La riforma del sistema bancario nell’evoluzione normativa
20 Luglio 2016
Premessa
In poco più di un anno, Parlamento, Governo e - per quanto di sua competenza - Bankitalia hanno dato vita ad una corposa riforma del sistema bancario italiano il cui pilastro centrale, rivoluzione tutt'altro che indolore, prende correntemente il nome di bail-in. Secondo i puristi - che reclamano l'uso ogni volta che è possibile della lingua italiana – l'espressione è traducibile con garanzia o copertura interna del rischio di default, contrapposto al previgente sistema del bail-out, in cui facevano fronte ai rischi degli inadempimenti del sistema bancario, almeno in parte, capitali pubblici.
Nel contempo è stata anche approvata una corposa riforma del sistema delle banche popolari (D.L. n. 3/2015, conv. con L. n. 33/2015), la cui attuazione è anch'essa tutt'ora in corso, in quanto collegata a successive disposizioni attuative ed in particolare alla Circolare n. 285 della Banca d'Italia, una sorta di summa delle disposizioni in materia di vigilanza per le banche, nella quale è stata introdotta una sezione (Parte III, cap. 4) la cui entrata in vigore è stata deliberata nello stesso giorno dell'entrata in vigore del D. Lgs. 12 maggio 2015 n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l'accesso all'attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 e al D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), che ha preso vigenza il giorno 27 giugno 2015, quindici giorni dopo la sua pubblicazione nella G.U. Serie Generale n. 134 del 12 giugno 2015. Non vi è chi non percepisca a quale intrico di disposizioni normative primarie e secondarie e di atti di alta amministrazione il legislatore abbia affidato una riforma del sistema che ci si sarebbe aspettati concisa e rapidissima, e che invece è stata anche diluita nel tempo, per più di un anno, con le inevitabili conseguenze che ciò ha sui già nervosi e volatili mercati finanziari, specie in materia di titoli bancari. Il solo comparto delle banche popolari meriterebbe una disamina puntuale e specifica; qui basti dire che le disposizioni evocate prevedono che solo determinate banche minori (la soglia è stata determinata in otto miliardi di attivo) mantengano la loro tradizionale natura, seppur con qualche modifica, di banche popolari basate eminentemente sull'apporto di soci e contraddistinte da una governance capitaria, prevedendo per contro l'avvicinamento di tutte le altre – in forma coattiva - a modelli bancari societari, ritenuti più competitivi e più trasparenti nel mercato dei capitali e sostanzialmente omologhi a quelli ordinari.
E' stata licenziata anche la riforma del sistema delle banche di credito cooperativo, con il D.L. 14 febbraio 2016, n. 18 (Decreto Banche), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 8 aprile 2016, n. 49. Anch'esse ormai ritenute inadeguate ad affrontare la competizione nazionale ed internazionale nel mercato, certamente in Italia ancora molto affollato, degli operatori finanziari e bancari. Anche qui, la chiave di volta è stata una incisiva modifica della governance, ma anche della dimensione minima del soggetto titolare dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività bancaria, attraverso la costituzione obbligatoria del c.d. gruppo bancario ed il deferimento ad esso di talune delle funzioni essenziali delle originarie BCC; la riforma sta avendo contrastata attuazione, talvolta elusiva, e sono forti le resistenze del sistema bancario cooperativo a piegarsi alla nuova organizzazione tracciata. L'intero tema meriterebbe una riflessione profonda ed una attenzione vigile, perché non basta l'impianto normativo a determinare il necessario cambiamento di governance e di indirizzi del sistema bancario, occorre anche la contemporanea messa in campo di strumenti finanziari adeguati; finora tanto la trasformazione delle banche territoriali, un tempo tutte ricomprese nella realtà delle Casse di Risparmio e poi rifluite nel sistema delle Fondazioni, quanto di quelle di derivazione sociale, come le popolari e le banche di credito cooperativo, non si può dire abbia conseguito successi e sia stata indolore ed è forse il momento di indicare al legislatore nazionale, ma anche a quello europeo, una rotta meno legata all'emergenza ed alla ricerca a tutti i costi di stabilità secondo stilemi tradizionali, ma più attenta ai diritti dei risparmiatori, perché tali possono essere definiti in gran parte i titolari di titoli del sistema bancario ed anche ai costi reali di talune scelte sul sistema economico nazionale.
Infatti, come forse tardivamente ora si comincia a comprendere, la perdita di stabilità dei mercati finanziari e la difficoltà delle banche nell'operare proficuamente nel sistema creditizio producono a carico del contribuente – a causa degli oneri finali reali delle operazioni di Bankitalia e della BCE – costi ingentissimi, non sempre, anzi mai direttamente calcolati ed imputati alle crisi bancarie.
Peraltro il dogma-tabù dell'impossibilità ontologica dell'intervento pubblico, anche se temporaneo, finisce per provocare costi maggiori e soprattutto per indebolire le economie europee più fragili, specie se ci si confronta con quelle di paesi, USA compresi, che hanno minore rigidità ideologica nell'uso di strumenti interventisti nelle crisi economiche.
Un tema che è di stringente attualità, alla luce della possibile, anzi auspicabile crisi a cui dovrebbe essere sottoposto un altro dei pretesi pilastri del sistema economico-bancario giuridico europeo, il c.d. burden sharing. Infatti con un atto la cui idoneità a produrre effetti giuridici obbligatori per gli stati membri è molto controversa, la Commissione europea con “Comunicazione” del 10 luglio 2013 destinata ad avere efficacia dall'1 agosto 2013 aveva preteso di modificare la disciplina comunitaria in materia di aiuti di stato al settore finanziario in parte riformando ed in parte integrando le regole applicabili agli enti creditizi che, in un contesto di crisi, necessitino di misure di ricapitalizzazione e sostegno pubblico. La Commissione da quel momento non si è limitata a richiedere che le misure di ricapitalizzazione di matrice pubblica in favore di un istituto bancario fossero autorizzate solo contestualmente all'approvazione del piano di ristrutturazione della banca beneficiaria, mentre la prassi precedente della Commissione era invece quella di approvare dapprima le misure di ricapitalizzazione e successivamente valutare il piano di ristrutturazione, ma aveva già inasprito, ben prima del bail-in i requisiti di burden-sharing, richiedendo che fossero gli azionisti e i creditori privati della banca, in prima battuta, a contribuire alla ricapitalizzazione della stessa e che in ogni caso misure di concorso dei privati si accompagnassero obbligatoriamente alla residua e circoscritta possibilità di un intervento pubblico. Il recepimento della Direttiva BRRD
Ciò detto, scopo specifico di questo intervento è concentrarsi sugli effetti di un altro drammatico capitolo apertosi nell'introduzione - peraltro solo a metà – della pratica del bail-in nella regolazione delle crisi di impresa bancaria, prima affidate non solo alla tradizionale attività di intervento attivo della Banca Centrale, nelle forme dell'amministrazione straordinaria e, nei casi disperati, di liquidazione coatta amministrativa, ma anche ad interventi in cui, sotto la sorveglianza e talora il prudente suggerimento della stessa Banca Centrale, sono state poste in essere iniziative di fusione o almeno di intervento nel capitale bancario delle realtà in crisi che hanno talvolta robustamente trasformato in maniera meno traumatica possibile l'assetto del sistema bancario.
Ben può dirsi, con giudizio non previsionale e prognostico, ma purtroppo dovuto agli esiti attuali del riassetto del sistema bancario e quindi del tutto oggettivo, che la scelta di non impegnare - come largamente fatto in altri Paesi, massimamente in Germania - capitali pubblici, non ha affatto dimostrato la solidità del sistema bancario italiano, come pur si sperava, e che inadeguato si è anche dimostrato il sistema delle Fondazioni bancarie e quello dei controlli, sia diretti sia della Consob; anche queste valutazioni tuttavia meritano approfondimenti che esulano dai limiti del presente lavoro, concentrato sull'esordio di un sistema che abbiamo definito di “quasi bail-in” su alcune realtà già in crisi al momento in cui in Italia sono state avviate le procedure per il recepimento della direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014 in materia di risanamento e risoluzione degli enti creditizi, la c.d. Bank Recovery and Resolution Directive, spesso per brevità denominata anche “Direttiva BRRD” o addirittura solo BRRD.
Con l'affanno e la scarsa lungimiranza che contraddistingue il legislatore italiano in tema di recepimento di norme europee, complice una pubblicistica disinformata che vuole le disposizioni UE circoscritte alla misura delle banane e delle reti da pesca, soltanto con la L. n. 9 luglio 2015, n. 114 (legge di delegazione europea 2014) il legislatore italiano si poneva ex professo il problema del recepimento in Italia di tale disposizione europea, che lungi dall'essere di scarso peso era appunto quella che prevedeva che alle crisi bancarie si facesse fronte solo con “capitali interni al sistema economico” (come del resto in ogni altra attività economica, almeno teoricamente). La finalità generale della direttiva è quella di evitare liquidazioni disordinate, che amplifichino gli effetti e i costi della crisi, dotando le autorità di risoluzione di strumenti che consentano un intervento precoce e efficace, riducendo al minimo l'impatto del dissesto sull'economia e sul sistema finanziario. È altresì notevolmente limitata la possibilità di salvataggi pubblici. Va, inoltre, segnalato che la Direttiva introduce un potere di vigilanza diretto dell'autorità bancaria centrale europea su molti soggetti nazionali che esercitano il credito, limitando oggettivamente il ruolo dei singoli istituti centrali nazionali; anche questo aspetto non è stato dagli osservatori messo in evidenza come forse avrebbe dovuto.
Con due distinti decreti legislativi, 16 novembre 2015 n. 180 e 16 novembre 2015 n. 181 si recepiva alfine compiutamente nell'ordinamento nazionale la direttiva 2014/59/UE, che comunque prevedeva che gli stati membri dovessero armonizzare i loro sistemi bancari alle nuove regole europee entro l'1 gennaio 2016. I testi, prima della loro approvazione definitiva, sono stati modificati per accogliere talune delle osservazioni proposte dalle Commissioni parlamentari competenti. In particolare allo scopo di adeguarsi alle condizioni indicate nei pareri parlamentari, si è rinviata al 2019 l'applicazione delle norme dell'estensione della c.d. depositor preference ai depositi diversi da quelli protetti dal sistema di garanzia dei depositi e di quelli delle persone fisiche e delle piccole e medie imprese.
Il D. Lgs. n. 180, la vera novità del sistema legislativo, è un autonomo e compiuto provvedimento legislativo che reca la disciplina in materia di predisposizione di piani di risoluzione, avvio e chiusura delle procedure di risoluzione, adozione delle misure di risoluzione, gestione della crisi di gruppi cross-border, poteri e funzioni dell'autorità di risoluzione nazionale e disciplina del fondo di risoluzione nazionale. Le attività connesse con la risoluzione spettano all'autorità di risoluzione le cui funzioni, in attuazione dello specifico criterio di delega, sono state attribuite alla Banca d'Italia. L'applicazione del puro bail-in(meccanismo di salvataggio interno), come consentito dalla Direttiva e previsto dalla delega, era previsto per il 1° gennaio 2016. In sostanza, si introduce nell'ordinamento bancario nazionale uno strumento completamente nuovo di salvataggio, o almeno di assistenza alle imprese bancarie in crisi, in mano a Bankitalia, tanto che dovrebbe funzionare essenzialmente mediante provvedimenti amministrativi, seppur fortemente protetti dalla legge, del MEF e della medesima Banca Centrale, sempre più protagonista unica nel sistema, nei ruoli (alquanto divergenti e conflittuali, in verità) di regolatore, controllore, motore ed attuatore del sistema di governo delle crisi bancarie.
Il secondo provvedimento (il D. Lgs. n. 181) apportava invece significative, ma meno traumatiche modifiche al D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico bancario – T.U.B.) e al D. Lgs. 24 febbraio 1998 , n. 58 (Testo unico della finanza – T.U.F.) al fine di introdurre la disciplina dei piani di risanamento, del sostegno finanziario infragruppo, delle misure di intervento precoce, mentre l'amministrazione straordinaria veniva allineata alla disciplina europea. Veniva inoltre modificata la disciplina della liquidazione coatta amministrativa, per adeguarla al nuovo quadro normativo previsto dalla Direttiva e apportare alcune innovazioni alla luce della prassi applicativa. Emerge dall'intero quadro normativo un rafforzamento dei poteri autoritativi dell'Autorità Bancaria centrale ed uno scarso peso di meccanismi di controllo anche di natura giurisdizionale diversi da quelli endogeni, uscendo fortemente depotenziati persino i diritti di impugnazione delle risoluzioni e l'esercizio delle controversie discendenti dalla lesione dei diritti di azionisti, obbligazionisti e creditori delle banche in crisi; quanto questo sia coerente con gli stessi principi della Direttiva europea e con la loro applicazione pratica negli altri Paesi è tutto da valutare. Dopo questo necessario ancorché sintetico quadro generale, veniamo all'atterraggio pratico assai brusco del bail-in nel sistema bancario nazionale. Infatti, appena a ridosso dell'entrata in vigore, fissata per l'ormai decorso 1 gennaio 2016, del D. Lgs. 180/2015, il Governo, evidentemente preoccupato per l'entrata assai prossima a regime del bail-in, approvava un decreto-legge, il n. 183 del 22 novembre 2015, destinato a breve vita, in quanto il suo contenuto, con qualche modifica, veniva inserito nella L. n. 28 dicembre 2015, n. 208 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - denominata correntemente legge di Stabilità 2016), pubblicata nella G.U. Serie Generale n. 302 del 30 dicembre 2015 - Suppl. Ord. n. 70, entrata in vigore l'1 gennaio 2016, ad eccezione delle disposizioni di cui ai commi 20, 671, 678, 684, 735, 837 e 838 che sono entrate in vigore il 30 dicembre 2015 e delle disposizioni di cui ai commi 172, 173, 174, 175 e 569 che sono entrate in vigore il 31 dicembre 2015.
In sostanza, il D.L. n. 183/2015 veniva espressamente semplicemente abrogato dall'art. 1, comma 854, della legge di Stabilità, che - come d'uso - ne faceva salvigli effetti medio tempore prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo provvedimento.
Secondo correnti analisi, l'azione si era resa necessaria sia per tentare di sottrarre ai rigori del bail-in almeno alcune categorie di prevedibili danneggiati dalla crisi ormai non più contenibile di alcune banche (massimamente gli obbligazionisti non subordinati e i correntisti con oltre centomila euro di deposito, prede dell'ormai prossimo bail-in), sia alla luce del calcolo dei costi che la refusione dei depositi protetti avrebbe comportato in ultima analisi per il medesimo sistema bancario, chiamato a rifondere attraverso il fondo di garanzia tutti i depositi protetti delle quattro banche in questione, di importo sicuramente maggiore del miliardo circa messo a disposizione per l'operazione di risoluzione come capitale sociale dell'ente-ponte e dei prevedibili costi dell'operazione, sterilizzati dalle norme della legge di stabilità almeno sotto il profilo fiscale. Il provvedimento, e poi quanto rifluitone nella legge di Stabilità, è per la verità assai singolare in quanto – come vedremo dal suo contenuto – normativizza con fonte primaria quanto appena qualche giorno prima era stato legiferato dovesse compiersi con provvedimenti di amministrazione, ancorché qualificabili di alta amministrazione ed assistiti, come abbiamo detto, da forti protezioni in ogni sede giurisdizionale e informativa. Una sorta, usando parola ora assai utilizzata, di super-blindatura, evidentemente nel timore di impugnazioni, dilazioni ed inciampi nell'esecuzione della prima procedura di risoluzione attuata nel nostro Paese.
Infatti il decreto legge (ed ora la legge, non di conversione tecnica, ma di sussunzione nell'ordinamento dei suoi contenuti, tanto che se ne discute la costituzionalità) sperimenta su quattro banche in grave crisi, sebbene in vari stadi procedimentali, la procedura di risoluzione, costituendo (ora così dispone il comma 842 della legge di Stabilità)con effetto dalle ore 00,00 del 23 novembre 2015, quattro società per azioni, denominate Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara Spa, Nuova Banca delle Marche Spa, Nuova Banca dell'Etruria e del Lazio Spa, Nuova Cassa di risparmio di Chieti Spa, tutte con sede in Roma, via Nazionale, 91, aventi per oggetto lo svolgimento dell'attività di “ente-ponte” (Bridgebank) ai sensi dell'art. 42, D. Lgs. 16 novembre 2015, n. 180.
La norma espressamente afferma di porsi l'obbiettivo di consentire alle vecchie banche poste in risoluzione di mantenere la continuità delle funzioni essenziali precedentemente svolte e di favorirne la cessione a terzi al momento in cui lo consentiranno le condizioni di mercato. Al momento in cui scriviamo la cessione, più volte annunziata e che addirittura avrebbe dovuto avverarsi entro il decorso mese di aprile, sembra rinviata di qualche mese, sebbene le offerte di cui da più parti si discute non sembrano particolarmente lusinghiere e suscitano profonde perplessità, per il dispiegarsi stesso di una così costosa e complessa operazione in relazione ai risultati che si sarebbero potuti perseguire con una maggiore celerità delle procedure di amministrazione straordinaria a cui le banche “risolte” erano già state sottoposte da tempo. Va anche ricordato che fra le varie formule utilizzabili nella procedura di risoluzione è stata scelta quella che produce una bad bank, contenitore degli assets passivi trasmessi ex lege, ed un “ente ponte”, e non direttamente la costituzione di una nuova banca ritualmente capitalizzata, che è oggetto finale della procedura delineata dalla norma.
I commi 170 e 171 dell'art. 1 della legge di Stabilità si occupano ex professo di sterilizzare almeno in parte - ai fini del reddito complessivo - i maggiori o minori valori derivanti dalla riduzione o conversione di capitale, i conferimenti e le somme corrisposte dal sistema di garanzia ai depositanti, come in dettaglio rilevabile dal testo dei due commi.
Il cuore del vecchio decreto legge è tutto riportato nei commi 843, 844, 845, 846, 847. Alle società di cui al comma 842 possono essere trasferite azioni, partecipazioni, diritti, nonché attività e passività delle banche sottoposte a risoluzione di cui al comma 842, ai sensi dell'art. 43, D. Lgs. 16 novembre 2015, n. 180.
Il comma 844 dispone in materia di capitale sociale delle new bridgebanks, interamente sottoscritto dal Fondo di risoluzione nazionale (con ciò, si fuga l'ipotesi di un intervento diretto dello Stato) che in prosieguo, nel rispetto dell'art. 42, comma 2, del decreto legislativo 16 novembre 2015, n. 180, in caso di nuove emissioni potrà essere sottoscritto anche da soggetti diversi dal Fondo di risoluzione nazionale. Restano fermi i poteri, di amministrazione attiva e di controllo, della Banca d'Italia (comma 845) e tutto quanto stabilito per la fase successiva alla costituzione dall'art. 42, comma 3, D. Lgs. 16 novembre 2015, n. 180. La norma “convalida” anche gli atti già adottati alla data di entrata in vigore del caducato decreto-legge 22 novembre 2015, n. 183. La pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto-legge 22 novembre 2015, n. 183, (comma 846) tiene luogo di tutti gli adempimenti di legge richiesti per la costituzione delle società e dalla medesima data per le obbligazioni sociali rispondono soltanto le società con il proprio patrimonio.
Il comma 848 si preoccupa di obbligare le banche a rimpinguare ulteriormente il Fondo di risoluzione nazionale, qualora i contributi ordinari e straordinari già versati al Fondo di risoluzione nazionale, al netto dei recuperi derivanti da operazioni di dismissione poste in essere dal Fondo, non siano sufficienti alla copertura delle obbligazioni, perdite, costi e altre spese a carico del Fondo di risoluzione nazionale in relazione alle misure previste dai provvedimenti di avvio della risoluzione, con contribuzioni addizionali e sanziona (comma 849) l'eventuale inadempimento a questi maggiori obblighi.
Il comma 850 rafforza e chiarisce la trasformazione in credito d'imposta e la deducibilità delle imposte anticipate per componenti negativi, stabilendo la decorrenza dall'entrata in vigore del D. Lgs. 180/2015. (comma 851). Ovviamente, si sterilizzano ai fini fiscali i versamenti effettuati dal Fondo di garanzia nazionale alla bridge bank, che espressamente si esclude (comma 853) possano costituire sopravvenienze attive. In pratica, l'ente ponte è un “neonato fiscale”, privo di attività e passività pregresse, il cui capitale sociale è costituito ex lege.
Con i commi da 855 a 860 si è cercato di mitigare gli effetti, forse non previsti originariamente quanto ad ampiezza e clamore, che hanno ottenuto, dall'applicazione della risoluzione, gli investitori in strumenti finanziari subordinati e in azioni delle banche risolte. Infatti la norma (comma 855)ha istituito Un “Fondo di solidarietà” allo specifico scopo di erogare prestazioni in favore degli investitori che alla data di entrata in vigore del decreto-legge 22 novembre 2015, n. 183, detenessero strumenti finanziari subordinati emessi dalla Banca delle Marche Spa, dalla Banca popolare dell'Etruria e del Lazio, dalla Cassa di risparmio di Ferrara Spa e dalla Cassa di risparmio della provincia di Chieti Spa.
La legge prevede che l'accesso alle prestazioni sia riservato agli investitori che siano persone fisiche, imprenditori individuali, nonché imprenditori agricoli o coltivatori diretti. In verità, norma discutibile in se, che ha escluso gli azionisti sulla base della considerazione di principio che si tratterebbe di investitori ex se consapevoli di essere partecipi del capitale di rischio, mentre l'esperienza di molte negoziazioni di titoli – ora emersa in cronache talora tragiche – è che anche l'acquisto di azioni veniva presentato come una forma di sicuro investimento non aleatorio o come “sostegno” improprio ad operazioni di finanziamento e che ha escluso investitori istituzionali e soggetti non individuali che possono essersi trovati nelle medesime condizioni dell'investitore individuale tradizionale a cui la norma fa esclusivo riferimento.
La legge di Stabilità (nel testo originario del comma 856) aveva anche posto un limite di cento milioni al Fondo di solidarietà alimentato dal Fondo interbancario di tutela dei depositi istituito ai sensi dell'articolo 96 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385. Mal si comprendeva – ovviamente sul piano teorico, ben comprensibile essendone la limitazione in via pratica – il tetto così indicato preventivamente, senza che fossero stati determinati criteri e regole per i risarcimenti; possibile chiave di incostituzionalità de futuro qualora i fondi, che non provengono almeno in teoria dallo stato e che quindi non incorrerebbero negli strali europei, non fossero stati in concreto sufficienti a risarcire almeno tutti quelli che si trovassero nelle medesime condizioni oggettive e soggettive. L'attuale versione della norma, ulteriormente ora modificata, non contiene più tale limite.
Infine il comma 857 rinvia ad uno o più decreti del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della giustizia, da emanare originariamente entro novanta giorni, ed ora centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di stabilità, per determinare le modalità di gestione del Fondo di solidarietà, le modalità e le condizioni di accesso al Fondo di solidarietà, ivi incluse le modalità e i termini per la presentazione delle istanze di erogazione delle prestazioni, i criteri di quantificazione delle prestazioni, determinate in importi corrispondenti alla perdita subita, fino a un ammontare massimo, le procedure da esperire, che possono essere in tutto o in parte anche di natura arbitrale, ogni ulteriore disposizione per l'attuazione della norma.
In sostanza, particolare finora non molto esplorato, la disposizione sembra aprire la strada ad un doppio regime, arbitrale e giurisdizionale ordinario, ma entrambi sembrano dover attingere ad un'unica provvista di denaro in concreto disponibile, il che appare plausibile per le procedure arbitrali, meno per gli eventuali giudizi, in cui appare difficile pensare che sia legittima una norma che riconosce il diritto ad un risarcimento del danno, ma lo limita nel quantum non con atto primario (già di sospetta costituzionalità), ma con atti amministrativi ancorché ministeriali. Il “doppio binario” sembra trovare ulteriore conforto nel comma 858, che prevede che in caso di ricorso a procedura arbitrale la corresponsione delle prestazioni sia subordinata all'accertamento della responsabilità per violazione degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza e trasparenza previsti dal testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento relativi alla sottoscrizione o al collocamento degli strumenti finanziari subordinati del cui controvalore si chiede la refusione. Norma evidentemente scritta sulla base del comprensibile desiderio di circoscrivere il diritto al risarcimento arbitrale a fattispecie in cui la violazione degli obblighi fosse chiara e che tuttavia non può non applicarsi anche ai giudizi ordinari, essendo evidente che il provvedimento in esame non ha introdotto il principio, sebbene non fosse ancora a rigore entrato in vigore il bail-in, che tutti i titolari di strumenti finanziari subordinati hanno diritto ad essere risarciti delle perdite subite, ma che lo hanno solo quelli che, in possesso di determinati requisiti soggettivi, abbiano negoziato i titoli in condizioni di gravi asimmetrie informative ed in presenza di precise responsabilità contrattuali da parte dei singoli operatori. Quanto poco ciò sia in linea con il dettato costituzionale in tema di eguaglianza e parità di trattamento, tenendo conto che è ormai frequente l'uso di strumenti societari in forma di società di capitali anche per la conduzione di imprese di naturale personale o familiare, non è difficile comprendere. In verità, è discutibile anche limitare il risarcimento del danno ai soli casi di acquisto di strumenti finanziari subordinati; del resto la notizia di iniziative sempre più diffusamente avviate anche da titolari di azioni, magari attraverso la costituzione di parte civile nei giudizi penali già pendenti contro alcuni degli ex-amministratori delle banche poste in risoluzione, fa ritenere che l'intera materia meriti una riflessione più approfondita e sistematica rispetto alle iniziative palesemente assunte, come le stesse norme qui in commento, sulla base della emozione mediatica che i fatti hanno suscitato. Dopo l'emanazione dei decreti di cui al comma 857, a cascata la norma prevede che con D.P.C.M. emanato su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentite le competenti Commissioni parlamentari, saranno nominati gli arbitri, scelti tra persone di comprovata imparzialità, indipendenza, professionalità e onorabilità.
Con il medesimo complesso atto saranno anche disciplinati i criteri e le modalità di nomina degli arbitri e disciplinate le modalità di funzionamento del collegio arbitrale, nonché quelle per il supporto organizzativo alle procedure arbitrali. Il testo normativo non indica formalmente l'Autorità nazionale Anti corruzione (ANAC), di cui si era sentito discutere in sede politica di predisposizione dell'atto normativo, come privilegiato interlocutore della procedura arbitrale, ma la dizione che l'arbitrato potrà “essere prestato anche avvalendosi di organismi o camere arbitrali già esistenti” lascia effettivamente intendere che il legislatore abbia voluto lasciare le mani libere al governo nella scelta della soluzione ritenuta più consona, poiché non è stato evocato espressamente il già esistente ed operante Arbitro Bancario Finanziario, che trova la sua fonte nell'art. 128-bis del D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (T.U.), introdotto dalla legge 28 dicembre 2005, n. 262, che imponeva agli intermediari bancari e finanziari di aderire a sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie con i clienti e rimetteva a una delibera del CICR, su proposta della Banca d'Italia, la definizione dei criteri di svolgimento delle procedure e di composizione dell'organo decidente, cosa poi attuata con la delibera del CICR n. 275 del 29 luglio 2008. Probabilmente i rapporti istituzionali fra Banca d'Italia e ABF, che pur opera in regime di autonomia ed indipendenza, hanno suggerito la possibilità di lasciare aperta la ricerca di una soluzione ulteriormente terza. I costi delle procedure arbitrali saranno a carico del Fondo di solidarietà. Importante è l'affermazione che resterà (comma 860) salvo il diritto al risarcimento del danno ed il Fondo di solidarietà si surrogherà ex lege nel diritto dell'investitore al risarcimento del danno, nel limite dell'ammontare della prestazione corrisposta. In sostanza, la norma pare prevedere la conferma – non dichiarata con chiarezza, ma ivi desumibile – della facoltatività e non alternatività della procedura arbitrale rispetto a quella giurisdizionale ordinaria e meno ancora si dice di eventuali ipotesi di improcedibilità almeno temporanea che altre forme arbitrali di solito introducono nell'ordinamento, per cui deve presumersene l'insussistenza.
Il comma 861 e quelli da 880 ad 883 dell'art. 1 della legge di stabilità svelano l'imbarazzo in cui il legislatore si è trovato nell'assicurare ai partner ed all'autorità bancaria europea che da un lato che la gestione del Fondo di solidarietà fosse attribuita al solo Fondo interbancario di tutela dei depositi istituito ai sensi dell'art. 96 del testo unico di cui al D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 e dall'altro che lo Stato potesse assicurare finanziamenti al fondo di risoluzione unico nel caso di insufficienza delle risorse messe a disposizione del medesimo dal sistema bancario. Si tratta, secondo espressa definizione normativa, di “finanziamenti ponte”, ma sta di fatto che l'importo massimo è stato determinato nella non certo disprezzabile somma di 5.753 milioni di euro e che è stato istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze un apposito fondo, con apposita contabilità speciale, con una dotazione iniziale di 2.500 milioni di euro per l'anno 2016. La frase di chiusura che agli oneri ed alle spese di gestione si provvederà esclusivamente con le risorse finanziarie del Fondo di solidarietà appare perciò un ottimistico consolatorio auspicio, indirizzato anche e soprattutto al sistema europeo, piuttosto che una certezza contabile, che è realisticamente ancor meno probabile dato lo stato generale del sistema bancario italiano, alle prese con complessi e difficili aumenti di capitale e non certo vocato al tempestivo rifornimento del fondo destinato alle difficoltà di sistema. Oltre al momento non si può andare, mancando le norme attuative sopra affacciate, se non registrare il disparato campionario di strumenti di tutela che, nel montare di una protesta sempre più accesa, il governo ha cercato di mettere in campo. Infatti inopinatamente (o quasi) il Governo invece di portare avanti solo gli strumenti di alta amministrazione programmati nella legge di stabilità, approvava il 3 maggio 2016 un apposito nuovo Decreto Legge, il n. 59, convertito con modificazioni dalla L. 30 giugno 2016, n. 119 (in G.U. 02 lugio 2016, n. 153) avente ad oggetto, oltre a temi qui non conferenti in tema di introduzione dell'istituto giuridico del pegno non possessorio, di finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato e di modifiche alle espropriazioni immobiliari ed alle procedure fallimentari e concorsuali, l'introduzione negli artt. 8, 9 e 10 di un nuovo distinto mezzo di soddisfazione degli obbligazionisti subordinati rimasti insoddisfatti dall'azzeramento dei titoli nelle procedure di risoluzione avviate, non in contrasto, ma anzi destinato a concorrere con gli altri strumenti e almeno parzialmente a sostituirli.
Innanzitutto, il nuovo mezzo di risarcimento è rivolto a soggetti ben determinati, persone fisiche, imprenditori individuali anche agricoli, coltivatori diretti e loro successori mortis causa che abbiano acquistato - si badi in forma diretta e non dunque attraverso operatori finanziari - strumenti finanziari subordinati (gli stessi di cui all'art. 1, comma 855, legge di stabilità) dalle quattro banche in risoluzione.
Secondariamente, si rivolge a coloro che abbiano acquistato i titoli entro il 12 giugno 2014 e che li detenevano al momento dell'apertura della risoluzione. A costoro spetta un indennizzo, così viene denominato il risarcimento forfetario previsto dalla norma, purché ricorra anche la condizione che l'investimento sia stato effettuato da un soggetto che abbia un reddito lordo inferiore a 35 mila euro e un patrimonio mobiliare inferiore a 100 mila euro. Si rinvia al dettato normativo, per brevità, per il complesso calcolo necessario sia a determinare il patrimonio mobiliare netto da valutare ai fini del provvedimento, sia per il calcolo dell'indennizzo, che è pari all'80 % del “danno netto” che l'investitore ha conseguito dall'azzeramento dei titoli.
L'istanza dovrà essere presentata a pena di decadenza entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, pubblicata nella G.U. 2 luglio 2016 n. 153 (il tempo massimo sarà perciò individuabile entro il 2 gennnaio 2017) e – particolare importantissimo – la sua presentazione è posta in forma espressamente alternativa all'utilizzazione della procedura arbitrale di cui abbiamo sopra dato gli elementi finora noti, tanto che la norma la definisce, con termine di derivazione processuale alquanto improprio, improcedibile. Resta invece la piena facoltà di utilizzare la procedura arbitrale per titoli acquistati dopo il 12 giugno 2014, per i quali non opera la copertura dell'indennizzo forfetario.
Completamente priva di coordinamento espresso rimane la richiesta di erogazione dell'indennizzo a forfait con l'ipotesi di utilizzazione degli ordinari strumenti giurisdizionali, che non è preclusa a chi percorra la strada arbitrale (anzi, per le somme per sborsate il Fondo di Solidarietà si costituisce come anticipatario legale e si sostituisce nell'eventuale esercizio dei diritti verso i responsabili, come sopra abbiamo richiamato), ma si deve ritenere che data la natura anche lessicale dello strumento esso sia stato progettato come satisfattorio del diritto al risarcimento. Conclusioni
Quanto all'impatto della disciplina così introdotta, non ci sono criteri di stima analitica, anche se in generale si era parlato di un positivo impatto per circa metà degli aventi diritto al rimborso, sempre esclusi i soggetti societari ed istituzionali; le condizioni oggettive e quelle soggettive, sebbene non congiunte, non giustificano al momento l'ottimistica previsione. Certo è sicuramente positivo il sostanziale automatismo dell'erogazione, con le relative conseguenze in ordine alla celerità degli esborsi.
Il rimpinguamento (art. 12, D.L. n. 59/2016) del Fondo di solidarietà per la riconversione e riqualificazione professionale del personale del credito fa pensare che, nonostante l'ottimismo diffuso, per le banche in risoluzione si preveda largo uso degli istituti di agevolazione all'esodo in relazione ai lavoratori che raggiungano i requisiti previsti per il pensionamento di vecchiaia, anche anticipato per coloro che lo matureranno nei successivi sette anni.
Che la scelta operata dal legislatore non si sia rivelata efficace, e che probabilmente debba subire opportune modifiche, oltre all'evidenza dei danni ai risparmiatori che quando sottoscrivono azioni o obbligazioni subordinate non sempre sono consapevoli dell'alea connaturata all'investimento, è dimostrato indirettamente dalla ulteriore cronaca dei nostri giorni, nella quale alle difficoltà di altre banche nazionali (su tutte, MPS) non si pensa neanche lontanamente di dare risposta attuando quella che dovrebbe essere la soluzione tipica e cioè la risoluzione, che distruggerebbe definitivamente le Banche in crisi, ma sostanzialmente creando con l'intervento di Fondi speciali, non pubblici in senso stretto, le condizioni endogene per un risanamento che parte dalla ricapitalizzazione e dalla dismissione dei NPL.
Non esistendo la macchina del tempo, lo strumento non può essere riapplicato alle banche ormai in risoluzione, ma sarebbe auspicabile ottenerne gli effetti attraverso un rallentamento ulteriore della procedura di trasformazione della bridge bank in new bank vera e propria, con la costituzione di un fondo speciale che capitalizzi la bridge bank, in modo da evitare che la cessione definitiva sia fatta a prezzo vile nonostante che le quattro banche, specie se unitariamente considerate com'è ormai inevitabile, siano tuttora una realtà consistente nel sistema creditizio del paese e rilevanti per la realtà economica dell'intero centro Italia. |