenti della società controllante esercente la direzione di gruppo (MONTALENTI, il quale ritiene che, a sua volta, la società controllata sarebbe responsabile per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da esponenti della società controllante, i quali esercitano anche di fatto la direzione e la gestione del gruppo). La tesi può essere condivisa solo con riferimento all'ipotesi di cosiddetto gruppo apparente, in cui l'autonomia delle persone giuridiche è mera forma, giacché in realtà vi è un unico soggetto giuridico cui realmente imputare gli effetti delle condotte materiali tenute (dai soggetti che operano per conto delle) dalle società controllate; di contro, al di fuori di tale ipotesi, estranea alla fisiologia dei gruppi, di regola caratterizzati da una sostanziale autonomia delle società che ne fanno parte, la costruzione teorica sopra illustrata non pare poter trovare applicazione alcuna. In sostanza, se è vero che non si rinvengono indici normativi che possano escludere la possibilità di qualificare l'holding o i soggetti che per essa operano quali amministratori di fatto delle società controllate – e per questa strada sarebbe dunque possibile ricostruire una responsabilità della capogruppo per fatti di reato commessi da parte delle società controllate – occorre evitare di giungere a pericolose generalizzazioni, ritenendo esistente una forma di assoluto controllo e dominio ogni qualvolta vi sia un forma di controllo azionario – sia pur di livello significativo – mentre invece può correttamente e fondatamente parlarsi di una responsabilità della holding quale amministratore di fatto delle società del gruppo solo in presenza di una ingerenza non episodica della capogruppo nella direzione e nell'attività concreta delle controllate, di cui vengono definite non solo le strategie generali ma anche le concrete e singole condotte operative, fino ad escludere ogni significativo margine di autonomia in capo alle altre società facenti parte del medesimo raggruppamento (SCAROINA, 236).

Queste ultime considerazioni possono essere riprese anche con riferimento alla tesi – di origine prevalentemente giurisprudenziale ma che trova adesioni anche in dottrina – secondo cui in capo alla capogruppo sarebbe rinvenibile un generico obbligo di vigilanza sull'operato delle controllate, così da fondare in capo ad essa o ai suoi vertici una posizione di garanzia ex art. 40 cpv. c.p., con conseguente possibile responsabilità da reatodella holding in relazione a reati commessi dalla controllante in vista di un proprio interesse o di un proprio vantaggio (In giurisprudenza, per questa tesi, con particolare riferimento alla tematica del falso contabile nel bilancio consolidato, cfr. Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2000, Romiti, in Giur. It. 2001, p. 2343. In dottrina, con varietà di accenti, BONELLI). Come si vede, rispetto alla tesi viste in precedenze, in questo caso la responsabilità della società capogruppo è costruita in relazione ad una condotta illecita tenuta da terzi – in particolare dalle persone giuridiche controllate – in vista del perseguimento di un interesse o di un vantaggio non facente capo alla holding, bensì riferibile direttamente al soggetto che agisce in maniera illecita; nondimeno, la responsabilità della holding è ritenuta sussistente nella misura in cui su di essa soggetto grava una posizione di garanzia rispetto alla condotta delle società controllate, per cui la capogruppo è tenuta ad impedire che le persone giuridiche di cui detiene il controllo possano realizzare violazioni della legge penale.

Sicuramente, in ipotesi assolutamente residuali – in cui l'esistenza di una pluralità di persone giuridiche controllate da un'unica società è una mera apparenza, posto che sulla condotta degli organi sociali delle diverse controllate i soggetti che gestiscono la holding vantano un dominio pressoché assoluto – è possibile sostenere la responsabilità della capogruppo per reati commessi dai sottoposti che gestiscono le altre società controllate: in questo caso, peraltro, la responsabilità della capogruppo non si fonda su una presunta violazione, da parte dei sui amministratori, di un obbligo di garanzia ex art. 40 c.p. ma più direttamente la holding va sanzionata secondo il d.lgs. 231/2001 in quanto i suoi organi gestori hanno concorso, ex art. 110 c.p., con gli amministratori delle società controllate nella realizzazione dei diversi reati. Detto altrimenti, ribadendo quanto sostenuto sopra, deve riconoscersi che allorquando si è di fronte ad una “finzione di gruppo”, perché vi è una integrale precostituzione delle decisioni spettanti all'organo amministrativo della controllata, al quale le decisioni già assunte dalla controllante vengono sottoposte solo per essere pedissequamente trascritte nei verbali consiliari … ed ogni operazione imputata alla controllata è decisa, in ogni particolare, dagli amministratori della pseudo-controllante (GALGANO, cui si deve anche l'espressione “finzione di gruppo”), il sistema sanzionatorio disegnato dal d.lgs. 231/2001 è senz'altro applicabile alla supposta holding, e ciò in quanto questa società non si limita alla mera gestione di partecipazioni azionarie ma di fatto svolge direttamente – sia pur con l'interposizione fittizia di altri soggetti giuridici – un'attività imprenditoriale, realizzando nel corso della stessa svariate attività illecite.

Al di fuori di tale ipotesi, però, la tesi in commento si presenta assolutamente criticabile perché l'esercizio di una direzione unitaria non determina certo l'instaurarsi di una posizione di supremazia gerarchica assoluta ed immutabile, posto che, anche nell'ambito del gruppo di imprese, ciascuna società mantiene assolutamente una propria personalità giuridica ed un propria autonomia operativa, con la conseguenza che gli amministratori della holding, pur se venissero a conoscenza di illeciti commessi nella gestione delle società controllate, da un lato non avrebbero il dovere di impedire che le altre società presenti nel medesimo gruppo conformino la loro condotta ai dettami del diritto penale (SGUBBI) e dall'altro comunque non avrebbero a loro disposizione alcuno strumento giuridico per intervenire e costringere gli amministratori delle altre persone giuridiche a modificare il proprio atteggiamento ed inoltre manca in capo alla holding ed a quanti la governano.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione, dunque, conferma – secondo quanto già asserito in altra occasione (Cass. pen., Sez.V, 17 novembre 2010, n. 24583) – che una responsabilità da reato ex d.lgs. n. 231 della holding societaria è senz'altro configurabile, posto che nessuna disposizione della novella del 2001 esclude la possibilità di applicare le sanzioni ivi previste ad enti collettivi che abbiano come loro attività sociale – prevalente o esclusiva – la gestione di partecipazioni azionarie. Tuttavia, i criteri di imputazione del fatto di reato alla società capogruppo non potranno differenziarsi – se non in minima parte, secondo quanto si dirà subito dopo – da quanto stabilito in via generale, per qualsiasi persona giuridica, dagli artt. 5, 6 e 7 d.lgs. 231 del 2001.

In particolare, presupposto fondamentale della responsabilità da reato della holding è che, secondo quanto dispone il citato art. 5, alla commissione dell'illecito abbiano partecipato a) persone che rivestono, nell'ambito della capogruppo, funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso, ovvero b) persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). Solo se anche tali soggetti, legati all'ente controllante da rapporti di rappresentanza o subordinazione, hanno partecipato alla commissione del delitto, sarà possibile ipotizzare una responsabilità della holding per fatti di reato.

Soddisfatta tale prima condizione – comune, come è evidente, a qualsiasi ipotesi di responsabilità dell'ente collettivo, quale che sia la natura e l'attività operativa esplicata da questo – è possibile evidenziare in che termini la ricostruzione della responsabilità ex d.lgs. 231/2001 della società capogruppo possa differenziarsi rispetto all'ipotesi in cui il sistema sanzionatorio della novella del 2001 venga applicato ad altre società. Nel caso della holding, infatti, la condotta delittuosa dei soggetti ad essa legati da rapporti di rappresentanza o subordinazione non deve consistere in fatti di reato estrinsecatesi e riguardanti la medesima persona giuridica, potendo l'illecito riguardare anche l'attività delle società controllate: detto altrimenti, mentre laddove si discute della responsabilità da reato di una società operativa occorre che il crimine sia stato posto in essere nell'esercizio dell'attività della società medesima, la capogruppo può rispondere – se vi hanno concorso i propri organi gestori – anche in relazione a reati che sono stati commessi nell'ambito della gestione di altre società (si pensi, ad esempio, ad una holding che svolga attività di tesoreria ed economato per conto delle società del gruppo e nel corso di tale attività provveda alla predisposizione di fondi neri che volta a volta consegna alle controllate perché queste possano pagare tangenti per la partecipazioni ad appalti pubblici: il reato è commesso nell'ambito ed in relazione ad una attività svolta non dalla holding, ma da una società partecipata ma l'illecito è comunque riferibile alla holding perché posto in essere con il concorso di propri organi apicali o di propri sottoposti (Nel senso che l'affermazione della responsabilità della holding postula il concorso nel reato dei suoi rappresentanti, SCAROINA, 252; DI GIOVINE, 117).

Va detto, peraltro, che nel valutare la corresponsabilità, nel reato commesso da gestori o sottoposti delle società controllate, degli amministratori della capogruppo non potranno assumersi atteggiamenti probatori caratterizzati da scarso rigore, da richiami a generiche massime di esperienza, quale, ad esempio, quella secondo cui la direzione unitaria del gruppo facilita inevitabilmente l'intromissione dei gestori della holding nelle altrui attività illecite. In realtà, soprattutto laddove la responsabilità concorsuale degli amministratori della controllante si fondi – non su un contributo materiale al fatto illecito, nel qual caso, evidentemente, la prova del concorso nel reato è senz'altro più agevole, ma sul più evanescente – su un contributo ed una istigazione di carattere morale, una affermazione di condanna (tanto delle persona fisiche che della società) richiederà la dimostrazione che dalla holding è pervenuta non una generica direttiva all'ottenimento di determinati risultati imprenditoriali, per il cui raggiungimento i gestori delle controllate hanno ritenuto di dover agire delittuosamente, quanto veri e propri suggerimenti penalmente illegittimi.

Analoga serietà di approccio va assunta laddove si tratti di verificare se sussista il secondo dei requisiti necessari perché possa parlarsi di una responsabilità da reato della holding, ovvero che il delitto sia stato commesso a suo vantaggio o nel suo interesse. La circostanza, infatti, che il reato sia stato commesso – con il concorso degli amministratori della capogruppo ma – nell'ambito dell'attività di una società controllata rende l'interesse connesso all'azione delittuosa o il vantaggio che ne consegue non immediatamente riferibile alla società controllante, con la conseguenza che una responsabilità di quest'ultima per fatti di reato commessi nell'esercizio di attività imprenditoriali di altre società sussiste solo laddove sia possibile – sulla base di un attento esame della vicenda concreta – sostenere che l'interesse perseguito dalla controllata o il vantaggio da questa ottenuto si riverbera in maniera significativa sul patrimonio e sulle disponibilità della holding: si pensi, ad esempio, ad una capogruppo che fornisca in via esclusiva alla controllata materiali – calcestruzzo, cemento ecc. – per la realizzazione di immobili, di modo che il pagamento di tangenti da parte della controllata per l'aggiudicazione di un appalto pubblico avente ad oggetto la costruzione di un complesso immobiliare si traduce direttamente anche in un vantaggio per la controllante che vede aumentare le proprie possibilità di vendita dei propri prodotti. Di contro, paiono anche per tale profilo inaccettabili generalizzazioni secondo cui ogni vantaggio patrimoniale conseguito dalle società operative è destinato inevitabilmente, in un modo o nell'altro, a riverberarsi sulla persona giuridica che detiene le partecipazioni azionarie di maggioranza: quale interesse abbia soddisfatto o quale vantaggio abbia maturato l'holding deve essere pienamente provato dall'accusa per poter applicare a tale società le sanzioni descritte dal decreto legislativo 231/2001.

Guida all'approfondimento

BASTIA, Implicazioni organizzative e gestionali della responsabilità amministrativa delle società, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato negli enti collettivi, a cura di PALAZZO, Padova 2003, 64;

BONELLI, La responsabilità della controllante per gli illeciti delle controllate, in Dir. Comm. Internaz., 1987, 347;

DI GIOVINE, La responsabilità degli enti: lineamenti di un nuovo modello di illecito punitivo, in AA.VV., Diritto penale ed impresa: un rapporto controverso, a cura di MANNA, Milano 2004, 549;

FOFFANI, Responsabilità delle persone giuridiche e riforma dei reati societari, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato negli enti collettivi, a cura di PALAZZO, Padova 2003, 254;

GALGANO, I gruppi di società, Milano 2001, 205;

MONTALENTI, Corporate Governance, consiglio di amministrazione, sistemi di controllo interno: spunti per una riflessione, in Riv. Soc., 2002, 836;

PECORELLA, Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti. Il d.lgs. 8 giugno 2001 n 231, Milano 2002, 83;

PISTORELLI, Brevi osservazioni sull'interesse di gruppo quale criterio oggettivo di imputazione della responsabilità da reato, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2006, 1, 11;

ROSSI, L'estensione delle qualifiche soggettive nel nuovo diritto penale delle società, in Dir. Pen. Proc., 2003, 392;

SCAROINA, Societas delinquere potest. Il problema del gruppo d'imprese, Milano 2006;

SANTORIELLO, Gruppi di società e sistema sanzionatorio nel d.lgs. n. 231 del 2001, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2007, 4, 128;

SGUBBI, Gruppo societario e responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del D.Lgs. 231/2001, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2006, 1, 7.

(Fonte: ilPenalista.it)

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