Onerosità del compenso dei sindaci e determinazione giudiziale

05 Giugno 2015

L'incarico di componente del collegio sindacale, ai sensi dell'art. 2402 c.c. è necessariamente oneroso, in quanto non riflette solo interessi corporativi, ma concorre a tutelare, a garanzia dei terzi e del mercato, la serietà, l'indipendenza e l'obiettività della funzione.
Massima

L'incarico di componente del collegio sindacale, ai sensi dell'art. 2402 c.c. è necessariamente oneroso, in quanto non riflette solo interessi corporativi, ma concorre a tutelare, a garanzia dei terzi e del mercato, la serietà, l'indipendenza e l'obiettività della funzione, onde, ove l'entità del compenso non sia stabilita nell'atto costitutivo, né fissata dall'assemblea, spetta al giudice che ne sia richiesto (nel caso di specie in sede di opposizione allo stato passivo del fallimento della società) di procedere alla sua determinazione, ai sensi dell'art. 2233 c.c.

Il caso

La vicenda riguarda un'opposizione allo stato passivo svolta da un sindaco (commercialista) della società fallita che domandava l'ammissione dei maggiori compensi residui a lui spettanti per l'incarico ricoperto relativamente al periodo 2004-2005.

Il Tribunale respingeva la domanda spiegando che in realtà dalla delibera di conferimento dell'incarico e dai dati di bilancio le somme già percepite in quel biennio non potevano essere considerate meri acconti su importi superiori eventualmente spettanti. Il Tribunale aggiungeva peraltro che le somme deliberate erano legittime in quanto non violavano neppure i limiti tariffari.

Le questioni

La questione principale affrontata dalla Suprema Corte attiene al tema del compenso spettante ai membri del collegio sindacale.

Tale aspetto riguarda due profili essenziali, l'an debeatur e il quantum debeatur.

Sul primo punto, la norma di riferimento, l'art. 2402 c.c., recita: “la retribuzione annuale dei sindaci, se non è stabilita nello statuto, deve essere determinata dalla assemblea all'atto della nomina per l'intero periodo di durata del loro ufficio”.

Secondo l'opinione maggiormente diffusa in dottrina (De Gregorio, Corso di diritto commerciale – imprenditori e società, Dante Alighieri, 1970, 311; Cavalli, I sindaci, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, Torino, 1988, 331) e in giurisprudenza (Trib. Milano, 10.9.1981, in Foro It., 1982, I, 2061, Cass. 15.12.1983 in Dir. Fall., 1984, II, 11, n. 7424; Tribunale di Pavia, 16.2.1991 in Società, 1991, 1233, nota di LAURO; Cass. 27.10.2014, n. 22761, in CED Cassazione 2014) tale disposizione sancisce il principio dell'onerosità della carica di sindaco a garanzia e presidio della serietà, indipendenza e obiettività della funzione ricoperta.

Si ritiene infatti che se l'incarico fosse gratuito risulterebbe inevitabilmente “svilito” con il rischio concreto di prestazioni professionali “scarse” o, peggio ancora “influenzabili” da altri soggetti.

Minoritaria e oggi sostanzialmente superata è l'opinione dottrinale secondo cui sarebbe indifferente il carattere oneroso o gratuito dell'ufficio (Vidari, Corso di diritto commerciale, II, Milano, 1901, 213 e Navarrini, Delle società e delle associazioni commerciali, in Commentario al codice di commercio, Giuffrè, 1924, 692) che pure ebbe soprattutto in passato riconoscimento anche nella giurisprudenza (Le Corti di Appello di Napoli, 3.3.1972 in Dir. e giur., 1972, 911 e di Potenza, 13.5.1988 in Riv. Not., 1989, 671 spiegarono che il rapporto in esame non sarebbe oneroso ex lege, anzi il compenso sarebbe elemento accidentale dell'incarico rimesso alla libera determinazione delle parti).

Oggi invece l'incarico è considerato necessariamente ed inderogabilmente oneroso; la lettera dell'art. 2402 c.c. (“deve”) attribuisce un diritto al compenso irrinunciabile per il sindaco.

Non a caso la giurisprudenza ha reputato illegittime le clausole statutarie che prevedano la gratuità dell'incarico (Tribunale di Matera, 24.12.1988) o che rimettano all'assemblea la decisione se compensare o meno sindaci (Cass., 31.5.2008, n. 14640 in Fallimento, 2008, 10, 1144).

Sempre a garanzia dell'indipendenza e terzietà dei sindaci il compenso deve avere due caratteristiche.

Deve innanzitutto essere predeterminato al momento dell'assunzione della carica in modo da evitare posizioni di sudditanza o debolezza nei confronti dell'assemblea nel corso dell'esecuzione del rapporto.

L'ammontare peraltro va definito per la complessiva durata dell'incarico, sebbene il diritto di credito “pro quota” maturi alla scadenza di ogni singolo anno e divenga esigibile con l'assemblea che approva il progetto di bilancio (così spiega Campana, Il collegio sindacale secondo la giurisprudenza di legittimità e di merito, in NGCC 2001, 519, in tal senso Tribunale di Roma, 7.7.2010, in Foro It., 2011, 5, 1, 1582).

In particolare nell'arco dell'esercizio annuale il compenso ha carattere unitario e può essere eventualmente frazionato solo nel caso di cessazione della carica che si verifichi nel corso dell'anno.

La predeterminazione globale del compenso consente di salvaguardare l'altro principio, cioè l' “invariabilità” della retribuzione nel corso del rapporto.

In questo modo si evita da un lato che l'assemblea deliberi modifiche peggiorative “punitive” nei confronti dei sindaci e dall'altro che sindaci “contrattino” variazioni in melius frutto di accordi collusivi con gli amministratori (sempre Campana, cit.).

Con particolare riferimento alle modifiche migliorative anche la dottrina maggioritaria è negativa (vedi Maffei Alberti, Commentario breve al diritto delle società, II edizione, Padova, 2011, pag. 714, contra Frè-Sbisà, Società per azioni, Commentario del codice civile Scialoja Branca, a cura di Galgano, 1997, Zanichelli, 891), mentre si ritiene possibile stabilire variazioni legate a obiettivi predeterminati.

Il compenso deve in ogni caso essere omnicomprensivo costituendo l'unico emolumento da corrispondere all'incaricato (Trib. Milano, 23.3.1984 in Società, 1984, 1143).

Ulteriore problema è capire cosa accade nell'ipotesi in cui né lo statuto, né l'assemblea abbiano stabilito l'ammontare del compenso.

In primo luogo si è osservato che eventuali “vizi” di questo tipo non determinano l'invalidità radicale dell'atto costitutivo o della delibera di nomina del sindaco (così spiega Tedeschi, Il collegio sindacale, in Commentario Schlesinger, Giuffrè, 1993, 98). Così pure il sindaco non è tenuto ad impugnare la delibera di nomina che non abbia preventivamente fissato il suo compenso (sempre Tedeschi, cit., 100).

Del pari, come visto sopra, eventuali mancanze in tal senso non determinano la gratuità dell'ufficio (Domenichini, Il collegio sindacale nelle società per azioni, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 16, 1985, 547).

Il sindaco può allora adire il giudice per chiedere la liquidazione giudiziale del proprio compenso.

Competente a decidere simile controversia è il Tribunale del lavoro (così Tribunale di Napoli, 12.6.1996), ma, come evidente nel caso di specie, la domanda può essere svolta e trattata anche in sede fallimentare dal giudice del procedimento di opposizione allo stato passivo del fallimento della società che aveva incaricato il sindaco.

In tal caso gli elementi per stabilire il quantum sono forniti dalla gerarchia indicata dall'art. 2233 c.c. dato che il rapporto che si configura tra società e sindaco è affine al contratto d'opera professionale (così riconosce anche Trib. Milano, 27.10.1989).

Alla mancanza quindi di convenzione tra le parti, suppliranno in prima battuta le tariffe e gli usi ed infine il giudice facendo riferimento all'importanza dell'opera, alla difficoltà dell'incarico e al decoro professionale (in tal senso Cass., n. 7424 del 16.12.1983 su Mass. Giur. It., 1983).

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte conferma l'orientamento sopra esposto a mente del quale l'incarico di componente del collegio sindacale è necessariamente e inderogabilmente oneroso. Nel caso di mancata preventiva fissazione dell'ammontare, il sindaco può rivolgersi direttamente al giudice per la relativa liquidazione nel rispetto dei criteri indicati dall'art. 2233 c.c.

Conformemente a quanto illustrato solo un sindaco adeguatamente retribuito può svolgere in modo terzo ed imparziale la propria funzione di controllo indipendente nei confronti degli amministratori e dell'assemblea.

Sarebbe stato però interessante se la Corte avesse esaminato anche il motivo sollevato dal ricorrente relativo alla possibilità per il giudice di derogare ai minimi tariffari stabiliti ratione temporis dall'Ordine dei Commercialisti in riferimento alle prestazioni rese in qualità di sindaci da professionisti iscritti all'albo.

In effetti il periodo in esame era il biennio 2004-2005 durante il quale vigeva ancora il D.P.R. n. 100 del 1997, prima delle modifiche introdotte dal Decreto Bersani (D.L. n. 223/2006) e prima ancora del D.L. 24.1.2012, n. 1 che ha abrogato le tariffe professionali con successivo D.M. n. 140/2012 introduttivo dei cosiddetti “parametri” da utilizzare nel caso di liquidazione del compenso del professionista da parte di un organo giurisdizionale (per un commento relativo al periodo si rimanda a Monticelli, Considerazioni in tema di determinazione del compenso del sindaco-dottore commercialista, in Le Società, 2004, 8, 948 ss.).

In realtà gli Ermellini hanno “sorvolato” sul punto ritenendo che comunque nel caso di specie vi era stata una determinazione negoziale dell'entità della retribuzione, pertanto il giudice in concreto non era autorizzato ad intervenire con il proprio potere integrativo ex art. 2233 c.c.

In ogni caso, spiega la Suprema Corte in un obiter dictum, il quadro normativo-giurisprudenziale attuale risulta profondamente mutato e evoluto in ordine al tema dell'inderogabilità dei limiti tariffari.

Già negli anni Novanta infatti la Corte di Giustizia UE aveva precisato che anche per “un'attività (come quella di spedizioniere doganale) avente carattere intellettuale… non è esclusa dalla sfera di applicazione degli artt. 85 e 86 del Trattato…” Pertanto “…la tariffa che determina i prezzi massimi e minimi applicabili alla clientela degli spedizionieri doganali, vincolante per questi ultimi e fissata dai membri dell'organizzazione professionale, si configura come decisione di associazione di imprese ed è nulla di diritto ai sensi dell'art. 85 Trattato CE in quanto lesiva della libera concorrenza e pregiudizievole degli scambi intercomunitari” (così la CGCE, 18.6.1998, C-35/96).

Successivamente con la sentenza 19.2.2002 (causa C-35/99) la Corte relativamente alle tariffe forensi ha affermato che “gli artt. 5 e 85 del Trattato CE non impediscono ad uno Stato membro di adottare norme che approvino, sulla base di un progetto stabilito da un ordine forense, una tariffa che fissi gli onorari minimi e massimi per i membri dell'ordine, qualora lo Stato stesso, tramite i suoi organi, eserciti controlli nei momenti dell'approvazione della tariffa e della liquidazione degli onorari”.

Di fatto i principi comunitari erano “salvi” poiché la normativa italiana non consentiva semplicemente un autonomo potere dell'ordine professionale di stabilire le tariffe, bensì permetteva allo stesso di presentare un progetto di tariffa di per sé non vincolante e sottoposto al controllo del Ministro con il potere di far modificare tale progetto (così Cass., 15.12.2011, n. 27090).

A seguito poi dell'introduzione del Decreto Bersani, l'art. 2 del D.L. 223/2006, dopo aver abrogato l'obbligatorietà delle tariffe, le ha fatte salve sia nel caso della liquidazione delle spese di giudizio a carico del soccombente, sia nelle ipotesi in cui (come l'art. 2233 c.c.) il giudice deve determinare il compenso professionale.

Pertanto (quanto meno con riferimento alla prestazioni rese dal professionista avvocato) nel periodo che va dal Decreto Bersani al D.L. 1/2012 che ha abrogato definitivamente le tariffe professionali poi sostituite dai parametri del D.M. 140/2012, il cliente e il professionista potevano concordare un compenso in deroga ai limiti di tariffa. In mancanza di un accordo negoziale sul punto, il giudice era chiamato ad intervenire secondo il potere integrativo di cui all'art. 2233 c.c. attenendosi ai limiti tariffari allora in vigore (D.M. 127/2004) potendovi derogare nel minimo solo qualora fra le prestazioni svolte e il compenso da tabella fosse apparsa una manifesta sproporzione e in presenza del parere obbligatorio del competente Consiglio dell'Ordine (in tal senso recentemente Cass. 10.5.2013, n. 11232 citata dalla stessa sentenza in commento).

Osservazioni

Oggi, è possibile prevedere risultati analoghi considerando al posto delle tariffe professionali i parametri stabiliti dal citato D.M. 20.7.2012, n. 140 (nello specifico l'art. 29 fa riferimento proprio all'incarico di sindaco di società) non potendosi più rinviare nel caso di compenso del collegio sindacale ai valori di tariffa (così Gruppo di lavoro ODCEC di Ivrea, Pinerolo e Torino, I compensi dei sindaci dopo il D.M. 140/2012, 14.3.2013 con l'impossibilità oggi di ricorrere alle disposizioni di cui all'art. 37 del D.M. 2.9.2010, n. 169 – prima ancora art. 37 D.P.R. n. 100/1997 – dettato proprio per l'incarico di sindaco ricoperto da commercialisti; per un'analisi dettagliata si rimanda anche a Cerri, Mazza, Sottoriva, Abrogazione delle tariffe professionali ed emanazione del decreto del ministero della giustizia del 20 luglio 2012 n. 140: determinazione del compenso per l'attività del collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione legale dei conti, in Il controllo nelle società e negli enti, Giuffré, Anno XVI, 4-5, 2012, 647).

Infatti l'art. 9, comma 2, D.L. 24.1.2012, n. 1 prevede: “Ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1 (cioè appunto l'abrogazione delle tariffe), nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante” Tale D.M. (n. 140/2012) all'art. 1, comma 7 ha stabilito però che “In nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa”.

La vexata quaestio relativa all' “intangibilità” dei minimi in ordine alla liquidazione dal parte dell'organo giurisdizionale sembrerebbe quindi risolta nella possibilità per il giudice di derogarvi ove le caratteristiche dal caso concreto suggeriscano un intervento di quel tipo.

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