I sindaci di una società di capitali non concorrenti nel reato di bancarotta: da potenziali imputati ad attuali danneggiati

30 Agosto 2016

Il tribunale ritiene possibile ravvisare un danno del collegio sindacale dai reati per cui si procede, quantomeno sotto il profilo della lesione dell'immagine dei componenti del collegio sindacale, e ammette dunque la costituzione di parte civile del collegio sindacale.
Massima

Il tribunale, rilevato che sulla base delle prospettazioni delle parti e del limitato materiale a disposizione del collegio, ritiene possibile ravvisare un danno del collegio sindacale dai reati per cui si procede, quantomeno sotto il profilo della lesione dell'immagine dei componenti del collegio sindacale, ammette la costituzione di parte civile del collegio sindacale della società.

Il caso

La terza Sezione penale del tribunale di Napoli, con un'ordinanza che non ha precedenti, ammette la costituzione di parte civile di tutti i componenti di un collegio sindacale di una società di capitali in un processo per bancarotta fraudolenta contro gli amministratori che ne hanno cagionato il dissesto.

Con i capi di imputazione, il pubblico ministero contesta solo agli amministratori di fatto e di diritto, in concorso fra loro, di aver posto in essere, da un lato, più condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto e/o di recare pregiudizio ai creditori, ai sensi dell'art. 216, comma 1, n. 1 e n. 2, e comma 2, art. 219, comma 2, n. 1, 222 e 223, comma 1, r.d. 16 marzo 1942 n. 267 (in particolare, gli amministratori falsificavano le registrazioni del libro giornale e la documentazione bancaria di supporto avente ad oggetto pagamenti di retribuzioni e dei T.F.R., debiti verso istituti previdenziali, debiti tributari e accrediti del “Fondo Coperture Perdite”, in modo da far apparire come avvenuto il pagamento di somme in realtà mai erogate; occultavano, distruggevano e comunque omettevano di tenere le scritture contabili obbligatorie; omettevano di redigere il bilancio d'esercizio nonché l'elenco dei creditori e, comunque, tenevano la documentazione contabile in condizioni tali da non rendere possibile la corretta e completa ricostruzione del movimento degli affari della società dichiarata fallita); dall'altro, numerosi delitti previsti in materia di società dal codice civile, ai sensi degli artt. 2621 c.c. (false comunicazioni sociali), art. 2622 c.c. (false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci e dei creditori), art. 2628 c.c. (illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante), art. 2630, comma 1, c.c. (omessa esecuzione di denunce, comunicazioni e depositi), che concorrevano ad aggravare il dissesto della società dichiarata fallita con sentenza del tribunale di Napoli ex art. 223, comma 2, n. 1, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (perché esponevano nei bilanci dati non rispondenti al vero, quali debiti inferiori a quelli effettivi, attività maggiori di quelle effettive e patrimoni netti maggiori di quelli effettivi); e, infine, un'ipotesi di falso prevista dal combinato disposto degli artt. 477 e 482 c.p., per aver falsificato un'attestazione di regolarità contributiva, apparentemente emessa da un ente nazionale di previdenza.

Nello specifico, le condotte illecite ipotizzate si sostanziano in una serie di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili nonché nelle alterazioni dei dati contenuti nei bilanci di esercizio pre-fallimentare, finalizzate a far apparire agli occhi dei creditori una situazione patrimoniale societaria non corrispondente a quella reale, con danno per i loro diritti ed interessi.

A fronte di tali imputazioni, esclusa a priori un'ipotesi di responsabilità per omesso controllo da parte del collegio sindacale, viene avanzata dai medesimi sindaci una richiesta di ammissione alla costituzione di parte civile, i quali lamenterebbero il verificarsi di un danno a loro carico in conseguenza delle azioni delittuose contestate, dal momento che, a seguito della procedura fallimentare, il curatore della società ha intrapreso anche nei loro confronti un'azione giudiziaria civile, tesa ad accertare la esistenza di eventuali responsabilità a loro carico nell'esercizio delle attività di verifica e controllo della tenuta delle scritture della società.

La questione

Secondo la tesi difensiva degli imputati (che chiedevano l'inammissibilità – recte: esclusione – della costituzione di parte civile dei sindaci), sebbene il collegio sindacale non sia mai stato coinvolto nella vicenda penale, non potrebbe escludersi comunque la esistenza di una responsabilità di diversa natura, scaturente dalla commissione di ipotetiche irregolarità nello svolgimento dei loro compiti sociali.

Sotto altro profilo, si è altresì evidenziato che il presunto danno lamentato dai sindaci, consistendo nell'aver subito un'azione giudiziaria di responsabilità civile, non risulterebbe neppure diretta e immediata conseguenza della commissione delle condotte illecite di bancarotta contestate agli odierni imputati (con un ragionamento assai anacronistico ripreso da un'antica e superata giurisprudenza secondo la quale, in sede penale, sono meritevoli di tutela civili solo i danni che siano conseguenza immediata e diretta dell'azione delittuosa posta in essere).

E anzi, si ritiene che proprio l'avvio, da parte della curatela, di un'azione giudiziaria civile nei confronti dei sindaci comproverebbe l'astratta attribuibilità di responsabilità anche a loro carico nell'esercizio dei poteri di vigilanza e controllo sugli organi amministrativi, così consentendo la commissione dei fatti di bancarotta contestati agli odierni imputati.

Epperò, tali argomentazioni, se da un lato certamente escludono di poter individuare nei sindaci le persone offese del reato, dall'altro non consentono di scartare a priori l'eventualità e l'effettività di un danno da questi subito a seguito delle condotte penalmente rilevanti contestate unicamente agli amministratori.

Le soluzioni giuridiche

In tema di reati fallimentari, l'art. 240 l.fall. conferisce esplicitamente al curatore, al commissario giudiziale e al commissario liquidatore la veste di “danneggiati”, con la conseguenza di essere legittimati ex lege ad esercitare il diritto di costituirsi parte civile in riferimento alle condotte delittuose previste dal testo normativo in parola.

Peraltro, in assenza delle iniziative intrapresa dai suindicati soggetti o quando intendono far valere un titolo di azione propria personale, è poi previsto il potere – residuale – dei singoli creditori della società fallita di costituirsi parte civile, laddove lamentino la mancata soddisfazione di un loro credito nei confronti della società.

A una prima disamina della norma citata, sembrerebbe che i soggetti indicati siano gli unici abilitati all'esercizio di tale facoltà proprio perché portatori di un interesse direttamente riconnesso al bene giuridico tutelato dalle norme penali in questione, di natura economico-patrimoniale in riferimento alla gestione della società, leso – appunto – dalle condotte contestate.

Di conseguenza, sembra esclusa una medesima possibilità per i sindaci di una società di capitali.

A norma dell'art. 2403 c.c., il collegio sindacale è l'organo a cui sono devoluti tutti i poteri di controllo della amministrazione e della gestione societaria, con particolare riferimento anche e soprattutto agli aspetti economici contabili.

Tale potere, a norma dell'art. 2403-bis c.c., non risulta peraltro in alcun modo vincolato all'operato degli altri organi sociali, essendo loro riconosciute tutta una serie di prerogative amministrative, gestionali e contabili svolte dalla stessa società.

Da ciò deriva che, anche con riferimento al compimento di specifici atti, quali ad esempio le operazioni di predisposizione e approvazione dei bilanci di esercizio, essi assumono un ruolo e una funzione di primaria importanza.

Del resto, dall'autonoma e penetrante funzione di controllo conferita a tale organo discende, altresì, il potere allo stesso riconosciuto, ex art. 2409 c.c., di presentare addirittura denuncia al tribunale, qualora ravvisi nel corso della sua attività il compimento di irregolarità da parte degli organi di amministrazione da cui possono derivare pregiudizi per la società stessa.

Non a caso, quindi, l'art. 223 l.fall. individua – in modo esplicito – anche i sindaci tra i soggetti attivi di reati di bancarotta, proprio in relazione agli specifici e autonomi poteri e doveri di controllo a loro riconosciuti per la corretta amministrazione e gestione dell'operato della società.

Epperò, la remota possibilità di individuare nei sindaci una responsabilità penale in concorso con gli amministratori si scontra con l'effettiva assenza di elementi che abbiano indotto il pubblico ministero a iscrivere i componenti del collegio sindacale fra gli indagati, prima, e ad esercitare nei loro confronti l'azione penale, poi.

Ed è proprio questo status negativo di non indagati e di non imputati, nonostante la puntualità di doveri e obblighi previsti dalla legge fallimentare, che consente ai sindaci di trovarsi nella condizione di chiedere risposte e di individuare responsabilità, soprattutto a seguito di un'azione promossa dal curatore in sede civile per gli stessi fatti per cui il pubblico ministero ha ritenuto di esercitare l'azione penale contro i soli amministratori: l'astrattezza della fattispecie di diritto penale sostanziale deve, così, cedere il passo alla concretezza della norma processuale che attribuisce la legittimazione all'esercizio dell'azione civile nel processo penale non alla persona su cui o contro cui è stato commesso il reato né al soggetto che – in astratto – non è indagabile o imputabile, bensì a colui al quale il reato ha recato concretamente danno.

Del resto, secondo la giurisprudenza di merito, in adesione alle tesi della dottrina (GUERINI), condizione necessaria e sufficiente per integrare l'ipotesi di un danno patrimoniale o non patrimoniale cagionato dal reato a cui legare la costituzione di parte civile è la sussistenza di un nesso eziologico tra il fatto che costituisce reato e il pregiudizio verificatosi nella sfera giuridica del soggetto che aspira ad entrare nel processo penale (TROCKER).

Dunque, l'interpretazione della formula danno immediato e diretto – a differenza di quanto sostenuto dalla difesa degli imputati con la richiesta di esclusione della costituzione dei sindaci – non determina la coincidenza del danno risarcibile con l'offesa inerente al reato e, conseguentemente, del danneggiato con la persona offesa (QUAGLIERINI). In questi termini può essere liquidato il danno che sia conseguenza indiretta della condotta penalmente rilevante, purché sussista un rapporto di causalità tra reato e danno (PENNISI; si veda sul principio della regolarità causale, ex plurimis, Cass. pen., 19 maggio 1999, n. 4852, in Foro it., 1999, I, 2874; Cass. pen., 23 aprile 1998, n. 4186, in Resp. civ. e prev., 1998, 1409; Cass. pen., 22 gennaio 1989, n. 65, in Giust. civ., 1989, 19) rilevante ai fini della legge penale (BARONE; CHILIBERTI; QUAGLIERINI; GIARDA).

Ancora. La conclusione proposta dalla difesa degli amministratori è in antitesi anche con l'orientamento giurisprudenziale che riconosce il carattere strettamente personale alle pretese risarcitorie in materia di danni non patrimoniali (come nel caso di danno morale, Cass. pen., 20 aprile 1994, Stefanelli, in C.E.D. Cass. n. 199701. La giurisprudenza, inoltre, in tema di definizione del danno non patrimoniale, ha affermato che esso è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona. In definitiva, il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento a una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo la Costituzione, Cass. civ., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972; cfr. anche Cass. civ., 15 luglio 2005, n. 15022, in Resp. civ. e prev., 2006, 1, 86; Cass. civ., 19 maggio 2006, n. 11761; Cass. civ., 9 novembre 2006, n. 23918. Dunque, qualora il fatto illecito si configuri come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi non connotati di rilevanza economica inerenti la persona. Per il caso di illecito plurioffensivo, cfr. Cass. civ., 23 aprile 1998, n. 4186, in Resp. civ. e prev., 1998, 1409; Cass. civ., Sez. un., 1 luglio 2002, n. 9556, in Resp. civ. e prev., 2002, 1003. Ne deriva che nell'ambito dell'unica categoria di danno non patrimoniale troveranno spazio la componente soggettiva del pregiudizio derivato dai reati commessi, la “sofferenza” o il patema interiore arrecato alle vittime e la lesione degli altri interessi non patrimoniali meritevoli di tutela, cfr. Cass. civ., 24 aprile 2007, n. 9861. In particolare, il danno non patrimoniale subito iure proprio comprende il danno morale, il cosiddetto pretium doloris in senso stretto, e il danno esistenziale scaturente dalla lesione del rapporto parentale e dalla incidenza che tale lesione assume nella vita futura del congiunto superstite, sul primo punto cfr. Cass. civ., 12 giugno 2006, n. 13546; v. anche Trib. Napoli, 18 novembre 2013; sul secondo, Cass. civ., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, cit.; Cass. civ., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26973; Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26974; Cass. civ., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26975: per una raccolta di annotazioni a queste pronunce si veda Aa.Vv., Il danno non patrimoniale – Guida commentata alle decisioni delle S.U. 11 novembre 2008, n. 26072/3/4/5, Milano, 2009. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d'animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare – ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare – è risarcibile, sul punto Cass. civ., 31 maggio 2003, n. 8827; Cass. civ., 31 maggio 2003, n. 8828).

La definizione di danno non patrimoniale fornita dalla giurisprudenza (Cass. civ., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, cit. Invero, Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati come danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale, risponde ad esigenze descrittive ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno: sarà poi compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione. In particolare, il danno morale ha natura complessa perché ha riguardo sia alla sofferenza soggettiva, ovvero il perturbamento dello stato d'animo, cagionato dal reato in sé considerato, sia alla lesione della dignità della persona. Il giudice perciò non fa bene il suo mestiere se, chiamato a liquidare i due aspetti del danno, ne consideri uno soltanto, ove nell'offesa recata a un soggetto sia implicata anche la dignità della persona, cfr. Cass. civ., 23 gennaio 2014, n. 1361), attraverso una condivisibile lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. (che rappresenta norma di rinvio alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale, come in primo luogo l'art. 185 c.p. Tuttavia, al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, v. Cass. civ., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, cit.), lo identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica purché, nei casi determinati dalla legge, vi sia il presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c., elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia determinata dalla lesione e nel danno che ne consegue (sul concetto di danno-conseguenza, si veda Corte cost., 27 ottobre 1994, n. 372; Cass. civ., Sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576; Cass. pen., Sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581; Cass. civ., Sez. un., 11 gennaio 2008, n. 582; Cass. civ., Sez. un., 11 gennaio 2008, n. 584).

Per tutte queste ragioni, in relazione al danno derivante dai reati fallimentari, dunque, la categoria dei potenziali danneggiati dai reati fallimentari non può ridursi ai creditori (così determinando preclusioni chiaramente in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione), i quali ricevono – come detto – tutela esplicita dal legislatore attesa la riconducibilità in astratto del danno alla lesione del bene giuridico.

E infatti, il comma 2 dell'art. 240 l.fall., riferendosi ai soli creditori come ai soggetti che possono costituirsi in alternativa e/o in aggiunta al curatore, nasce con l'obiettivo di evitare inutili sovrapposizioni di costituzioni di parte civile tra creditori e curatore e tende soltanto ad individuare un soggetto che si occuperà, in nome della massa fallimentare, di richiedere i danni conseguenti a quella tipologia di reati: mentre i creditori sono le effettive persone offese debitamente individuate dal legislatore; il curatore (nonché il commissario giudiziale e il commissario liquidatore), che non può essere considerato persona offesa dal reato in quanto non è il titolare del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, è il soggetto chiamato a rappresentare, in via preferenziale e prioritaria, la massa dei creditori. Allo stesso modo, se il danneggiato dal reato è chiunque abbia patito una diminuzione riconducibile da un punto di vista causa-effetto al fatto di reato, al curatore non potrà essere ricondotta siffatta qualifica: sarà, infatti, titolare della facoltà di costituirsi parte civile nel processo penale per bancarotta, ma sarà escluso dall'esercizio di determinati diritti e facoltà propri della persona offesa in tutto l'arco del procedimento penale.

L'art. 240 l.fall. non può e non deve, quindi, considerarsi ad efficacia preclusiva né selettiva, in quanto è norma che destina poteri a chi, secondo le disposizioni del codice di rito, non ne avrebbe.

Cosicché, se il reato fallimentare dovesse dar luogo a conseguenze dannose per soggetti diversi dai creditori, costoro saranno direttamente legittimati, ex art. 74 c.p.p., a costituirsi parte civile. Del resto, quest'ultima norma è stata da sempre interpretata come riferentesi non soltanto alle persone offese dal reato ma anche a tutti coloro che dal medesimo avessero conseguito un danno (è, infatti, affermazione sostanzialmente pacifica in giurisprudenza che in tema di azione risarcitoria e di costituzione di parte civile, il danneggiato cui spetta il risarcimento, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 185 c.p. e art. 22 c.p.p. del 1930 e 74 c.p.p. vigente, non si identifica necessariamente con il soggetto passivo del reato in senso stretto ma è chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile alla azione od omissione del soggetto attivo del reato, sul punto Cass. pen., 25 giugno 1990, Nassissi, in Arch. n. proc. pen. 1991, 465; negli stessi termini, Cass. pen., 21 marzo 1996, Della Fornace, in C.E.D. Cass. n. 204802 e Cass. pen., 20 ottobre 1997, Mozzati, in Arch. n. proc. pen. 1998, 294).

Il danno da reato fallimentare è di natura extra-contrattuale e, ai sensi dell'art. 185 c.p., può essere sia di natura patrimoniale (a favore della configurabilità del danno patrimoniale a seguito della commissione di reati fallimentari si esprime la dottrina dominante; a titolo esemplificativo si veda LA MONICA) sia di natura non patrimoniale e, dunque, anche morale (nonostante parte della dottrina abbia messo in discussione la configurabilità di questa possibile forma di danno per i reati fallimentari perché lo ha ritenuto ontologicamente incompatibile con la particolare tipologia criminale. Sul punto, PUNZO; negli stessi termini, SCALERA).

Del resto, sebbene siano in concreto di difficile accertamento, non possono che considerarsi danni morali gli stati di sofferenza e di prostrazione sopportati, ad esempio, dal creditore in seguito alla distruzione o all'occultamento dei beni destinati alla garanzia creditoria (ai danni morali che potrebbero essere richiesti in sede di costituzione di parte civile fanno riferimento Trib. Milano, 24 gennaio 1983, Carboni, in Giur. comm., 1984, I, 42 e Trib. Macerata, 31 maggio 1986, Foschi, in Foro it. 1988, II, 653; nella motivazione di quest'ultima decisione si fa espressamente riferimento allo sconforto, all'amarezza, all'incertezza in ordine alla soluzione delle questioni determinate dal dissesto della società).

Diversamente, la natura del danno patrimoniale derivante dai reati fallimentari (da distinguere dal pregiudizio economico derivante al creditore dal fallimento e consistente nella differenza tra attivo e passivo, a meno che non si versi in tutti quei casi in cui il fallimento rappresenta l'evento del reato, per i quali il pregiudizio da insolvenza e il danno da reato possano coincidere) e individuato dal Legislatore nell'art. 240 l.fall. deve considerarsi “supplementare” (così CANTONE) e può essere definito come la differenza tra l'attivo fallimentare e l'attivo che si sarebbe realizzato se non vi fossero verificate quelle attività integranti le varie figure criminose (Così, FABBRI; Cass. pen., 11 novembre 1957, Ferrari, in Foro it., Rep. 1958, voce Bancarotta, n. 94).

Tuttavia, qualora sia contestato un reato che non ha inciso direttamente sul patrimonio del creditore (come accade per le bancarotte c.d. patrimoniali) ma che consiste in una violazione formale riguardante, ad esempio, le scritture contabili (è il caso, ad esempio della bancarotta documentale, fraudolenta o semplice), appare particolarmente problematico – almeno in astratto – individuare un danno che giustifichi la costituzione di parte civile.

In concreto, la dottrina e la giurisprudenza dominanti riconoscono anche a tale tipologia di reati la possibilità di produrre certamente un pregiudizio di natura patrimoniale, attesa la riconosciuta applicabilità – anche alle bancarotte documentali – dell'aggravante e dell'attenuante di cui all'art. 219, comma 1, l.fall. per aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante o non significativa entità. Da quest'orientamento deriva che la omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili cagiona una effettiva diminuzione patrimoniale in conseguenza della impossibilità di ricostruire totalmente o parzialmente la situazione contabile dell'impresa fallita o di esercitare le azioni revocatorie o, comunque, le altre azioni a tutela dei creditori medesimi (Cass. pen., 21 maggio 1985, Mastroberti, in Cass. pen. 1987, 826).

Di talché, potrà dedursi che una bancarotta documentale potrà causare un danno inquadrabile come una forma di lucrum cessans(il curatore, ad esempio, non potrà recuperare un credito per la mancanza dei documenti a sostegno o non potrà eccepire una prescrizione perché non ha i documenti contabili per verificare quando il credito è sorto), collegato soprattutto alla mancata possibilità di recuperare beni alla massa fallimentare.

In dottrina, poi, il danno derivante dai reati c.d. “documentali” viene qualificato come “interesse negativo”, e cioè la maggiore spesa che la massa fallimentare sopporta a causa degli inadempimenti formali (sul punto, si veda ROVELLI; sostanzialmente negli stessi termini Cass. pen., 26 settembre 1980, Borracina, in Foro it., Rep. 1981, voce Bancarotta, n. 14. Con riferimento alla tipologia di danno cagionato dai reati di bancarotte documentali, in passato, in dottrina si era contestata la sua risarcibilità in quanto esso non sarebbe conseguenza diretta ed immediata dell'illecito: così, in dottrina PUNZO, che rileva come un danno di tal genere non potrebbe essere considerato risarcibile in quanto non può considerarsi conseguenza immediata e diretta dell'illecito).

Sulla scorta di tali precisazioni, si riscontrano così numerose ipotesi di potenziali danneggiati in soggetti che non vantano crediti nei confronti della società fallita: ad esempio, sono certamente danneggiati dai reati concorsuali gli azionisti per i comportamenti distrattivi o per le false comunicazioni sociali poste in essere da un amministratore di una società fallita (Trib. Milano 20 settembre 1983, Sindona, in Giur. comm. 1984, I, 42 e Trib. Milano, 24 gennaio 1983, Carboni, in Giur. comm. 1984, I, 42. Il danno che potranno subire gli azionisti sarà, ovviamente, diverso da quello del creditore: il concetto di “danno patrimoniale supplementare”, infatti, non appare certamente riferibile ad altre categorie di danneggiati in quanto per costoro non vi è alcuna interferenza diretta con il danno da insolvenza. E tuttavia, caso per caso spetterà agli stessi dimostrare il pregiudizio patrimoniale e non subito, sul punto CANTONE); al contempo, potrà considerarsi danneggiato, in via patrimoniale e morale, il lavoratore che, pur avendo recuperato il credito da prestazione lavorativa, sia stato costretto ad accettare una modificazione sfavorevole del proprio rapporto, perché – magari – licenziato; in alcuni casi, poi, potrà considerarsi danneggiato persino il fallito, quando, ad esempio, i fatti distrattivi siano imputabili all'institore e abbiano cagionato il fallimento dell'imprenditore (per le ipotesi del lavoratore e del fallito, come danneggiati diversi dal creditore, FABBRI).

Osservazioni

Sebbene sia stata messa in discussione dalla difesa degli imputati (secondo cui prevarrebbe il dato testuale dell'art. 240 l.fall. che non lascerebbe spazio ad altri soggetti al di fuori dei creditori e dei portatori di interessi esponenziali, come il curatore fallimentare), la legittimazione del collegio sindacale all'esercizio dell'azione risarcitoria nel processo penale, mediante la costituzione di parte civile, va ricondotta al combinato disposto degli articoli 185 c.p. e art. 74 c.p.p., per i danni patrimoniali e non patrimoniali (materiali, psicologici e morali) cagionati a discapito dei sindaci dagli amministratori al collegio sindacale in merito a tutte le ipotesi di reato contestate dal pubblico ministero.

E infatti, secondo l'art. 185 c.p., atteso che ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili e ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui, si deve, quindi, affermare che, a fronte della commissione di un reato, il danneggiato vanta due distinti diritti alternativi e/o concorrenti: il diritto ad ottenere la restituzione e/o il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali.

Questa disposizione, che richiama, in sede penale, lo schema dell'art. 2043 c.c., riconosce che il fatto illecito, di natura penale, è fonte di obbligazioni civili risarcibili.

Di talché, emerge inequivoco il principio, codicisticamente statuito, in base al quale, qualsiasi comportamento penalmente rilevante (rectius reato) – e, quindi, anche una contravvenzione – appare idoneo a porsi come paradigma astratto per la causazione di un danno: ogni fatto di reato, se ha cagionato un danno, è fonte di obbligazione restitutoria e/o risarcitoria.

A questa regola, ovviamente non sfuggono i reati c.d. societari e fallimentari che, previsti sia dal codice civile sia da un complesso reticolo di norme speciali, descrivono azioni delittuose alle quali si ricollega la verificazione di danni diretti e indiretti che occorre, di volta in volta, quantificare secondo le regole inquadrate nella metodica giuridica e giudiziaria.

Al contempo, la realizzazione del c.d. danno da reato consente la immediata individuazione del fatto generativo del danno nonché del soggetto leso, cioè di colui che ha la legittimazione a chiedere il ristoro risarcitorio o restitutorio in sede processuale penale attraverso la costituzione di parte civile.

A tal punto, l'art. 74 c.p.p. prevede che l'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all'art. 185 c.p. può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero ai suoi successori universali, nei confronti dell'imputato e del responsabile civile.

La norma costituisce il pendant dell'art. 100 c.p.c. e indica la regola in forza della quale l'azione civile si ricollega esclusivamente al soggetto danneggiato il quale è l'unico che può esercitare, nell'ambito del processo penale, le azioni civili scaturenti dall'applicazione dell'art. 185 c.p. (si veda Cass. pen., Sez. V, 11 aprile 2000, n. 5613, nonché Cass. pen., Sez. VI, 20 ottobre 1997, in CED Cass., n. 208820, secondo cui il danneggiato, cui ai sensi degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. spetta il risarcimento e che si può, ma non si deve necessariamente, identificare col soggetto passivo del reato in senso stretto, è chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione o all'omissione del soggetto attivo del reato).

Tuttavia, la più recente giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ritiene che l'assioma secondo cui il danno debba conseguire direttamente e immediatamente dal reato non trovi fondamento né nell'art. 185 c.p. né nell'art. 2043 c.c. né, tantomeno, nel codice di procedura penale: come anticipato, ciò che sarebbe necessario è che intercorra soltanto un nesso di causalità che non deve tradursi in un rapporto eziologico immediato, dovendosi escludere dal concetto di danno risarcibile soltanto quei danni “occasionalmente” legati al fatto reato (in questo senso, Ass. Lecce 9 febbraio 1987, Cesari, in Giur. it. 1988, II, 404; Ass. Genova 2 febbraio 1983, Azzolini, in Foro it., 1983, II, 129; secondo Cass. pen., 1 giugno 1989, Riefolo, in Riv. pen., 1990, 500, non è invocabile l'art. 1223 c.c. per limitare l'ambito della statuizione risarcitoria ai soli danni prodotti in via immediata e diretta).

Sulla base di questi due pilastri normativi si deve, pertanto, verificare se i reati societari e fallimentari su descritti cagionino un danno e, in caso affermativo, chi sia il soggetto legittimato all'esercizio della tutela dell'interesse leso.

Innanzitutto, il danno patito dal collegio sindacale non proviene dal fallimento in quanto tale, bensì dalle ripetute falsificazioni di documenti fiscali e scritture contabili operate dagli amministratori i quali, in tal modo, hanno cagionato (e, poi, nascosto) il dissesto contestato nei capi d'imputazione; in secondo luogo, più concretamente, la mala gestio ben rappresentata dal pubblico ministero ha consentito al curatore del fallimento di promuovere – in sede civile – un'azione di responsabilità anche nei confronti dei sindaci ai quali si contesta di aver espletato accertamenti poco incisivi, formali e apparenti, nonostante emerga ictu oculi che le falsificazioni perpetrate dagli amministratori sono, in primis,servite a fuorviare proprio l'operato del collegio sindacale, inquinando irrimediabilmente quei doveri contenuti nell'art. 2407 c.c. e impedendo quella vigilanza necessaria a verificare le gravi omissioni rilevate solo successivamente (non si versa, quindi, in ipotesi di specifiche inadempienze o di macroscopiche violazioni, come richiesto dalla costante giurisprudenza di legittimità, ex plurimis Cass. civ., Sez. I, 11 novembre 2010, n. 22911; né si riscontra una situazione di responsabilità solidale ex art. 2407, comma 2, c.c., visto che le perdite patrimoniali non sono direttamente imputabili al collegio sindacale come richiesto da una recente pronuncia della Cassazione, Cass. civ., Sez. I, 14 ottobre 2013, n. 23233).

E infatti, al di là della palese infondatezza della citata azione di responsabilità (non riscontrandosi quel doveroso nesso di causalità tra le violazioni addebitate e il danno accertato), occorre evidenziare come proprio quest'azione civile contro i sindaci rappresenti prova evidente della concreta dannosità delle condotte tenute dagli amministratori, peraltro debitamente e formalmente denunciate allorquando i componenti del collegio sindacale scoprono le difformità fra quanto dichiarato e poi trasmesso loro dagli amministratori e quanto effettivamente onorato nei confronti dell'Erario.

Di talché, la mistificante gestione societaria da parte degli amministratori ha volutamente impedito la verifica da parte dei sindaci, prima, e fuorviato l'analisi del curatore fallimentare, poi, con una diretta e immediata ricaduta sui primi nonostante fosse evidente che la reiterata e sistematica falsificazione dei dati contabili, di fatto, è servita – prima ancora che ad aggirare la normativa fallimentare e la buona fede dei creditori – ad ingannare il collegio sindacale e a superare il suo vaglio di regolarità contributiva e contabile.

Si tratta, dunque, di un'azione civile intimamente connessa e consequenziale alle manomissioni operate che – certamente – prescinde dalla fondatezza di una responsabilità, autonoma e/o concorrente, dei sindaci ex art. 2407 c.c.

Pur tuttavia, l'intero collegio sindacale viene indebitamente travolto in via presuntiva da questo giudizio dinanzi al tribunale civile solo ed unicamente a causa delle condotte tenute dagli imputati, rappresentate dal curatore nell'atto di citazione e, oggi, contestate dal pubblico ministero nei capi d'imputazione.

Del resto, a seguito della doverosa denuncia sporta dai sindaci dopo la scoperta delle falsificazioni avallate dal C.d.A. (rilevabili solo mediante specifico atto d'imperio disposto dall'autorità per accedere alla documentazione originale conservata presso gli istituti di credito, l'ente esattore e l'ente previdenziale), il pubblico ministero correttamente ha, dapprima, iscritto i medesimi amministratori nel registro degli indagati per i reati di cui agli artt. 2621 c.c. e 477 c.p. e, successivamente, chiesto l'archiviazione per “ne bis in idem” sostanziale con contestuale restituzione degli atti al proprio ufficio proprio in ragione della concomitante sussistenza di altro procedimento penale contro i medesimi imputati, oggi già sottoposti al vaglio dibattimentale per gli stessi fatti denunciati dai sindaci.

E non va dimenticato che il pubblico ministero, certo della palese estraneità del collegio sindacale in ordine ai suindicati fatti di reato, ha escluso finanche una formale iscrizione dei suoi componenti nel registro degli indagati: l'univoca contestazione dei reati fallimentari ai soli amministratori e la specificità delle loro condotte contestate sia nell'atto di citazione sia nei capi di imputazione consentono, dunque, la legittimazione dei sindaci ad intervenire nell'ambito di questo procedimento atteso che il concetto di danno diretto dettato dal codice civile trae linfa e fondamento dai principi generali in tema di causalità dettati dagli artt. 40 e 41 c.p. con particolare riferimento a quelle condotte che hanno contribuito, in via principale o mediata, alla produzione di un danno secondo l'id quod plerumque accidit.

Le singole condotte di false comunicazioni sociali richiamate dal capo d'imputazione – peraltro debitamente denunciate dai sindaci – configurano ipotesi di danno diretto nei confronti del collegio sindacale, sia dal punto di vista patrimoniale (attesa quantomeno la necessità di sostenere e articolare una difesa nel giudizio civile) sia da quello non patrimoniale, in considerazione dell'evidente ricaduta negativa sull'immagine di professionisti da sempre coinvolti nei circuiti delle società di capitale nonché dediti alla libera attività di commercialisti seri e incontaminati i quali, ipso facto, sono titolari del diritto di rivalersi nelle sedi convenute – fra cui lo stesso processo penale celebrato contro gli amministratori – nei confronti dei suindicati imputati, in ragione di tutte le condotte illecite accertate.

E infatti, emerge con chiarezza la configurabilità in concreto non solo del danno patrimoniale, dovuto al potenziale depauperamento del patrimonio personale dei singoli sindaci conseguente sia alla presunta responsabilità per culpa in vigilando contestata – sommariamente, sic! – dal curatore sia alle spese sostenute nel e per il giudizio civile, ma anche di quello non patrimoniale, dovuto all'evidente perdita di chances professionali a seguito della pubblicità negativa derivante dall'indebito coinvolgimento dei sindaci in questa vicenda giudiziaria.

E sul punto, il tribunale, rilevato che sulla base delle prospettazioni delle parti e del limitato materiale a disposizione del collegio, appare possibile ravvisare un danno del collegio sindacale dai reati per cui si procede, quantomeno sotto il profilo della lesione dell'immagine dei componenti del collegio sindacale, ammette la costituzione di parte civile del collegio sindacale della società e dispone procedersi oltre.

Guida all'approfondimento

BARONE, Enti collettivi e processo penale, Milano, 1989, 114;

CANTONE, Il danno nei reati di bancarotta e la legittimazione alla costituzione di parte civile nel procedimento penale per reati fallimentari, Relazione tenuta all'incontro di studi organizzato dal CSM in Roma nei giorni tra il 12 ed il 14 gennaio 2002 sul tema “I reati fallimentari”;

CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, II, Milano, 2006, 200;

FABBRI, L'azione civile nel processo penale, in Foro it., II, 1988, 658 ss.;

GIARDA, Riforma della procedura penale e riforme del processo penale, in Praxis criminalis. Cronache di anni inquieti, Milano, 1994, 83;

GUALTIERI, La tutela di interessi lesi dal reato tra intervento e costituzione di parte civile, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, 114;

GUERINI, Le sanzioni civili, in Giur. sist. dir. pen. Bricola-Zagrebelsky, III, Torino, 1984, 1424;

LA MONICA, I reati fallimentari, Milano, 1999, 629;

PENNISI, Parte Civile, in Enc. Dir., XXXI, Milano, 1981, 986 ss.

PUNZO, Il danno causato dal delitto di bancarotta, in Giust. pen. 1955, II, 96;

QUAGLIERINI, Le parti diverse dall'imputato e l'offeso dal reato, Milano, 2003, 38 s.;

ROVELLI, Reati fallimentari, Milano, 1952, 121;

SCALERA, Costituzione di parte civile e risarcibilità del danno morale nel processo di bancarotta, in Dir. fallim. 1971, II, 540;

TROCKER, Gli interessi diffusi nell'opera della giurisprudenza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1987, 1143.

Fonte: ilpenalista.it

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