La sofferta legittimazione del socio di s.r.l. fallita a impugnare la sentenza di “autofallimento”

Diego Corrado
21 Luglio 2017

I soci di una s.r.l. fallita non sono legittimati a proporre reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento, ove la relativa istanza in proprio sia stata presentata a seguito di apposita autorizzazione assembleare, in quanto la relativa delibera assembleare è vincolante per tutti i soci ex art 2377, comma 1, c.c.
Massima

I soci di una s.r.l. fallita non sono legittimati a proporre reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento, ove la relativa istanza in proprio sia stata presentata a seguito di apposita autorizzazione assembleare, in quanto la relativa delibera assembleare è vincolante per tutti i soci ex art 2377, comma 1, c.c.. Essi avrebbero quindi dovuto preventivamente impugnare la delibera autorizzativa, e ciò vale anche per il socio a sua volta dichiarato fallito in proprio, in conseguenza del fallimento della s.a.s. di cui era accomandatario.

Il caso

La vicenda trae origine dal ricorso promosso dal Fallimento di una S.r.l. contro la sentenza della Corte d'appello di Bari, che aveva accolto il reclamo proposto da due soci, rispettivamente detentori del 5% e del 95% dell'intero capitale sociale, revocando la sentenza del tribunale di Foggia dichiarativa del fallimento della società in questione. Il fallimento era stato richiesto dal nuovo amministratore unico della società, nominato dall'assemblea della società, convocata dai curatori del fallimento personale di uno dei due soci, dichiarato per ripercussione del Fallimento della s.a.s. di cui il reclamante era socio accomandatario.

Il giudice delegato del fallimento della s.a.s., accogliendo l'istanza dei curatori, aveva autorizzato l'amministratore unico a presentare il cosiddetto ricorso per autofallimento della s.r.l., e ciò paradossalmente nonostante il fallimento della s.a.s. fosse stato medio tempore revocato, con sentenza però non definitiva, in quanto a sua volta oggetto di ricorso per cassazione.

Entrambi i soci della s.r.l., però, lamentando di non essere stati in grado di esercitare il proprio voto in sede assembleare, adivano la via giudiziaria per far revocare la sentenza di fallimento e chiedere la nullità della delibera. Infatti, sia la richiesta che la concessione dell'autorizzazione alla presentazione della domanda di autofallimento a loro dire esorbitavano dai compiti degli organi della procedura concorsuale apertasi a carico di della s.a.s., i quali dovevano limitarsi alla cura degli interessi del ceto creditorio della fallita. Così facendo – proseguiva la difesa dei ricorrenti – avevano causato l'azzeramento del valore della partecipazione nella s.r.l. del socio, privando la massa dei creditori del fallimento personale di quest'ultimo del valore di un bene acquisito all'attivo della relativa procedura. Concludevano quindi per la carenza di legittimazione attiva alla proposizione dell'istanza di fallimento da parte degli organi della procedura e conseguentemente per la necessaria revoca del fallimento, oltretutto non essendovi altri creditori instanti.

La questione

Con il provvedimento in oggetto la Suprema Corte torna ad affrontare il tema della legittimazione a proporre reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento, in caso di domanda presentata dagli organi amministrativi di una s.r.l.

Nel caso in esame la Corte d'appello di Bari aveva escluso la legittimazione degli organi della procedura concorsuale apertasi a carico della s.a.s. (e del nuovo amministratore unico della s.r.l. da essi nominato) alla presentazione del ricorso per auto-fallimento, giacché, ad avviso della Corte di merito, essi non rientravano tra i soggetti a ciò legittimati, come individuati dall'art. 6 l. fall.

Contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, la Suprema Corte ha stabilito che gli organi della procedura hanno correttamente e doverosamente adottato tutti i provvedimenti loro imposti dalla legge, senza esorbitare in nessun modo dalla loro sfera di attribuzioni, come invece lamentato dai soci. È stato infatti appurato dai giudici di legittimità che il venir meno del valore della partecipazione del socio fallito nella s.r.l. era derivato dalle ripetute perdite di esercizio che da tempo avevano azzerato il capitale della società. Di conseguenza, la sentenza dichiarativa – lungi dall'aver recato alcun pregiudizio alla consistenza dell'attivo del fallimento della s.a.s. – aveva meramente accertato la ricorrenza dello stato di insolvenza in cui la s.r.l. versava e la Cassazione ha correttamente osservato che, verificata la sussistenza di tale presupposto, il nuovo amministratore unico era addirittura tenuto a presentare la domanda di auto-fallimento, al fine di scongiurare l'eventuale aggravamento del passivo cagionato dal ritardo nella dichiarazione del fallimento con ogni conseguente responsabilità a suo carico.

Inoltre, e veniamo al nocciolo della pronuncia in commento, la Cassazione ha ricordato che costituisce orientamento consolidato il principio secondo cui “il socio di una società fallita, la quale abbia domandato il proprio fallimento, non è legittimato a proporre reclamo contro la sentenza dichiarativa, in quanto la delibera assembleare che ha autorizzato l'organo amministrativo alla presentazione dell'istanza ha efficacia vincolante, ex art. 2377, 1° comma c.c., per tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti, salvo che non sia stata impugnata e poi sospesa od annullata” (principio già affermato da Cass. n. 23089/2014; Cass n. 19923/2006).

Il principio trova applicazione – chiarisce la sentenza in commento – anche nel caso in cui il reclamo sia proposto dal socio a sua volta dichiarato fallito, il quale, benché rappresentato in assemblea dal curatore, deve comunque ritenersi legittimato all'impugnazione delle delibere societarie nei casi consentiti dalla legge ai soggetti privi del diritto di voto.

Il principio si ricava per estensione analogica da quello stabilito dall'art. 2352 c.c. con riferimento al nudo proprietario delle azioni o al socio che le abbia date in pegno. In questi casi, stabilisce la norma, “salvo che dal titolo o dal provvedimento del giudice risulti diversamente, i diritti amministrativi diversi da quelli previsti nel presente articolo (come appunto il diritto di impugnativa, n.d.r.) spettano, nel caso di pegno o di usufrutto, sia al socio sia al creditore pignoratizio o all'usufruttuario”. La ratio del principio è evidente, e consiste nella necessità di consentire al socio fallito la tutela dei propri diritti e interessi legittimi nella prospettiva di un sempre possibile ritorno in bonis. Una soluzione diversa si porrebbe quindi in contrasto con l'art. 24 della Carta costituzionale, giacché lascerebbe del tutto prive di tutela situazioni di aspettative di diritto, quale appunto – nel caso in commento – quella particolarmente concreta di una persona fisica dichiarata fallita, con sentenza dichiarativa tuttavia revocata e sub judice nelle istanze superiori, come si evince da un passaggio della ricostruzione in fatto.

Osservazioni

Un'annotazione sulla rilevanza dei principi del giusto processo in ambito fallimentare: in particolare, la decorrenza degli effetti della sentenza di revoca del fallimento.

L'ultima annotazione consente di formulare un'osservazione di carattere generale, ancorché non centrale nel caso in esame.

Come è noto, infatti, la non sospendibilità della sentenza dichiarativa di fallimento, espressamente stabilita dall'art. 18, comma 3, l. fall., ha suscitato in passato isolati dubbi di costituzionalità (cfr. M. Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio, 2006, 406), ma la Cassazione (cfr. la sentenza n. 13100/2013, con principio poi ribadito da Cass. n. 17191/2014) ha rigettato la relativa questione per manifesta infondatezza “perché, sotto il profilo del rispetto del principio di uguaglianza, diversa e privilegiata è la posizione dei creditori rispetto al debitore, i cui interessi comunque trovano pur sempre un riconoscimento nella previsione della possibilità di sospendere l'attività di liquidazione (secondo quanto prevede l'art. 19, comma 1, che attribuisce tale potere discrezionale alla corte d'appello subordinatamente alla presentazione di istanza di parte o del curatore e alla ricorrenza di “gravi motivi”, n.d.r.) mentre, con riguardo alla violazione dell'art. 41 Cost., la legge fallimentare non impedisce al fallito di intraprendere una nuova attività economica”. I dubbi, tuttavia, sono stati ultimamente riproposti sul rilievo di una ipotizzata non perfetta coerenza tra il sistema normativo delineato dagli artt. 18 e 19 l. fall. con il principio del “giusto processo”, costituzionalizzato sin dal 1999, oltre che con le norme in materia di diritto di difesa (artt. 24 e 111 Cost.). Si è osservato al riguardo, trascurando però gli aspetti peculiari della esecutività della sentenza di fallimento, che “diversamente argomentando (cioè ritenendo la conformità al dettato costituzionale dell'art. 18, co. 2, L.F., n.d.r.) il fallito sarebbe l'unico soggetto, parte di un processo, per cui la sentenza di secondo grado non produrrebbe alcun effetto concreto. Infatti, se il soggetto che subisce un'azione costitutiva non ne viene di norma inciso, se non con il passaggio in cosa giudicata della sentenza di primo grado, il fallito, non solo per disposto normativo, ne subirebbe gli effetti sin dalla pronuncia, pur in pendenza di reclamo, ma non potrebbe neppure giovarsi della sentenza d'appello a lui favorevole” (così G. La Croce, Gli effetti della sentenza di revoca del fallimento alla luce dei principi del giusto processo, in Gazzetta Forense, settembre-ottobre 2016, 1057).

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