Profili di incostituzionalità della riforma delle Banche popolari

Mario Cavallaro
23 Febbraio 2017

È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito con modificazioni in legge 24 marzo 2015, n. 33 – ovvero direttamente di tale ultima legge.
Massima

È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito con modificazioni in legge 24 marzo 2015, n. 33 – ovvero direttamente di tale ultima legge – per i seguenti profili:

a) per contrasto con l'art. 77, comma 2, Cost. in relazione alla evidente carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti il ricorso allo strumento decretale d'urgenza;

b) per contrasto con gli articoli 41, 42 e 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 1 Protocollo Addizionale n. 1 alla CEDU, nella parte in cui prevede che, disposta dall'assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo dell'art. 29, comma 2-ter, D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un interesse corrispettivo;

c) per contrasto con gli articoli 1, 3, 95, 97, 23 e 42 Cost., nella parte in cui, comunque, attribuisce alla Banca d'Italia il potere di disciplinare le modalità di tale esclusione, nella misura in cui detto potere viene attribuito "anche in deroga a norme di legge", con conseguente attribuzione all'Istituto di vigilanza di un potere di delegificazione in bianco, senza la previa e puntuale indicazione, da parte del legislatore, delle norme legislative che possano essere derogate e, altresì, in ambiti coperti da riserva di legge.

Il caso

Negli spazi angusti che la recente legislazione in materia bancaria, spesso emergenziale e d'occasione, riconosce al controllo giurisdizionale ordinario e speciale si inserisce con grande incisività la Sesta Sezione del Consiglio di Stato che con due ordinanze coordinate (la n. 5277 del 15.12.2016 e la n. 5383 del 2.12.2016) ha sospeso cautelarmente, in attesa che si decida la questione di legittimità costituzionale sollevata ed accolta in sede cautelare, l'atto impugnato.

Si tratta della circolare della Banca d'Italia n. 285 del 17 dicembre 2013 - 9 aggiornamento del 9 giugno 2015, nella clausola in cui disciplina l'esclusione del diritto al rimborso, prescrivendo modifiche statutarie dirette a introdurre nello statuto "la clausola che attribuisce all'organo con funzione di supervisione strategica, su proposta dell'organo con funzione di gestione, sentito l'organo con funzione di controllo, la facoltà di limitare o rinviare, in tutto o in parte, e senza limiti di tempo, il rimborso delle azioni del socio uscente e degli altri strumenti di capitale computabili nel CET1, anche in deroga a disposizioni del codice civile e ad altre norme di legge".

Soggetta a rilievi di costituzionalità della legge anche l'attribuzione agli organi della stessa società interessata dal recesso (e quindi, in sostanza, allo stesso soggetto debitore del rimborso spettante al socio che recede) il potere di decidere l'esclusione del rimborso medesimo, finendo in tal modo per creare una irragionevole situazione di conflitto di interesse, nella quale il debitore è paradossalmente fatto arbitro delle sorti del diritto al rimborso della quota vantato dal socio creditore, il quale intenda recedere per effetto e in diretta dipendenza della delibera di trasformazione societaria.

Inoltre si censurano anche le impugnate “Disposizioni di vigilanza – Banche popolari” del 9 aprile 2015, che disciplinano:

a) le modalità di calcolo della soglia “sensibile” pari a 8 miliardi di euro di capitale sociale, da computare secondo le segnalazioni di vigilanza individuali o consolidate;

b) il rimborso degli strumenti di capitale al socio che ha esercitato il recesso dalla società dopo la trasformazione della Popolare in S.p.A., che può essere limitato “anche in deroga a disposizioni di legge”, affermando che detta facoltà deve essere contemplata nello statuto della banca ed è attribuita all'organo di gestione, fermi i poteri autorizzativi dell'autorità di vigilanza rispetto al rimborso di fondi propri ai sensi dell'art. 77 CRR (ossia del Regolamento UE/575/2013 del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica il Regolamento UE/648/2012);

c) l'attribuzione di “una sorta di sub-delega del potere di delegificazione” conferendo all'autonomia statutaria della società il potere di introdurre "deroghe a disposizioni del codice civile e ad altre norme di legge", dando così vita a un'inedita forma di delegificazione di fonte negoziale, di cui francamente effettivamente non si sentiva la mancanza nel caotico ed ormai destrutturato sistema normativo bancario, sempre più affannosamente all'inseguimento, non solo in Italia, delle ragioni - superiori persino a quelle di stato - della finanza internazionale e del suo affannoso ed affannato equilibrio.

Oggetto dell'attenzione del Supremo Collegio Amministrativo anche la parte dispositiva della circolare, emanata in forza della legge di cui si segnala l'incostituzionalità in quanto produttiva di tali effetti, secondo cui “non saranno ritenute in linea con la riforma operazioni da cui risulti la detenzione, da parte della società holding riveniente dalla ex "popolare", di una partecipazione totalitaria o maggioritaria nella s.p.a. bancaria o, comunque, tale da rendere possibile l'esercizio del controllo nella forma dell'influenza dominante”.

La limitazione, chiarisce il Collegio, risulta priva di base legislativa e appare, oltre che non necessaria per realizzare le finalità della riforma, foriera di un'irragionevole disparità di trattamento tra i soci delle ex popolari (privati della possibilità di esercitare il controllo) e ogni altro soggetto che partecipi al capitale azionario (cui, invece, tale possibilità resta riconosciuta).

Insomma non solo un quadro di censure circoscritte all'esame dell'atto impugnato, ma una valutazione preliminare di non manifesta infondatezza e rilevanza della questione di incostituzionalità della norma primaria da cui trae fonte l'impugnata attività amministrativa e cioè il richiamato art. 1 D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 convertito con modificazioni nella legge 24 marzo 2015, n. 33, e pertanto anche direttamente tale ultima legge.

Il primo profilo, pur di grande rilievo, esula dalla materia bancaria in senso stretto e ripropone la questione, con alterne vicende e non univoci orientamenti sollevata dalla Corte in riferimento al contrasto con l'art. 77, comma 2, Cost. in relazione alla evidente carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti il ricorso allo strumento decretale d'urgenza.

Il secondo puntuale profilo di incostituzionalità fa riferimento come parametro agli artt. 41, 42 e 117, comma 1, Cost., in relazione all'articolo 1 del Protocollo Addizionale n. 1 alla CEDU, nella parte in cui prevede che, disposta dall'assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo dell'art. 29, comma 2-ter, D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un interesse corrispettivo.

Il terzo si riferisce al possibile contrasto con gli articoli 1, 3, 95, 97, 23 e 42 Cost., nella parte in cui, comunque, attribuisce alla Banca d'Italia il potere di disciplinare le modalità di tale esclusione, nella misura in cui detto potere viene attribuito "anche in deroga a norme di legge", con conseguente attribuzione all'Istituto di vigilanza di un potere di delegificazione in bianco, senza la previa e puntuale indicazione, da parte del legislatore, delle norme legislative che possano essere derogate e, altresì, in ambiti coperti da riserva di legge.

In verità, la decisione del Consiglio di Stato si è anche posta l'ulteriore problema della speciale natura della tutela giurisdizionale quando si coniuga al rilievo di costituzionalità, utilizzando la nozione di misura cautelare “interinale”, adottata nella pendenza del giudizio di costituzionalità “al fine di conciliare il carattere accentrato del sindacato di costituzionalità con il principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.; art. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali)”.

Il Consiglio di Stato, ricordato come la Corte Costituzionale infatti neghi tempestività all'incidente di costituzionalità ove il giudizio cautelare si sia concluso e non sia sollevato tempestivamente in quello di merito ha nuovamente aderito alla tesi ormai maggioritaria e più recente di una sospensiva “interinale”, contro la più risalente pratica (Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza 20 dicembre 1999, n. 2; Cons. Giust. Amm., ordinanza 20 giugno 2001, n. 458) di concedere la immediata sospensiva, di fatto producendo anche una “sospensione” della norma sospettata di incostituzionalità, per poi sollevare nel giudizio di merito la relativa questione.

Sulla scorta dell'orientamento della Corte Costituzionale e di una ormai corposa giurisprudenza anche recente (la pronuncia cita espressamente le sentenze, sempre del C.d.S., n. 444 del 1990; n. 367 del 1991; n. 30 e n. 359 del 1995; n. 183 del 1997; n. 4 del 2000; le ordinanze n. 24 del 1995; n. 194 del 2006; n. 83 del 2013; n. 200 del 2014; nonché, da ultimo, la sentenza n. 133 del 2016 e, ivi, in particolare il § n. 3.3. della relativa motivazione) la sentenza aderisce alla tesi della possibile “scomposizione” del giudizio cautelare in due fasi, nella prima delle quali si accoglie la domanda cautelare “a termine”, ossia soltanto fino alla decisione della questione di costituzionalità contestualmente sollevata, mentre nella seconda fase, da differirsi all'esito del giudizio di costituzionalità, si decide “definitivamente” sulla domanda cautelare, tenendo conto, per valutare la sussistenza del fumus boni iuris, della decisione della Corte costituzionale.

Senza addentrarsi nelle altre questioni relative alla rilevanza - che il Consiglio di Stato ritiene sussistere almeno in riferimento ad alcune delle prospettate fattispecie e ad alcune categorie di ricorrenti - è invece molto interessante un breve approfondimento di quel che riguarda più specificamente il merito dei due profili delle questioni di legittimità costituzionale evocate in giudizio.

Gli atti impugnati in sede amministrativa derivano dall'esercizio del potere attuativo attribuito alla Banca d'Italia dal comma 2-quater del nuovo art. 29 TUB.

La soluzione giuridica adottata

I ricorrenti hanno sostenuto che gli atti impugnati erano patentemente affetti da “illegittimità derivata”, a causa dell'illegittimità costituzionale della normativa primaria ed hanno proposto più articolate censure.

Esamineremo solo quelle ritenute non infondate e rilevanti dal C.d.S. rinviando direttamente alla pronuncia per le questioni non accolte.

Nella pronuncia, il Consiglio di Stato dimostra con complesso ragionamento di percepire la dimensione anche europea del tema e non a caso ritiene che la facoltà di limitare o rinviare, in tutto o in parte, e senza limiti di tempo, il rimborso delle azioni del socio uscente e degli altri strumenti di capitale computabili nel CET1, anche in deroga a disposizioni del codice civile e ad altre norme di legge ovvero di differirlo senza limiti di tempo, sembrerebbe “porsi in contrasto con gli articoli 41 e 42 Cost. (nella parte in cui, rispettivamente, tutelano la libertà di iniziativa economica e la proprietà privata, prevedendo che quest'ultima possa essere espropriata, nei casi preveduti dalla legge e salvo indennizzo, per motivi di interesse generale), nonché con l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo.”

Il C.d.S. muove infatti proprio dalla disposizione sovranazionale (art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 della CEDU), richiamato come parametro di costituzionalità dall'art. 117, comma 1, Cost. (Corte Cost. n. 348 e n. 349 del 2007; Corte Cost. n. 311/2009, n. 303/2011).

Partendo infatti da un certo agnosticismo della Corte di Strasburgo sul tema della definizione di proprietà, che ha più volte affermato che non le compete definire la questione se ci sia o meno un diritto di proprietà al livello di ordinamento interno, in quanto la nozione di “biens” (o “possessions”) di cui all'articolo 1 del Protocollo n. 1 ha una portata autonoma che non circoscrive i beni a quelli materiali ed appartiene al diritto interno, la Corte amministrativa si è posto il problema di delimitare l'ambito della tutela riconosciuta alla “proprietà” dalla CEDU per delimitare a sua volta la tutela che gli artt. 41 e 42 della Costituzione offrono alla libertà di iniziativa economica e alla proprietà privata.

Poiché il criterio utilizzato per delimitare il campo di applicazione dell'art. 1 del Protocollo addizionale è secondo costante insegnamento della Corte Europea quello del “valore patrimoniale”, senza che assuma rilevanza la qualificazione “interna” della pretesa patrimoniale in termini di proprietà, diritto reale, diritto di credito o mero interesse patrimoniale giuridicamente rilevante non vi è dubbio che sia la partecipazione societaria, sia il diritto al rimborso della quota rappresentino “beni” ai sensi dell'art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU.

Se ciò è, sulla portata addirittura ablatoria in talune ipotesi più radicali (si pensi all'esclusione o al differimento sine die al diritto al rimborso del socio) della norma in esame non pare possibile sollevare dubbi, e il parametro di costituzionalità appare violato.

Il passaggio più ardito è tuttavia quello successivo, in quanto pur riconosciuta la sussistenza di una concorrente esistenza di interessi di rilevanza costituzionale (la tutela della proprietà versus la tutela del buon andamento del risparmio, del sistema finanziario e di quello bancario) il Consiglio di Stato ritiene che tale bilanciamento di valutazioni, che certamente il legislatore può perseguire con discrezionalità, incontra tuttavia il limite del c.d. “principio del minimo mezzo”: che trova, a sua volta, il proprio fondamento nei più generali principi di ragionevolezza e proporzionalità.

In buona sostanza, opina il C.d.S., un bene di rilievo costituzionale non può essere sacrificato anche in comparazione con altri diritti a tutela costituzionale, al di là dei limiti in cui tale sacrificio sia strettamente necessario per assicurare un'adeguata tutela dell'interesse, a sua volta costituzionalmente rilevante, che sia ritenuto prevalente nel giudizio di bilanciamento.

Il Giudice remittente ha ritenuto dunque che proprio tale giudizio di comparazione non fosse soddisfacente, né inquadrato rettamente nel bilanciamento dei contrapposti diritti.

Osservazioni

Più fragile, in verità, appare però l'argomentazione successiva, secondo cui la previsione legislativa che consente di escludere il diritto al rimborso non troverebbe fondamento e copertura nelle norme del diritto dell'Unione Europea, e segnatamente nel Regolamento delegato UE n. 241/2014 della Commissione del 7 gennaio 2014 (che integra il Regolamento UE n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio).

Il C.d.S. pur non negando che la disposizione del Regolamento che si occupa dei limiti al rimborso degli strumenti di capitale (art. 10) prevede alternativamente la possibilità sia di rinviare il diritto al rimborso sia di escluderlo in tutto o in parte, afferma che tale norma costituirebbe in capo al sistema nazionale una facoltà, e non un obbligo, di delimitare l'esercizio di tali diritti.

Non si può non osservare tuttavia che se già con la nota sentenza della Corte giustizia Unione Europea Grande Sezione 08-11-2016, n. 41/15 tale valutazione è stata sussunta nel diritto europeo, in quanto l'esame comparato dei diritti (nel caso trattato, di quelli nazionali irlandesi, dove pure l'ordinamento interno protegge la proprietà anche nelle forme della titolarità di strumenti bancari) ha già provocato un giudizio di compatibilità, anzi coerenza con il diritto europeo di clausole limitative del diritto del socio, proprio in presenza di interessi urgenti e reali del sistema bancario in generale, oltre che in relazione alle singole banche oggetto di esame.

Ora, non pare che nel caso di specie ci si possa discostare da tale valutazione, a meno che non si ritenga, il che è almeno controverso, che il legislatore interno (e le corti interpretatrici) è l'unico portatore del diritto a tale comparazione, che invece appare più logico affidare alla Corte europea e al sistema normativo europeo.

Conclusioni

Punto dunque la cui delicatezza rimane visibile, anche se il secondo rilievo appare consolatoriamente dirimente, essendo sicuramente meritoria la vera e propria stroncatura della norma nella parte in cui affida alla Banca d'Italia, come del resto incautamente e con modesti risultati fatto dal legislatore anche in materia di bail-in e recentemente di capitalizzazione pubblica di alcuni istituti di credito in crisi, poteri decisamente extra ordinem (la norma recita “in deroga alle disposizioni di legge”, che è locuzione sinceramente preoccupante, trattandosi di un organo complesso, sicuramente pubblico nelle funzioni, ma certo non portatore neanche eventuale di altra funzione che quella di alta amministrazione) e peraltro senza almeno costituire una griglia preventiva di criteri e condizioni in cui tale signoria a-legislativa potrebbe essere esercitata.

Come ampiamente trattato nella pronuncia in commento, la delegificazione possibile nel nostro sistema istituzionale (art. 17, comma 2, L. n. 400/1988) vede come unico destinatario il Governo e con profonde e precise garanzie di percorso sia nell'assegnazione di tale potere sia nella sua attuazione (passaggi al Consiglio di Stato e nelle commissioni parlamentari competenti, ad esempio) ed appare anche violare data la materia che attiene alla regolazione di diritti soggettivi che fanno capo al sistema del diritto civile e societario il principio della riserva di legge, necessario strumento per regolare diritti patrimoniali, come rettamente qualificati i diritti dei soci sia verso il capitale sociale sia verso la sua gestione “amministrativa” all'interno del patto sociale.

Sempre più appare necessaria, come del resto il legislatore ha fatto in altri campi, una revisione critica, organica e coerente con i principi costituzionali, delle disposizioni in materia bancaria affastellatesi confusamente negli ultimi tempi, ivi compreso un miglior inquadramento dei poteri e dei controlli di e su Bankitalia, a meno che non si voglia, seppur in via di fatto, sostenere la tesi che si stia passando dallo stato sociale di diritto del ‘900 allo stato finanziario contemporaneo.

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