Azioni a voto plurimo e maggiorato

Rocco Antonini
02 Maggio 2016

La novella di cui al d.l. 24 giugno 2014, n. 91 (il c.d. “decreto competitività”), ha introdotto importanti modifiche alla disciplina del diritto di voto delle società per azioni prevedendo la possibilità di creare azioni con diritto di voto plurimo o maggiorato. Tale novità, volta a favorire la quotazione delle società, segna un'ulteriore fase del superamento del principio di proporzionalità “one share – one vote" abbandonando definitivamente il principio che precludeva la possibilità di attribuire agli azionisti un potere di concorrere all'assunzione delle decisioni in misura maggiore rispetto all'entità del proprio investimento.
Inquadramento

La novella di cui al d.l. 24 giugno 2014, n. 91 (il cosiddetto “decreto competitività”), conv. in l. 11 agosto 2014, n. 116 ha introdotto importanti modifiche alla disciplina del diritto di voto delle società per azioni.

Anzitutto, occorre osservare il dettato del comma 1 dell'art. 2351 c.c.: la norma stabilisce «che ogni azione attribuisce il diritto di voto», fatta salva la possibilità di prevedere azioni speciali prive del diritto di voto oppure limitato ad alcune materie.

La regola indicata nel comma ora citato subisce due importanti deviazioni in forza della predetta novella, che ha introdotto – tra gli altri – i nuovi artt. 2351, comma 4, c.c. e 127-quinquies, comma 1, primo periodo, T.U.F.

Il primo prevede che, «salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Ciascuna azione a voto plurimo può avere fino ad un massimo di tre voti»; ai sensi del secondo invece «gli statuti possono disporre che sia attribuito voto maggiorato, fino a un massimo di due voti, per ciascuna azione appartenuta al medesimo soggetto per un periodo continuativo non inferiore a ventiquattro mesi a decorrere dalla data di iscrizione nell'elenco previsto dal comma 2».

L'introduzione delle norme in esame, volte a favorire la quotazione delle società, segna un'ulteriore fase del superamento del principio di proporzionalità “one shareone vote (“un'azione – un voto”). In altri termini, pare definitivamente abbandonato il principio ai sensi del quale si riteneva preclusa la possibilità di attribuire agli azionisti un potere di concorrere all'assunzione delle decisioni in misura maggiore rispetto all'entità del proprio investimento (risultato a cui peraltro si poteva già pervenire mediante l'emissione di azioni senza voto e a voto limitato).

Il legislatore, con diverse modalità attuative, consente a tutte le società azionarie (che facciano appello al mercato del capitale di rischio o no), di raggiungere detto risultato.

Da un lato, per le società chiuse, è stato abrogato il divieto sancito dal comma 4 dell'art. 2351 c.c., riconoscendo la possibilità di emettere azioni a voto plurimo; dall'altro, per le società quotate, pur permanendo il divieto in ordine alla emissione di azioni a voto plurimo, si accorda la facoltà di riconoscere agli azionisti, ove ricorra il presupposto della conservazione dell'investimento per almeno ventiquattro mesi, la maggiorazione del voto in assemblea.

Il sistema previgente

Il sistema del Codice Civile del 1942 era caratterizzato dal rispetto del principio di proporzionalità tra il potere del socio e il rischio assunto dal medesimo in forza dell'investimento in titoli azionari. Ad una unità di conferimento corrispondeva una unità di partecipazione che a sua volta corrispondeva ad un voto. In detto contesto, si presentava un sistema di attribuzione del diritto di voto fondato su tre regole fondamentali: (i) “un'azione, un voto”, (ii) “nessun voto senza azioni” e (iii) “nessuna azione senza voto”.

(i) L'emissione di azioni a voto plurimo era espressamente vietata dall'art. 2351, comma 3, c.c., ma il principio “un'azione, un voto” era scalfito – nell'impianto normativo del 1942 – dalla legittimità delle azioni a voto limitato: ai sensi del comma 2 dell'articolo sopra richiamato, infatti, l'atto costitutivo poteva stabilire che le azioni privilegiate nella ripartizione degli utili e nel rimborso del capitale allo scioglimento della società avessero diritto di voto nelle sole deliberazioni dell'assemblea straordinaria. Dette azioni, come anticipato, dovevano necessariamente essere privilegiate e non potevano superare la metà del capitale sociale.

Il principio in parola venne successivamente intaccato, ma per le sole società quotate, dall'introduzione (l. 7 giugno 1974, n. 216), delle azioni di risparmio, azioni totalmente prive del diritto di voto. Un'altra importante attenuazione del principio in parola è avvenuta con la riforma organica delle società di capitali: il legislatore della riforma del 2003, pur mantenendo il divieto di cui sopra, ha concesso la facoltà di introdurre, negli statuti delle società per azioni, delle limitazioni alla correlazione tra azione e voto. Il riferimento è alle azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti e con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative; il limite all'emissione delle azioni ora indicate è rappresentato dalla previsione in forza della quale il valore delle stesse non può essere superiore alla metà del capitale sociale. Giova ricordare come l'introduzione della normativa in esame risponda alla sempre maggiore concorrenza tra gli ordinamenti nel quadro della globalizzazione dei mercati.

(ii) L'inscindibile correlazione tra il voto e l'azione (art. 2351, comma 1, c.c.) impediva la possibilità di attribuire il voto a soggetti privi della titolarità dei diritti di proprietà, di usufrutto o pegno sulle azioni.

(iii) Non era possibile privare del tutto i soci del diritto di voto, poiché, di regola, le azioni erano attribuivano il voto in qualsiasi contesto decisionale dei soci. A quanto indicato faceva eccezione la richiamata fattispecie in cui alle azioni privilegiate – nella ripartizione degli utili e nel rimborso del capitale allo scioglimento della società – fosse attribuito il diritto di voto nelle sole deliberazioni dell'assemblea straordinaria (c.d. voto limitato).

In particolare, da un lato, il legislatore della riforma del 2003 ha consentito di riconoscere il diritto di voto, benché solo su particolari argomenti, anche a soggetti titolari di strumenti finanziari diversi dalle azioni. Dall'altro, ha esteso (art. 2351, comma 2, c.c.) a tutte le società per azioni (quindi non solo a quelle quotate) la facoltà di emettere azioni prive di voto; ha ammesso la possibilità di limitare variamente il voto o di subordinarlo al ricorrere di determinate condizioni, non meramente potestative (art. 2351, comma 2, c.c.); ha previsto la facoltà di costituire categorie speciali di azioni fornite di diritti diversi di natura amministrativa o di natura patrimoniale (art. 2348, comma 2, c.c.); ha consentito, in relazione alla quantità delle azioni possedute da uno stesso soggetto, la possibilità di introdurre limiti massimi al numero dei voti esprimibili o disporne scaglionamenti (art. 2351, comma 3, c.c.).

Il quadro normativo risultante dalla riforma del 2003 presenta dunque un sistema nel quale il diritto di voto poteva essere limitato, subordinato a particolari condizioni oppure soppresso, ma in nessun caso era suscettibile di un incremento; a ben vedere, infatti, il principio “un'azione, un voto” poteva essere soggetto ad alterazioni solo in senso riduttivo.

Le azioni a voto plurimo

Il nuovo comma 4 dell'art. 2351 c.c., concede la facoltà di emettere azioni con diritto di voto plurimo: ciascuna azione può avere un numero di voti maggiore di uno, ma non superiore a tre. Nel silenzio del legislatore sul punto, pare potersi ammettere la previsione di un'attribuzione del voto in misura decimale (ad esempio, azioni con un numero di voti pari a 1,5 o 2,5).

L'emissione di azioni a voto plurimo è consentita alle società non quotate ed è vietata per quelle quotate; detto divieto pare rispondere all'esigenza di evitare la riduzione della contendibilità del controllo societario che si manifesterebbe in seguito all'emissione delle azioni in parola.

A seconda di quanto previsto nello statuto sociale, il voto plurimo (che può riguardare una parte delle azioni di cui è composto il capitale sociale o l'intero numero delle medesime) potrà esercitarsi in qualsiasi adunanza assembleare, limitatamente alle decisioni che debbano adottarsi da parte dei soci su “particolari argomenti” oppure alle decisioni che debbano adottarsi dai soci subordinatamente “al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative”.

All'emissione di azioni a voto plurimo può farsi luogo in fase di costituzione della società o durante la vita della medesima, mediante una modifica dello statuto:

  • nella prima ipotesi non paiono sorgere problemi particolari, poiché tutti gli azionisti esprimono il loro consenso a che alcuni di essi siano titolari di azioni dotate di un maggiore potere di voto rispetto alle altre azioni in circolazione. Ugualmente, non presenta particolari criticità, l'introduzione – nella fase costitutiva della società emittente – di una clausola statutaria che preveda, per una fase successiva, la delega di aumento di capitale da eseguire mediante l'emissione di una categoria speciale di azioni a voto plurimo;
  • nella seconda ipotesi (cioè nel caso in cui una società decida di introdurre la clausola che permette l'emissione di azioni a voto plurimo mediante una modifica dello statuto), invece, (i) la deliberazione in parola è validamente assunta con le maggioranze prescritte per l'assemblea straordinaria di cui agli artt. 2368 e 2369 c.c. e (ii) in capo agli azionisti che non hanno concorso alla deliberazione di modifica statutaria sorge il diritto di recedere dalla società (ex art. 2437, comma 1, lett. g) c.c.).

Non può mancarsi di osservare come il d.l. n. 91 del 2014 abbia modificato, a tutela delle minoranze azionarie, l'art. 212 disp. att. c.c., elevando i quorum deliberativi delle assemblee straordinarie convocate per l'introduzione della clausola statutaria che consenta l'emissione di azioni a voto plurimo: tali deliberazioni, infatti, potranno adottarsi con il voto favorevole, anche in prima convocazione di almeno i 2/3 del capitale rappresentato in assemblea e non, quindi, con la sola maggioranza assoluta del capitale sociale.

In altri termini, le assemblee delle (a) società iscritte nel Registro delle imprese alla data del 31 agosto 2014 potranno deliberare l'emissione di azioni a voto plurimo con le seguenti maggioranze:

  • in prima convocazione, con un quorum costitutivo di oltre la metà del capitale sociale e un quorum deliberativo pari almeno ai 2/3 del capitale rappresentato in assemblea;
  • in seconda convocazione, con un quorum costitutivo pari ad almeno 1/3 del capitale sociale e un quorum deliberativo pari almeno ai 2/3 del capitale rappresentato in assemblea.

Le (b) società iscritte nel Registro delle imprese il 1° settembre 2014 o in una data successiva, potranno assumere la relativa decisione con i quorum prescritti dal Codice Civile (o dallo statuto) per le deliberazioni dell'assemblea straordinaria.

Il nuovo art. 127-sexies, commi 2 e 3, T.U.F., prevede che le azioni a voto plurimo emesse dalla società anteriormente alla negoziazione in un mercato regolamentato mantengano “le loro caratteristiche e diritti”. La previsione in parola risponde alla volontà di consentire al socio fondatore di mantenere la sua posizione di controllo anche dopo la quotazione (così da promuovere quest'ultima). In tali ipotesi si è, infatti, previsto che: (i) lo statuto della società in questione non possa prevedere ulteriori maggiorazioni del diritto di voto a favore di singole categorie di azioni, neanche ai sensi dell'articolo 127-quinquies T.U.F.; (ii) salvo che lo statuto non disponga diversamente, al fine di mantenere inalterato il rapporto tra le varie categorie di azioni, le società che hanno emesso azioni a voto plurimo (oppure quelle risultanti dalla fusione o dalla scissione di tali società) possono emettere azioni a voto plurimo – con le medesime caratteristiche e diritti di quelle già emesse – limitatamente ai casi di aumento di capitale ai sensi dell'art. 2442 c.c. ovvero mediante nuovi conferimenti senza esclusione o limitazione del diritto d'opzione o di fusione o scissione.

Le azioni a voto maggiorato

In tema di società emittenti azioni quotate su un mercato regolamentato:

  • viene introdotta, la possibilità di prevedere, nel proprio statuto, il c.d. voto maggiorato, con un limite massimo di due voti, a favore degli azionisti titolari delle azioni di cui uno stesso azionista sia titolare per un periodo (indicato nello statuto) ininterrotto non inferiore a ventiquattro mesi dall'iscrizione presso un apposito elenco (art. 127-quinquies T.U.F.);
  • è posto l'espresso divieto di emettere azioni a voto plurimo (art. 127-sexies, comma 1, T.U.F.); ma, come sopra richiamato, alle società che abbiano emesso azioni a voto plurimo prima della quotazione è consentito conservare tale categoria azionaria (art. 127-sexies, comma 2, T.U.F.);
  • si estende, superando la normativa previgente, la possibilità di emettere azioni con diritto di voto limitato a una misura massima o con diritto di voto scaglionato, relativamente alla quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto (artt. 2351, comma 3, c.c. e 2325-bis c.c.).

Ai sensi dell'art. 127-quinquies T.U.F., dunque, occorrono tre requisiti affinché maturi la maggiorazione del voto: (i) l'iscrizione nell'apposito elenco, (ii) il possesso continuativo delle azioni e (iii) la durata minima di tale possesso.

Le modalità di attribuzione del voto maggiorato e l'accertamento dei relativi presupposti saranno regolate dallo statuto sociale (art. 127-quinquies, comma 2, T.U.F.).

Il sistema della maggiorazione del voto è dettato dal legislatore al fine di incentivare il mantenimento di investimenti azionari a lungo termine, cosicché risulti favorita la stabilità degli indirizzi di gestione dell'impresa e si diminuisca la volatilità dei corsi azionari.

Le azioni a voto maggiorato, come indicato espressamente dal legislatore all'art. 127-quinquies, comma 5, T.U.F., non costituiscono una categoria di azioni: la maggiorazione del voto, infatti, consiste in una particolare regola di attribuzione del diritto di voto, legata non all'azione in sé, ma alla persona dell'azionista in virtù del tempo per il quale ciascuna azione è appartenuta all'azionista stesso. La disciplina in esame rappresenta dunque un beneficio attribuito all'azionista in ragione della sua protratta permanenza nella compagine sociale (quindi in relazione ad una situazione soggettiva), cui consegue la norma in virtù della quale il voto maggiorato viene meno in caso di cessione a titolo sia oneroso, sia gratuito, delle azioni (art. 127-quinquies, comma 3, T.U.F.). La cessione deve intendersi quale trasferimento della titolarità della partecipazione, pertanto a detta fattispecie devono ricondursi le ipotesi di compravendita, permuta e conferimento in altre società; si ha, invece, una conservazione della maggiorazione nel caso di successione mortis causa, fusione e scissione, salvo che lo statuto non disponga diversamente. Ritenendosi che la perdita del diritto di voto debba equipararsi alla cessione dell'azione, può affermarsi che la costituzione di pegno o usufrutto su azioni dotate di diritto di voto maggiorato non comporti una perdita del beneficio ove l'azionista resti legittimato all'esercizio del voto in virtù di un accordo con il creditore (fatta salva una diversa disciplina statutaria sul punto).

Nel caso in cui la società deliberi un aumento di capitale, occorre distinguere due diverse ipotesi:

  • ove si tratti di un aumento gratuito, il diritto di voto maggiorato si estenderà alle azioni di nuova emissione, salvo che lo statuto non disponga diversamente (art. 127-quinquies, comma 3, T.U.F.);
  • qualora, invece, si abbia un aumento di capitale a pagamento, potrà prevedersi, mediante una clausola statutaria, l'operare di un'estensione (proporzionale) del voto maggiorato alle azioni emesse (art. 127-quinquies, comma 4, T.U.F.).

È inoltre ammissibile che il progetto di fusione o di scissione contenga una previsione in ragione della quale il diritto di voto maggiorato sia attribuito anche alle azioni spettanti in cambio di quelle cui è attribuita la maggiorazione (art. 127-quinquies, comma 4, T.U.F.).

L'art. 127-quinquies, comma 8, T.U.F. stabilisce che la maggiorazione del voto debba computarsi anche ai fini della determinazione di quorum costitutivi e deliberativi che si riferiscono alle quote del capitale sociale: pertanto, quale base di calcolo dei quorum, dovranno conteggiarsi, sia al numeratore, sia al denominatore, tutti i voti esprimibili (compresi quelli che derivano dalla maggiorazione).

Riferimenti

Normativi:

  • art. 2351 c.c.;
  • art. 127-quinquies T.U.F.;
  • art. 127-sexies T.U.F.