La qualificazione del rapporto tra società e amministratore: riflessi sulla pignorabilità dei compensi

23 Gennaio 2017

Il rapporto tra una società di capitali ed il suo amministratore viene qualificato dalla giurisprudenza, con orientamenti contrastanti: in termini di parasubordinazione, sul presupposto del carattere continuativo, coordinato e personale della prestazione; in termini di contratto di lavoro autonomo o di opera professionale, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto e del tenore del potere gestorio; quale appartenente al genus dei rapporti societari, presi in considerazione dalla legge istitutiva del tribunale delle imprese.
Massima

Il rapporto tra una società di capitali ed il suo amministratore viene qualificato dalla giurisprudenza, con orientamenti contrastanti: in termini di parasubordinazione, sul presupposto del carattere continuativo, coordinato e personale della prestazione; in termini di contratto di lavoro autonomo o di opera professionale, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto e del tenore del potere gestorio; quale appartenente al genus dei rapporti societari, presi in considerazione dalla legge istitutiva del tribunale delle imprese. Suddetto contrasto, anche ai fini del riflesso di tale qualificazione sui limiti alla pignorabilità dei compensi dell'amministratore, costituisce questione di massima importanza da rimettere alla soluzione delle Sezione Unite.

Il caso

Con ricorso in Cassazione articolato in cinque motivi, il creditore invoca la riforma della sentenza resa dal Tribunale di Ancona che, accogliendo l'opposizione spiegata dal debitore, qualificava il rapporto del predetto, quale consigliere di amministrazione di una società di capitali, in termini di parasubordinazione e riteneva impignorabili oltre il quinto i relativi compensi.

Il provvedimento impugnato revocava quindi l'ordinanza di assegnazione del giudice dell'esecuzione, che aveva attribuito all'esecutante tutti gli emolumenti del debitore, procedendo a limitarla sino al quinto di quanto i terzi pignorati avevano accantonato.

Il ricorrente lamentava, nello specifico: 1) con il primo motivo, un vizio di costituzione del giudice; 2) con il secondo, la violazione del diritto di difesa, a suo dire compresso per la mancata concessione dei termini di cui all'art. 183, comma 6 c.p.c.; 3) con il terzo ed il quarto motivo, l'omesso accertamento in concreto della ricorrenza di un rapporto parasubordinato e la violazione dell'art. 409, n. 3 c.p.c. e dell'art. 2380-bis c.c., nell'attribuzione al rapporto di amministrazione controverso di tale natura; 4) con la quinta censura, la violazione del combinato disposto di cui all'art. 545, commi 3 e 4 c.p.c. ed all'art. 409, n. 3 c.p.c., quanto all'estensione del limiti di pignorabilità ai rapporti parasubordinati.

Resisteva al ricorso con propri motivi un debitor debitoris.

La Suprema Corte - premessa l'ammissibilità dell'opposizione ex art. 617 c.p.c. spiegata dal debitore avverso all'ordinanza di assegnazione e la mancanza di specifiche doglianze in punto di equiparazione tra amministratore unico e componente del consiglio d'amministrazione, riguardo alla natura relativa del rapporto – riteneva risolvibili il primo, il secondo ed il quinto motivo, sulla base dei suoi precedenti.

Viceversa, stante l'apparente contrasto in ordine alla natura del rapporto tra società di capitali e relativi amministratori ed in considerazione dei riflessi della soluzione preferita, tra rapporto parasubordinato da un lato e rapporto di lavoro autonomo e/o di opera professionale dall'altro, sul tema dei limiti di pignorabilità dei compensi afferenti, decideva di rimettere al Primo Presidente la valutazione per la trasmissione alle Sezione Unite della questione di massima rilevanza così individuata.

Le questioni giuridiche

L'ordinanza della Suprema Corte offre una serie di spunti in merito almeno a due questioni di particolare rilevanza.

Quella della natura dei benefici d'impignorabilità contenuti nell'art. 545 c.p.c. E quella, connessa nella fattispecie, della applicabilità di quei limiti ai compensi degli amministratori di società di capitali.

In ordine al primo aspetto, i Supremi Giudici assumono che la previsione di cui all'art. 545 c.p.c. non presenti carattere eccezionale.

In particolare, pur ritenendo che essa costituisca deroga al principio contenuto nell'art. 2740 c.c., secondo cui il debitore generalmente risponde delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, nell'ottica della generica garanzia patrimoniale, salve appunto le limitazioni espressamente previste dalla legge, la Corte afferma come la norma debba essere oggetto di interpretazione estensiva.

Occorre ricordare che essa testualmente riferisce del limite (di 1/5) della pignorabilità delle somme dovute a titolo di stipendio, a fonte di un qualsiasi credito.

Ebbene, l'accezione che dall'ordinanza viene data a questa espressione è nel senso che essa possa essere riferita ad ogni prestazione erogata quale corrispettivo di attività lavorative da tutelare, per la maggior forza contrattuale dell'altro contraente e comunque destinata a soddisfare le primarie esigenze di vita del lavoratore.

La Corte riassume, poi, come l'impignorabilità parziale di quei compensi abbia rinvenuto la sua ratio proprio nell'esigenza di non pregiudicare i bisogni primari del debitore e dei suoi familiari, comprimendo in maniera rilevante la relativa fonte principale di sostentamento, costituita dallo stipendio quale remunerazione dell'energia lavorativa profusa.

Ciò posto, i Giudici Supremi pongono sul piatto la seconda questione, ovvero quella della natura dei compensi degli amministratori di società di capitali e, più segnatamente, della qualifica del loro rapporto.

Sul presupposto dell'estensibilità del beneficio in premessa ai rapporti di lavoro parasubordinato e dalla dubbia collocabilità, in tale novero, proprio di quello oggetto di controversia.

Viene quindi riportato l'apparente contrasto esistente al riguardo, tra le decisioni (assunte anche a Sezioni Unite) che hanno qualificato parasubordinata la prestazione resa dall'organo gestorio, quelle che hanno posto l'accento sulla natura viceversa autonoma del lavoro prestato dal predetto e, infine, quelle che hanno ritenuto trattarsi di un rapporto societario.

Da qui la scelta di ritenere di massima importanza la questione, da rimetterla alle Sezione Unite onde dirimere il dubbio sulla natura del rapporto.

Osservazioni

Il primo principio affermato dall'ordinanza in commento, a proposito del carattere di norma non eccezionale dell'art. 545 c.p.c. e, soprattutto, della sua interpretazione estensiva, a beneficio dei rapporti di lavoro privati, appare coerente con l'ultima evoluzione normativa e con l'orientamento formatosi al riguardo in sede di legittimità.

In particolare è stato affermato dai Supremi Giudici l'estensione al lavoratore privato delle disposizioni dettate per quello pubblico in tema di espropriazione forzata presso terzi, come modificate dalle L. n. 311/2004, e L. n. 80/2005 (di conversione del D.L. n. 35/2005) al D.P.R. n. 180/1950 (approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni) (cfr. cfr. Cass. n. 685/2012).

Il convincimento è stato espresso operando l'interpretazione del dato letterale dell'art. 545 c.p.c., che stabilisce che: "Le somme dovute da privati a titolo di stipendio, di salario... possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato... ed in eguale misura per ogni altro credito" in rapporto a quella evincibile dalla complessiva intenzione del legislatore, resa manifesta dai ai ripetuti interventi modificativi dell'originario testo normativo del predetto D.P.R. n. 180/1950 (in tal senso, cfr. in motivazione Cass. n. 4465/11).

La conclusione raggiunta dalla Corte è stata quindi nel senso che i crediti derivanti dai rapporti di cui all'art. 409 c.p.c., n. 3, siano pignorabili nei limiti di un quinto, come previsto dall'art. 545 (ancora Cass. n. 685/2012, cit.).

Ebbene, tra i rapporti presi in considerazione da tale articolo vi sono quelli cd. parasubordinati.

Rientrano in tale categoria quelli consistenti in prestazioni di facere, tipicamente proprie di fattispecie di lavoro autonomo, rese tuttavia con continuità, coordinazione e in maniera prevalentemente personale.

Lo sostiene la Suprema Corte, laddove afferma che ivi sono appunto inclusi i rapporti aventi ad oggetto prestazioni riconducibili allo schema generale del lavoro autonomo, ancorchè rientranti in figure contrattuali tipiche, non ostandovi il fatto che il prestatore d'opera svolga la sua attività in autonomia e con responsabilità e rischi propri, purchè caratterizzati dalla continuità, dal loro collegamento funzionale con gli scopi perseguiti dal committente e dall'esecuzione prevalentemente personale, senza che rilevi la comparazione meramente quantitativa del capitale impiegato. (cfr. in termini Cass. n. 16582/02).

Ed invero, la stessa giurisprudenza di legittimità rileva come per la qualificazione del contratto di lavoro come autonomo o subordinato - ai fini della quale il nomen iuris attribuito dalle parti rilevare solo in concorso di elementi di valutazione – vada accertato se ricorra o no il requisito tipico della subordinazione, intesa come prestazione dell'attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore.

Gli altri caratteri dell'attività lavorativa, come la continuità, la rispondenza dei suoi contenuti ai fini propri dell'impresa e le modalità di erogazione della retribuzione, viceversa non assumono rilievo determinante, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato, sia con quelli di lavoro autonomo e/o parasubordinato (cfr. Cass. n. 1227/2013).

Può concludersi, quindi, che sussista lavoro parasubordinato ove si versi in ipotesi di rapporti di collaborazione caratterizzati:

a) dalla continuità, intesa come carattere della prestazione non occasionale e tale da richiedere un impegno costante del lavoratore;

b) dalla coordinazione, intesa come collegamento funzionale della prestazione rispetto alle finalità perseguite dalla parte datrice e suo assoggettamento all'ingerenza datoriale;

c) dalla personalità, intesa quale prevalenza dell'attività personale del lavoratore rispetto agli altri apporti di collaboratori e di mezzi.

È evidente che l'inquadramento del rapporto all'attenzione della Corte in una tipologia (lavoro parasubordinato) o nell'altra (lavoro autonomo nel suo più ampio genus) potesse avere riflessi sulla soluzione da adottare, a proposito dei limiti di pignorabilità controversi.

In tale senso i Supremi Giudici non hanno potuto fare a meno di rilevare l'esistenza di un evidente contrasto in seno alla sua giurisprudenza.

Al riguardo, come pure ricordato nel provvedimento in esame, le Sezioni Unite avevano avuto modo di affermare che la controversia nella quale l'amministratore di una società di capitali, o ente assimilato, chieda la condanna della società stessa al pagamento di una somma dovuta per effetto dell'attività di esercizio delle funzioni gestorie restava soggetta al rito del lavoro ai sensi dell'art. 409 n. 3 c.p.c., atteso che, se verso i terzi estranei all'organizzazione societaria è configurabile tra amministratore e società, un rapporto di immedesimazione organica, all'interno dell'organizzazione erano viceversa configurabili rapporti di credito nascenti da un'attività come quella resa dall'amministrazione, continua, coordinata e prevalentemente personale, non rilevando in contrario il contenuto parzialmente imprenditoriale dell'attività gestoria e l'eventuale mancanza di una posizione di debolezza contrattuale dell'amministratore nei confronti della società (così Cass. n. 10680/1994).

La tesi è risultata sposata da altre successive pronunzie (Cass. n. 4261/2009; Cass. n. 16494/2013; Cass. n. 4769/2014) e tuttavia contestata in arresti di segno contrario, basati ad esempio sulla più o meno ampia autonomia caratterizzante il rapporto tra amministratore e società, a seconda che questi sia inserito in un consiglio d'amministrazione, riceva delega da tale organo oppure rivesta addirittura la posizione di amministratore unico dell'ente ( ad esempio Cass. n. 7961/2009).

Altri pronunciamenti della Corte di legittimità pongono l'accento sia su tale autonomia che sulla relazione d'immedesimazione organica tra l'amministratore e la società, per tentare di superare indirettamente l'avviso espresso precedentemente in funzione nomofilattica.

In quelle decisioni si sostiene, ad esempio, che il rapporto tra l'amministratore di una società di capitali e la società medesima va ricondotto nell'ambito di un rapporto professionale autonomo e, quindi, ad esso non si applica l'art. 36, comma 1, Cost., che riguarda il diritto alla retribuzione in senso tecnico, poiché il diverso diritto al compenso professionale dell'amministratore, avendo natura disponibile, può essere oggetto di una dichiarazione unilaterale di disposizione da parte del suo titolare (in termini: Cass. n. 19714/2012).

Più di recente i Supremi Giudici hanno poi sostenuto che quello di amministrazione costituisca niente altro che un rapporto societario, nell'accezione prevista dal novellato art. 3 del D.Lgs. n. 168/2003 (istitutivo del Tribunale delle imprese), distinto e separato anche da un semplice rapporto d'opera, oltre che da quelli di rango parasubordinato.

Un avviso in tal senso lo si rinviene ove la Corte ha ritenuto il rapporto tra la società ed il suo amministratore è di immedesimazione organica, avente ad oggetto la gestione stessa dell'impresa sociale, costituita da un insieme variegato di atti, del compimento dei quali l'amministratore risponde direttamente, anche nei confronti dei terzi, non essendo soggetto ad ingerenze o direttive altrui, neppure dell'assemblea, giuridicamente vincolanti in modo assoluto. Pertanto che, il contratto tipico che lega l'amministratore e la società non è un contratto d'opera ex art. 2222 c.c., in quanto l'opus di amministrazione che egli si impegna a fornire non è, a differenza di quello del prestatore d'opera, determinato dai contraenti preventivamente, né è determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività di impresa.

Nel far ciò i Giudici di legittimità hanno richiamato altro precedente (Cass. n. 22046/2014), ove pure si era parlato di immedesimazione organica, di relazione ad oggetto la gestione stessa dell'impresa sociale.

Ed hanno escluso la ricorrenza in tale rapporto dei caratteri propri del lavoro subordinato, nonchè (non però senza contrasti, non del tutto sopiti dalla ricordata pronuncia delle S.U. del 1994) di quelli della c.d. parasubordinazione, stante essenzialmente la non configurabilità dell'attributo di "coordinata" con riguardo ad una attività che, a prescindere dalla struttura individuale o plurisoggettiva dell'organo, non è soggetta ad alcuna forma di eterodirezione (cfr. Cass. n. 13956/2016).

Le considerazioni ed i richiami che precedono rendono assolutamente chiara sia la sussistenza di un contrasto non sopito o composto e sia la necessità di un intervento risolutivo delle Sezioni Unite.

Anche in tal senso l'ordinanza in esame non può che essere condivisa.

Conclusioni

È indubbio che il tema della natura del rapporto di amministrazione nell'ambito delle società di capitali appaia spinoso.

Lo testimonia non solo il contrasto esistente in proposito in sede di legittimità, ma anche quello parimenti esistente tra i giudici di merito.

Ad avviso di chi scrive, ai fini dell'esatta qualificazione dello stesso potrebbe non essere dirimente il profilo dell'immedesimazione organica tra amministratore e società, attenendo il profilo al rapporto dell'ente con i terzi e costituendo esso espressione della capacità rappresentativa dell'organo gestorio.

Con quell'espressione s'intende riferirsi, in particolare, alla relazione d'immedesimazione esistente tra la persona fisica, titolare dei poteri di rappresentanza esterna, nella struttura organizzativa dell'ente collettivo dotato di personalità giuridica e la società stessa.

Ebbene tanto l'art. 2384 c.c., per le s.p.a. che l'art. 2475-bis c.c., per le s.r.l., attribuiscono appunto agli amministrazioni la rappresentanza relativa.

Ad onor del vero entrambe le norme fanno riferimento ad un potere di rappresentanza di tipo generale, tal che gli amministratori possono compiere qualunque atto, di ordinaria e straordinaria amministrazione, quantomeno funzionale al perseguimento dell'oggetto sociale.

Con la conseguenza di vincolare la società nei confronti dei terzi.

E proprio a tutela del loro affidamento, entrambe le disposizioni stabiliscono l'inopponibilità ai terzi di eventuali limiti convenzionali ai poteri dell'organo gestorio, pur resi pubblici, salva la prova dell'intenzione dei predetti di cagionare un danno alla società.

Ciò non bastasse, la riforma ha abrogato l'art. 2384-bis c.c., tal che l'ente potrebbe trovarsi vincolato dagli atti ultra vires compiuti dagli amministratori, salva la exceptio doli di cui s'è appena riferito.

In definitiva, dal lato esterno la capacità dell'amministratore d'impegnare la società appare in rapporto di connessione il relativo potere gestionale (di cui appena infra) ed anzi tale da superane i limiti.

Con un distinguo, però: ed invero in presenza di c.d.a. non tutti i componenti sono dotati di quella capacità, ma solamente gli amministratori ai quali la rappresentanza esterna sia stata attribuita dallo statuto o dalla delibera di nomina.

Dalle superiori considerazioni si possono trarre almeno tre spunti:

1) che se si ritiene che la rappresentanza e l'immedesimazione organica tra amministratore e società costituiscano degli elementi di cui si connota il rapporto tra tali soggetti, la sostanziale assenza di limiti (anche quelli derivanti dalla strumentalità degli atti al perseguimento dell'oggetto sociale), sposterebbe nel senso della validità della ricostruzione dell'atipicità del rapporto e del suo carattere autonomo. Con l'avvertenza, però di dover tenere conto, ai fini dell'inquadramento, anche delle altre caratteristiche della relazione, ergo dell'ampiezza e dell'assenza di direttive vincolanti per l'esercizio dell'attività di vera e propria gestione;

2) che, anche opinando nei sensi che appena precedono, almeno in ordine alla capacità rappresentativa occorre distinguere la posizione degli amministratori (tra semplici consiglieri, presidenti del c.d.a. e amministratori delegati);

3) che, viceversa, potrebbe continuare a ritenersi non decisiva, ai fini che occupano, l'immedesimazione organica tra organo gestorio ed ente, in quanto involgente il solo rapporto tra la società ed i terzi.

Dal lato interno la questione si pone in termini diversi, in considerazione di quanto evincibile dagli artt. 2380-bis e 2475 c.c.

Nella prima norma, dettata per le S.p.A., la gestione dell'impresa viene attribuita inderogabilmente agli amministratori.

Si afferma al riguardo, correttamente, che la riforma del 2003 abbia inteso esaltare il momento gestionale, attribuendolo spetta esclusivamente agli amministratori.

Nella S.p.A. all'assemblea compete, quindi, la funzione di indirizzo della politica sociale, oltre che il potere di nomina e revoca dei componenti dell'organo gestorio.

Quindi il suo potere d'influenza consiste, in generale, nel concedere o rimuovere la fiducia agli amministratori.

Da un punto di vista di evoluzione storica, va detto che il codice del 1942 non definiva in via generale le funzioni degli amministratori, ma indicava specifici obblighi in relazione a singole vicende della società.

D'altro canto affermava il principio per cui gli amministratori erano tenuti ad adempiere gli obblighi ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo, con la diligenza del mandatario.

Rispetto al codice precedente configurava gli amministratori organo della società e non semplici mandatari dei soci, dal che derivava il carattere esclusivo delle funzioni stesse e della non avocabilità da parte dell'assemblea.

Tuttavia la mancanza di un riconoscimento testuale ed espresso del potere dell'organo gestorio ed il problema interpretativo sulla fonte legale di attribuzione di tale potere, sulla sua estensione e sul grado di autonomia, aveva ingenerato dubbi, al fine risolti concependo una separazione delle competenze tra amministratori ed assemblea.

Ai primi veniva riconosciuta l'esclusiva sui poteri di gestione dell'impresa sociale, non espressamente riservati all'organo assembleare; a questo, al di là delle ipotesi previste dall'art. 2364, n. 4, l'assenza di potere d'impartire istruzioni o direttive in merito alla gestione della società, né ordinare agli amministratori il compimento di specifici atti di impresa e tanto meno porre il veto all'esecuzione di atti che essi abbiano deliberato di compiere.

La riforma del 2003, migliorando la disciplina del funzionamento degli organi di gestione, con l'art. 2380-bis c.c. introduce due precetti importanti.

Da una parte, nell'attribuire agli amministratori la competenza esclusiva dell'attività di gestione, chiarisce definitivamente ed in modo esplicito i rapporti che esistono tra le deliberazioni assembleari in materia di gestione e l'azione degli amministratori.

Questi ultimi hanno in carico l'attività gestionale, laddove le deliberazioni eventualmente assunte dall'assemblea su scelte gestionali, nei casi in cui lo statuto (v. art. 2364, n. 5) o la legge (v. art. 2357) lo prevedano, hanno, quindi, una funzione meramente autorizzatoria, inidonea a far venire meno la responsabilità degli amministratori.

Dall'altra parte, l'art. 2380-bis, poi, individua il contenuto dell'attività di gestione, chiarendo che essa si sostanza nel compimento di tutte le operazioni (per ciò dovendosi intendere atti, fatti o combinazioni degli uni e degli altri) necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale.

In particolare essa consiste:

  • nel potere di promuovere le delibere assembleari (cd. potere di iniziativa);
  • nel potere dovere di eseguire quelle deliberazioni (cd. potere esecutivo);
  • nel potere di deliberare o decidere atti di gestione (cd. potere decisionale);
  • nel potere di vincolare all'esterno la società (cd. potere di rappresentanza).

È evidente nelle S.p.A., quindi, il notevole tratto di autonomia attribuito agli amministratori che, tuttavia, tuttavia limitato dal lato interno: (i) dalle scelte contenute nel contratto sociale ( l'oggetto sociale da perseguire); (ii) dall'obbligo di eseguire le decisioni assunte dall'organo assembleare; (iii) dalla possibilità di essere revocati ad nutum dall'assemblea, salvo risarcimento del danno ove la revoca sia avvenuta senza giusta causa.

Nell'ambito delle S.r.l., ai sensi dell'art. 2475 c.c. l'esclusiva spettanza della gestione dell'impresa agli amministratori, propria delle SpA, può essere viceversa derogata dall'atto costitutivo che può: a) riservare rilevanti competenze gestorie alla collettività dei soci (chiamati a decidere ai sensi dell'art. 2479); b) attribuire prerogative in materia gestoria individualmente a singoli soci, richiedendo la loro autorizzazione al compimento di determinate operazioni (art. 2468, comma 3); c) contenere clausole con le quali si deferiscono ad uno o più terzi i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società.

È inoltre possibile attribuire, in virtù di apposita clausola statutaria, ai soci il potere di impartire direttive vincolanti o istruzioni agli amministratori, con la conseguente responsabilità ex art. 2476, comma 7, c.c.

Ne deriva che nelle s.r.l. l'estensione e le modalità di esercizio del potere gestorio siano decisamente influenzate dall'atteggiarsi, in concreto, dell'organizzazione societaria.

A queste considerazioni di carattere generale, a proposito delle differenze che il tipo sociale già di per se determina riguardo ai caratteri del rapporto di amministrazione, deve seguire quella sugli effetti, al riguardo, della composizione dell'organo amministrativo.

Ed invero, ove esista un consiglio d'amministrazione, non può tacersi: (I) che le attribuzioni gestorio ricadono sull'organo nel suo complesso; (II) che eventuali organi delegati ricevono direttive al riguardo dal consiglio, che ha una competenza concorrente e sovraordinata, tale da condurre anche alla possibile revoca della delega; (III) che il potere rappresentativo spetta, in ogni caso, all'organo individuato dalla delibera di nomina e/o dallo statuto; (IV) che la posizione dei singoli consiglieri diviene, sia dal lato gestorio diretto che da quello rappresentativo, assolutamente meno autonoma o rilevante.

Le argomentazioni che precedono inducono quindi, probabilmente, alla necessità di verificare anzitutto se il rapporto controverso riguardi una S.p.A. o una s.r.l.; poi a quella di accertare le concrete funzioni e/o attribuzioni dell'organo interessato.

Di certo, parlare di una completa autonomia laddove il potere gestorio deve essere (almeno dal lato interno) funzionalizzato al perseguimento dell'oggetto sociale e comunque esercitato al fine di mantenere il rapporto fiduciario con la società ( pena la revoca dall'incarico), lascia alquanto dubbiosi.

In ogni caso, la qualificazione della relazione tra amministratore e società non può essere svincolata, ai fini dell'individuazione della organo competente da adire, da quelle che sono le regole generali in termini di processo.

A tal proposito la Suprema Corte ha da ultimo affermato che va attribuita alla cognizione della sezione specializzata in materia di impresa la controversia introdotta da un amministratore nei confronti della società e riguardante le somme da quest'ultima dovute in relazione all'attività esercitata, deponendo in tal senso, oltre alla "ratio" dell'art. 3, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 168/2003, in quanto volto a concentrare tutta la materia societaria innanzi al giudice specializzato, anche la sua formulazione letterale, la quale, facendo riferimento alle cause ed ai procedimenti «relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario», si presta a comprendere, quale specie di questi, tutte le liti che vedano coinvolti la società ed i suoi amministratori, senza poter distinguere fra quelle che riguardino l'attività gestoria svolta dagli amministratori nell'espletamento del rapporto organico ed i diritti ad essi spettanti in forza del rapporto contrattuale che intercorre con la società (così Cass. n. 13956/2016).

Ebbene, anche a voler ritenere che quello tra amministratore e società sia un atipico rapporto societario, non deve dimenticarsi:

a) che - ai fini dell'individuazione del giudice competente - è necessario rilevare il petitum sostanziale della domanda, ovvero fare esclusivo riferimento al contenuto della domanda proposta in giudizio, in particolare all'oggetto ed ai fatti allegati a fondamento (salvo che non risulti evidente una artificiosa prospettazione finalizzata a sottrarre la causa al giudice precostituito per legge). In particolare il giudice, al quale compete la qualificazione giuridica dei fatti, può anche utilizzare, come fonte complementare del proprio convincimento, le eccezioni formulate dal convenuto, ma esse non possono essere tali da far individuare una diversa competenza quando questa è già compiutamente ravvisabile in base al “petitum” sostanziale della domanda (cfr. Cass. n. 8686/1994). Le affermazioni che precedono trovano conferma in quanto da ultimo affermato dalla Suprema Corte, secondo cui ai fini dell'applicazione dei criteri di determinazione della propria competenza, il giudice deve operare una valutazione «a priori» degli elementi oggettivi, petitum e causa pretendi, secondo la prospettazione fornita dall'attore nella domanda (Cass. n. 18671/2012; conforme, ex multis, Cass. n. 4586/1998). Pertanto la competenza per materia si determina, ai sensi dell'art. 10 c.p.c. (dettato per la competenza per valore ma esprimente un principio generale e, come tale, applicabile anche in riferimento agli altri tipi di competenza), con criterio "a priori", secondo la prospettazione fornita dall'attore nella domanda. (Cass. n. 1122/07), in termini di quadro indicativo e non vincolante ma nondimeno rilevante ai fini della decisione del giudice del merito (che può svolgere una istruzione sommaria) e della Corte regolatrice (che deve limitare il suo scrutinio agli atti). (Cass. 20718/09; Cass nn. 18040, 7586, 5125 e 1122 del 2007);

b) che la competenza delle sezioni specializzate, cui si riferisce la Corte nell'arresto citato, riguarda l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario. Ergo, non ogni vicenda che attiene un preteso rapporto societario.

Le problematiche esposte e, più segnatamente, la considerazione per cui ai fini della individuazione del giudice avente cognizione non può prescindersi, non solo dalla natura del rapporto, ma anche da ciò che è stato devoluto in termini di petitum e causa petendi, appaiono maggiormente rilevanti giacché pare farsi strada, anche nella giurisprudenza di legittimità, in convincimento della competenza esterna delle sezioni imprese.

Di recente la Suprema Corte (Cass. n. 15619/2015) a fondamento di quel principio ha infatti rilevato: 1) che il legislatore, nel delineare i compiti assegnati alle sezioni specializzate espressamente si riferisce a quelli attribuiti sotto il profilo della competenza, diversamente da quanto stabilito, in ambito terminologico, con riferimento al giudice del lavoro, al quale è riconosciuta un'autonoma funzione nell'ambito della competenza del tribunale (art. 413 c.p.c.: competenza del Tribunale, in funzione di giudice del lavoro), in seguito all'istituzione del giudice unico di primo grado; 2) che la circostanza che le sezioni specializzate non sono dislocate presso ogni distretto, ma solo presso alcuni di essi, rende palese che il rapporto fra le sezioni specializzate e le altre non è configurabile come rilevante — in quanto regolante le modalità di ripartizione di affari — all'interno del medesimo ufficio; 3) con inammissibile asimmetria del sistema, che la natura del rimedio muterebbe a seconda che la pronuncia di declinatoria di competenza sia emessa dal giudice del lavoro, o da altro giudice ordinario, a favore della sezione specializzata in materia di impresa, nell'ambito di un Tribunale presso il cui distretto non è dislocata alcuna sezione specializzata, ovvero in un Tribunale nel cui distretto tale sezione sia invece istituita, con la conseguenza che, in tale secondo caso, si verterebbe in un'ipotesi di ripartizione di affari all'interno di un unico ufficio e nell'altro di questione proponibile con il rimedio del regolamento di competenza. Ciò che condurrebbe a privare le parti ed il giudice degli strumenti di cui agli artt. 42 e ss. c.p.c. soltanto in alcuni casi e non in altri sostanzialmente equiparabili, con palese violazione dei principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost; 4) che lo stesso legislatore qualifica come "specializzate" le sezioni che compongono il Tribunale delle imprese,con un aggettivo che è, significativamente, quello utilizzato dall'art. 102, 2° comma, Cost., e che connota anche le sezioni cui sono affidate lecontroversie agrarie, le cui attribuzioni nel senso di competenzapermateria in senso proprio sono pacifiche. Il richiamato art. 102, comma 2, Cost., d'altro canto, prevede, poi, espressamente che le "sezioni specializzate" che possono essere istituite presso gli organi ordinari possano essere composte "anche" con la partecipazione di cittadini idonei ,estranei alla magistraturae non certo "solo" con tale partecipazione, il che vale ad escludere che le sezioni specializzate in materia di impresa possano essere differenziate da quelle agrarie solo perché composte solo da giudici togati.

In altri termini, il rapporto tra sezione specializzata in materia d'impresa e sezioni ordinarie dello stesso ufficio, al pari di ciò che avviene nel rapporto tra dette sezioni ed altri Tribunali, integra questione involgente la “competenza” e non il mero riparto interno degli affari.

Con la conseguenza che l'attribuzione di una controversia relativa agli amministratori di una società di capitali, tra le possibili alternative del tribunale specializzato ovvero di sezione ordinarie e di lavoro dello stesso o di altro ufficio, non parrebbe che profilare – allo stato – un vero e proprio problema di competenza.

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