Esclusione del socio nella s.r.l.

06 Luglio 2015

L'istituto dell'esclusione del socio rappresenta una delle innovazioni più pregnanti e delle espressioni più significative della rilevanza centrale riconosciuta - o, meglio, statutariamente riconoscibile - alla persona del socio dalla nuova disciplina della società a responsabilità limitata.Rimodellando - e potenziando - un rimedio in precedenza relegato al solo caso di mancato pagamento delle quote sociali, il Legislatore della Riforma ha, infatti, aggiunto alla tradizionale fattispecie legale di esclusione del socio moroso (art. 2466 c.c.), uno spettro potenzialmente indefinito di nuove ipotesi di estromissione forzosa.
Inquadramento

L'istituto dell'esclusione del socio rappresenta una delle innovazioni più pregnanti e delle espressioni più significative della rilevanza centrale riconosciuta – o, meglio,statutariamente riconoscibile - alla persona del socio dalla nuova disciplina della società a responsabilità limitata.

Rimodellando - e potenziando - un rimedio in precedenza relegato al solo caso di mancato pagamento delle quote sociali, il legislatore della Riforma ha, infatti, aggiunto alla tradizionale fattispecie legale di esclusione del socio moroso (art. 2466 c.c.), uno spettro potenzialmente indefinito di nuove ipotesi di estromissione forzosa.

L'art. 2473-bis c.c., consente, ora, all'autonomia privata di attribuire rilievo a qualità personali e/o comportamenti del socio e di valutarne preventivamente l'incidenza sul vincolo partecipativo, tramite la previsione, nell'atto costitutivo, «specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa».

All'autonomia privata la norma rimette pure la regolazione dei profili procedimentali ed effettuali dell'istituto, limitandosi semplicemente a richiamare, per quanto attiene alla liquidazione della quota dell'escluso, le disposizioni dettate in materia di recesso del socio «esclusa la possibilità del rimborso mediante riduzione del capitale sociale».

Il rinvio all'autonomia statutaria

Con l'introduzione dell'art. 2473-bis c.c. il legislatore della Riforma ha innestato nel reticolato normativo disegnato per la nuova s.r.l. un istituto – l'esclusione del socio - in precedenza relegato all'ambito delle società di persone e delle società cooperative.

A differenza, tuttavia, di quanto previsto con riferimento alle società personali, nella s.r.l., l'esclusione del socio viene configurata dal legislatore come una semplice opzione, rimessa all'autonomia privata: non, quindi, uno strumento remediale tipico (e tipizzato), generale (e generalizzato), ma una mera possibilità teorica, necessariamente affidata, per la sua concreta attualizzazione, ad un'apposita previsione statutaria.

V'è sostanziale concordia nel ritenere che una tale previsione possa essere introdotta sia in sede di costituzione che durante societate (Tribunale di Milano 22 dicembre 2014; Tribunale di Milano 24 maggio 2007, in Giur. it., 2008, 1433).

I limiti imposti all'autonomia statutaria

Pur nella indubbia ampiezza del rinvio operato all'autonomia privata, l'art. 2473-bis c.c. pone un duplice limite all'esercizio del potere di autoregolamentazione sociale in materia: l'indicazione specifica delle ipotesi di esclusione e la qualificabilità delle stesse in termini gravità e di giustezza causale.

In evidenza:

Per Trib. Milano 22 dicembre 2014, cit., 5, le clausole di esclusione sono legittime purché le condizioni che legittimano la loro attivazione riflettano una giusta causa e siano predeterminate e tali da consentire la verifica puntuale della loro ricorrenza nel caso concreto.

L'indicazione - espressa - e specifica della giusta causa di estromissione forzosa

Posto al fine di contrastare possibili forme di abuso e di contenere i casi di applicazione arbitraria (non solo nell'interesse del socio ma anche in quello della società e dei creditori sociali), il requisito della specificità ha indotto gli interpreti ad escludere la legittimità di clausole che si limitino a prevedere la possibilità di esclusione senza definirne i presupposti, non potendosi consentire che la causa di esclusione venga delineata soltanto all'atto dell'assunzione della decisione di esclusione da parte dell'organo competente.

Parimenti illegittime vengono considerate le clausole generali di esclusione per “giusta causa” come pure tutte quelle previsioni statutarie che, deducendo in modo assolutamente generico la condotta rilevante ai fini dell'estromissione (anche attraverso il richiamo a concetti indeterminati , a categorie sintetiche e/o a formule generali), lascino, comunque, eccessivo spazio alla discrezionalità dell'organo investito della deliberazione.

Vengono così reputate nulle, ad esempio, le previsioni statutarie che si limitino a fare riferimento alla clausola generale ex art. 2286 c.c., in tema di inadempimento, senza alcuna tipizzazione preventiva dei comportamenti ex ante considerati rilevanti quanto ad area e a gravità ai fini dell'esclusione (Trib. Milano 03 luglio 2014 in Soc., 2014, 1273; Trib. Milano 28 febbraio 2014; Trib. Milano 07 novembre 2013).

Analogamente, sono considerate invalide le clausole contemplanti l'esclusione del socio “inadempiente agli obblighi sociali di correttezza e buona fede” (Trib. Milano 05 febbraio 2009 in Giur. it., 2009, 1964) o “gravemente inadempiente alle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale” o che, “in qualsiasi modo, causi discredito commerciale alla società o leda il rapporto di fiducia con gli altri soci” (Trib. Milano 05 settembre 2014).

Parimenti nulla viene ritenuta la clausola di esclusione genericamente riferita a comportamenti che compromettono il corretto funzionamento della società (Trib. Trento 04 aprile 2013, in Not., 2013, 365) ovvero allo svolgimento di attività atte ad arrecare un pregiudizio alla società (Trib. Treviso 17 giugno 2005, in Soc., 2006, 1273).

Sul punto, va, peraltro, registrato un – pur risalente - precedente contrario del Tribunale di Milano che ha considerato legittima, siccome sufficientemente specifica “con riferimento al risultato”, sia la clausola di esclusione del socio che con la sua condotta renda impossibile il funzionamento dell'assemblea sia quella che ne consenta l'estromissione forzosa in presenza di gravi inadempienze che impediscano il raggiungimento dello scopo sociale o abbiano inciso negativamente sulla situazione della società rendendone meno agevole il perseguimento del fine (Trib. Milano 31 gennaio 2006).

L'orientamento del Tribunale ambrosiano appare, invero, oscillante pure in punto di ammissibilità della clausola che preveda l'esclusione del socio in ipotesi di svolgimento di attività in concorrenza: illegittima per Trib. Milano 05 febbraio 2009 in Giur. it., 2009, 1964, detta clausola è stata giudicata legittima da Trib. Milano, 24 maggio 2007 in Giur.it., 2008, 1433 (nel senso della legittimità della clausola, si esprimono pure Trib. Lucca 11 gennaio 2005 in Vita Not., 2007, 756 e Trib. Modena 12 dicembre 2007).

In stretta coerenza con il requisito in commento si esclude la possibilità di interpretazione analogica e/o estensiva delle fattispecie legittimanti.

Il concetto di «giusta causa»

A fungere, invece, da limite interno rispetto alle specifiche previsioni statutarie, è – come anticipato - il concetto di «giusta causa».

L'esatta focalizzazione di tale concetto rappresenta una delle questioni che più ha interessato – ed occupato - gli interpreti, anche se, come è stato osservato, l'elaborazione teorica sul punto spesso ha finito per sovrapporsi a quella sulla specificità della previsione statutaria. Sul punto, le ricostruzioni divergono.

Una parte degli interpreti ritiene che a qualificare uno – specifico - evento come giusta causa sia il semplice fatto che i soci l'abbiano statutariamente previsto quale ipotesi di estromissione forzosa: secondo tale indirizzo interpretativo, l'indicazione contenuta nei patti sociali funzionerebbe, in buona sostanza, come indice della gravità e giustezza della causa con la conseguenza di inibire al giudice ogni ulteriore valutazione e/o ponderazione della condotta dedotta nella previsione statutaria, dovendosi lo stesso limitare alla verifica della sussumibilità della fattispecie concreta in quella prevista astrattamente nell'atto costitutivo (in tal senso, Trib. Milano 05 febbraio 2009 in Giur. it., 2009, 1964. Spunti in tal senso si rinvengono anche in Cass. 02 febbraio 2015, n. 1796).

Altra parte ritiene, per contro, che la ricorrenza di una “giusta causa” non possa desumersi sic et simpliciter dalla valutazione - soggettiva e discrezionale – che di un certo fatto e/o comportamento i soci abbiano fatto a priori ed ex ante ma che la sua sussistenza debba essere appurata alla stregua di un criterio oggettivo, ponderando in concreto l'incidenza dell'accadimento statutariamente enunciato e valutando la congruità del rimedio rispetto al singolo caso (Cass. 14 febbraio 2000, n. 1602).

Quale che sia la prospettiva di valutazione adottata, pare, in ogni caso, evidente che, per poter integrare il requisito in osservazione, i fatti, i comportamenti e/o le qualità dedotti nelle clausole di esclusione debbano necessariamente attenere al rapporto sociale e/o alle persone dei soci (senza, peraltro, potersi riferire individualmente ad un socio specificamente determinato. In tal senso, Consiglio Nazionale del Notariato, Studio di Impresa, n. 212-2008/I).

Si ritiene, così, che possano costituire - giusta - causa di esclusione, purché individuate in modo specifico e debitamente circoscritte, ipotesi attinenti: all'inadempimento del socio alle obbligazioni sullo stesso gravanti in base alla legge o allo statuto ovvero alla violazione di doveri (e, secondo taluni interpreti, anche all'esercizio abusivo di diritti pure legalmente e/o statutariamente previsti. Sul punto, si veda, peraltro, Trib. Cagliari 23 giugno 2005, inedita, che ha giudicato illegittima una clausola che prevedeva l'esclusione del socio che “abbia instaurato in proprio od in rappresentanza di altre società procedimenti giudiziari o extragiudiziari nei confronti della società, procurando danni alla stessa o ingiustificati vantaggi per sé”); al compimento di gravi irregolarità da parte del socio amministratore (Trib. Bologna 18 dicembre 2012 in Fisco on line, 2013); alla condizione personale del socio (si pensi all'ipotesi di interdizione, inabilitazione, condanne penali, perdita di qualità, condizioni o qualifiche professionali. Sul punto, si veda Trib. Ragusa 21 novembre 2005, in Dir. fall., 2007, II, 159); alla costituzione di vincoli sulla partecipazione sociale.

I profili procedimentali dell'esclusione

Esaurita l'analisi dei presupposti sostanziali dell'esclusione del socio, diviene a questo punto possibile – e corretto – passare alla disamina dei profili procedimentali dell'istituto.

L'art. 2473-bis c.c. non reca alcuna previsione in merito, rimettendo, all'autonomia privata anche la regolazione di tale aspetto: oltre a dover enunciare in modo specifico la – giusta – causa di esclusione, la clausola statutaria dovrà, quindi, farsi carico di disciplinare compiutamente anche le concrete modalità operative dell'estromissione.

All'autonomia statutaria competerà, innanzitutto, decidere se configurare l'esclusione secondo un modello ad operatività automatica oppure facoltativa, stabilendo a monte se il verificarsi dell'evento previsto dalla clausola statutaria sia di per sé idoneo a determinare l'estromissione forzosa (ferma restando la liquidazione della quota) ovvero se tale effetto debba rimanere subordinato ad una ulteriore -e successiva - manifestazione della volontà sociale di avvalersi della clausola .

In difetto di diversa indicazione, si ritiene che le cause di esclusione debbano reputarsi facoltative (in senso contrario, si veda, peraltro, Trib. Milano 05 febbraio 2009, cit.)

Le clausole statutarie ad operatività facoltativa dovranno poi, altresì, stabilire a chi spetti l'esercizio del diritto potestativo allo scioglimento del vincolo sociale, anche se, argomentando dal disposto dell'art. 2479, n. 5 c.c., parte rilevante della dottrina nega che esso possa essere statutariamente attribuito ad amministratori, soci ex art. 2468 c.c., o a terzi trattandosi di “decisioniriguardanti il compimento “di operazioni che comportano … una rilevante modificazione dei diritti dei soci”, da adottarsi inderogabilmente mediante delibera assembleare.

In contrasto con tale opzione ricostruttiva e rivendicando il primato dell'autonomia statutaria in materia, altra parte degli interpreti ritiene che la competenza decisionale in materia possa – e, nel caso di silenzio dello statuto, debba – essere riservata agli amministratori (in analogia con quanto previsto dall'art. 2533 c.c. con riferimento alle società cooperative e dall'art. 2466 c.c. con riferimento alla fattispecie del socio moroso) oppure ai soci, ma senza alcuna riserva di collegialità (in analogia quanto previsto dall'art. 2287 c.c. In tal senso si esprime Trib. Cosenza 21 novembre 2007 in Riv. dir. comm.,2008, II, 41).

In ordine alle modalità di assunzione della decisione, quanti ritengono che la decisione in commento rientri nella competenza dell'assemblea dei soci, riconducono coerentemente il procedimento decisionale al paradigma disegnato dagli artt. 2479 e 2479-bis c.c. (discutendosi poi se il socio escluso debba essere o meno computato nella base votante); quanti ascrivono la decisione alla competenza degli amministratori, ritengono, invece, applicabile alla specie il disposto dell'art. 2475 c.c., quanti ancora assumono a modello di riferimento l'art. 2287 c.c., ritengono che la maggioranza debba calcolarsi per capi e non per quote.

Oltre a farsi preferire per maggior coerenza con lo statuto normativo della s.r.l., l'opzione interpretativa che riserva la decisione sull'esclusione alla competenza inderogabile dell'assemblea presenta l'ulteriore vantaggio di offrire naturale soluzione al problema della preventiva contestazione degli addebiti al socio, stante il flusso informativo strutturalmente garantito dal procedimento assembleare (dall'avviso di convocazione sino alla trascrizione della delibera nel libro delle decisione dei soci).

Si conviene, in ogni caso, sul fatto che la decisione di esclusione debba essere adeguatamente motivata e tempestivamente portata a conoscenza del socio nelle modalità di legge o dell'atto costitutivo.

Quanto, poi, ai rimedi processuali, se vi è assoluta concordia nel ritenere che il diritto del socio alla contestazione della decisione sia statutariamente insopprimibile, le ricostruzioni divergono sul modello remediale concretamente applicabile: quanti ricostruiscono la decisione in termini di delibera assembleare, riconducono, infatti, la tutela del socio all'art. 2479-ter c.c. (in tal senso, Trib. Milano, 28 febbraio 2014 in Soc., 2014, 751 e Trib. Milano 07 novembre 2013 in Giur. it., 2014, 907); quanti, invece, ascrivono la decisione alla competenza degli amministratori, in difetto di regolazione statutaria, modellano lo strumento di reazione del socio sullo specimen disegnato, per le s.p.a., dall' art. 2388 c.c., quanti, infine, attingono alla disciplina delle società di persone e/o delle società cooperative, nel silenzio dello statuto, propendono per l'applicazione analogica degli artt. 2287 c.c. (Trib. Torino, 13 settembre 2011, in Giur. it., 2012, 450 e Trib. Napoli 08 aprile 2013 in Vita Not., 2013, 739) e 2533 c.c.

E', peraltro, pacifico che la controversia possa essere compromessa in arbitrato, anche irrituale: in tal caso, si ritiene che, sino alla costituzione dell'organo arbitrale, la cognizione cautelare in materia di sospensione sia esperibile davanti al giudice ordinario (Trib. Milano 07 novembre 2013 in Giur. It., 2014, 907).

Altrettanto pacifico è che il ricorrente abbia l'onere di enunciare puntualmente i motivi di opposizione, nonostante la società assuma, in sede processuale, soltanto formalmente la veste di parte convenuta, incombendo sulla stessa l'onere di provare i fatti posti a fondamento della deliberazione impugnata (Trib. Milano 4 marzo 2015).

Efficacia della decisione di esclusione

Anche con riferimento al momento da cui la decisione di esclusione prende effetto, le ricostruzioni divergono: v'è, infatti, chi ritiene rilevante il momento della comunicazione al socio; chi considera la fattispecie perfezionata solo per effetto della effettiva corresponsione del rimborso e chi, invece, mediando tra i contrapposti interessi, riconnette l'efficacia dell'esclusione al decorso del termine per contestare la decisione che l'ha disposta (in tal senso, si esprime, in giurisprudenza, Trib. Torino 13 settembre 2011, in Giur. it., 2012, 450).

Liquidazione della quota e rimborso

Tanto la determinazione del valore della quota quanto le modalità di liquidazione sono disciplinate dall'art. 2473-bis c.c. mediante semplice rinvio alle disposizioni dettate dal «precedente articolo» in materia di recesso, «esclusa», tuttavia,«la possibilità del rimborso della partecipazione mediante riduzione del capitale sociale».

Ciò significa, innanzitutto, che, il valore di liquidazione della quota del socio escluso dovrà essere determinato in proporzione al patrimonio, stimato a «valore di mercato».

Pur riconoscendo all'autonomia privata la possibilità di individuare ex ante i criteri attraverso i quali giungere alla determinazione del valore di mercato, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti propendono per la inderogabilità di tale parametro, giudicando, per tale motivo, illegittima, ad esempio, la clausola statutaria che nell'ipotesi di esclusione del socio preveda il rimborso in base al valore contabile del patrimonio sociale secondo l'ultimo bilancio approvato, con esclusione di plusvalenze consolidate dalle società (Trib. Lucca 11 gennaio 2005 in Vita Not., 2007; Trib. Milano 24 maggio 2007, in Giur. It., 2008, 1433).

Non mancano, tuttavia, quanti, in senso contrario, sostengono la derogabilità del criterio legale, anche in senso peggiorativo, alla stregua di una penale statutaria o di una pena privata.

Unanimità di vedute si registra, in ogni caso, sulla illegittimità della clausola che escluda tout court la liquidazione della quota o la imponga al valore nominale.

Parimenti inderogabile, secondo l'opinione prevalente, sarebbe il criterio di determinazione proporzionale del valore della quota del socio uscente, con la conseguenza di rendere irrilevanti, rispetto a tale valutazione, eventuali diritti particolari del socio nonché di escludere il riconoscimento di eventuali premi di maggioranza o sconti di minoranza.

Anche su tali punti, non si riscontrano, peraltro, in dottrina, orientamenti univoci.

Quanto poi all' iter procedimentale, pur in difetto di una indicazione normativa espressa, v'è concordia nel ritenere che competenti a svolgere la valorizzazione della partecipazione siano, in prima istanza, gli amministratori della società.

In caso di disaccordo sul valore di liquidazione, la determinazione di quest'ultimo potrà essere demandata ad un esperto nominato dal Tribunale su istanza della parte più diligente: la natura non contenziosa, ma di volontaria giurisdizione del procedimento previsto per la nomina dell'esperto consente al giudice adito di nominare l'arbitratore alla luce della sola istanza del ricorrente senza per ciò stesso ledere i diritti di difesa (Trib. Lanusei, 25 maggio 2007, inedita).

Nel caso in cui il perito non addivenga ad una stima o la stessa risulti manifestamente iniqua e/o erronea, il valore della partecipazione potrà essere determinato dal giudice, giusta il disposto dell'art. 1349 c.c.

Per quanto concerne, infine, il rimborso, la norma prevede che alla liquidazione della quota del socio uscente si debba addivenire mediante l'utilizzazione di risorse attinte, in prima istanza, all'esterno del patrimonio sociale e cioè, letteralmente, mediante “acquisto” della quota del recedente “da parte degli altri soci proporzionalmente alle loro partecipazioni oppure da parte di un terzo concordemente individuato dai soci medesimi”.

“Qualora ciò non avvenga” - o perché l'ente scelga di non percorrere questa strada opzionale o perché il riallocamento della quota ai soci o ai terzi fallisca – “il rimborso è effettuato utilizzando riserve disponibili”.

Non v'è concordia di vedute su cosa accada laddove anche tale opzione non dovesse risultare percorribile: secondo parte della dottrina, la società non potrebbe che entrare in stato di liquidazione; secondo altra parte, invece, da tale impossibilità discenderebbe semplicemente l'inefficacia (o la revoca implicita) della decisione di esclusione.

Riferimenti

Normativi

  • Art. 2473 c.c.
  • Art. 2473-bis c.c.

Prassi

  • Consiglio Nazionale del Notariato, Studio di Impresa, n. 212-2008/I

Giurisprudenza

  • Trib. Milano 22 dicembre 2014
  • Trib. Trento 4 aprile 2013
  • Trib. Torino 13 settembre 2011

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