Rappresentanza nelle società di personeFonte: Cod. Civ. Articolo 2266
22 Agosto 2017
Inquadramento
L'istituto della rappresentanza si esplica attraverso quegli atti “di relazione” che mettono la società a contatto con l'esterno, con soggetti terzi rispetto alla compagine sociale. In tal senso, il potere di rappresentare la società si differenzia dal potere di gestirla e amministrarla che comprende, invece, quell'insieme di facoltà che hanno rilevanza all'interno della società per l'assunzione di decisioni e il compimento di attività necessarie alla sua gestione.
Le attività compiute dal/i rappresentante/i della società sono da imputare direttamente a quest'ultima, nei confronti della quale si riverberano gli effetti di tali atti. Vige, infatti, in materia una presunzione legale di corrispondenza tra la volontà manifestata dal rappresentante dell'ente nell'interesse di quest'ultimo e la volontà dell'ente medesimo. In tal senso, affinché il rapporto rappresentativo tra la società e il suo rappresentante possa ritenersi giuridicamente sussistente, è sufficiente che il secondo spenda il nome della società (contemplatio domini) manifestando la volontà nell'interesse dell'ente in modo tale che, per le circostanze, le caratteristiche e l'oggetto dell'attività compiuta, i terzi possano riconoscere che la volontà espressa è inerente all'attività dell'ente e, dunque, è quella dell'ente, in virtù del rapporto di rappresentanza (Cass.civ. Sez. III, sent. n. 21520 del 12.11.2004, di cui infra).
Non sono, dunque, necessarie particolari forme sacramentali “ad substantiam” per ricondurre la manifestazione di volontà espressa dal rappresentante a quella della società, mentre rilevano gli aspetti “in fatto” appena evidenziati. Nelle società di persone, l'istituto della rappresentanza è regolata in particolare, per le società semplici, dall'art. 2266 c.c. e per le s.n.c. dall'art. 2298 c.c., mentre per le s.a.s., gli articoli 2315 e 2318 c.c. rinviano alle norme appena citate. Dall'esame delle disposizioni anzidette, emergono aspetti normativi comuni a tutte le società di persone per quanto concerne il tema della rappresentanza: quanto alla titolarità della medesima, essa spetta ai soci amministratori; quanto all'estensione delle facoltà e dei poteri connessi alla titolarità della rappresentanza, essa coincide con l'oggetto sociale, e non può andare oltre l'ambito del medesimo.
Analizziamo dunque più nello specifico le caratteristiche che contraddistinguono la rappresentanza organica nelle società di persone. L'art. 2266 c.c. chiarisce che il potere di rappresentanza si esplica sia su di un piano sostanziale che processuale, infatti:
Al secondo comma dell'art. 2266 c.c., è previsto che, di regola, la rappresentanza spetti ad ogni socio amministratore, e che essa possa estendersi al compimento di tutte quelle attività (acquisizione di diritti/assunzione di obbligazioni, ecc..) che rientrano nell'oggetto sociale: tale ambito costituisce dunque il limite della legittimità dell'operato del rappresentante. Quanto alla titolarità del potere di rappresentanza, in senso del tutto conforme alla previsione dell'art. 2257 c.c., esso spetta dunque, di regola, agli stessi soggetti ai quali compete, di regola, l'amministrazione della società semplice: a tutti i soci, in via disgiuntiva tra loro.
L'art. 2266 c.c. consente però di derogare alla regola appena enunciata attraverso l'inserimento di una specifica disposizione scritta nel contratto sociale, con la quale si stabilisca che il potere di rappresentanza non è attribuito a tutti i soci amministratori, ma soltanto ad alcuni, o anche ad uno solo di essi, oppure con la quale si preveda che il potere di rappresentanza è attribuito a tutti o ad alcuni soci in via congiuntiva tra loro. Potrebbe, dunque, aversi il caso di una società di persone nel cui contratto sociale è stato, ad esempio, previsto un sistema di amministrazione disgiuntivo in concomitanza ad un sistema di rappresentanza congiuntivo, o viceversa.
Ulteriori casi di deroga alla regola (presuntiva) della rappresentanza attribuita ex lege a tutti i soci amministratori in via disgiuntiva tra loro per quanto concerne tutti gli atti rientranti nell'oggetto sociale, potrebbero essere:
Pare inoltre lecito domandarsi se la deroga all'art. 2266 c.c. possa concernere anche la titolarità del potere di rappresentanza e, dunque, se sia possibile inserire nel contratto sociale una previsione che attribuisca tale facoltà a terzi soggetti estranei alla compagine sociale e, come tali, non soci e non amministratori. In dottrina sussistono tesi sia positive (F. Galgano, “Le società in genere, le società di persone”, MIlano, 2007, 307) che negative (G. Cottino, “Le società in genere. Le società di persone. Le società tra professionisti”, Torino, 2014, cap. 3. A) in riferimento a tale possibilità, a seconda dell'interpretazione più o meno letterale data all'art. 2266 c.c. nonché delle ulteriori considerazioni, e relative implicazioni, che riguardano la responsabilità illimitata dei soci amministratori della società di persone, non estensibile al terzo estraneo che dovesse essere nominato rappresentante della società. In giurisprudenza, la Corte di Cassazione si è pronunciata favorevolmente circa la possibilità di derogare all'art. 2266 c.c. anche attribuendo, nell'atto costitutivo, la rappresentanza della società ad un terzo estraneo. Anche la dottrina prima citata, contraria all'ipotesi di un terzo extraneus quale rappresentante della società, si mostra invece favorevole all'ipotesi di un mandato che fosse eventualmente conferito da un socio amministratore, munito del potere di rappresentanza, ad un terzo estraneo per attribuirgli la rappresentanza della società allo scopo del compimento di uno o più atti/operazioni determinati, nel caso in cui ciò fosse utile per la società e non espressamente vietato dall'atto costitutivo.
Infine, l'ultimo comma della norma in commento opera un rinvio all'art. 1396 c.c., dettato in materia di procura, per quanto concerne la disciplina della modificazione o dell'estinzione del potere di rappresentanza. Il potere di rappresentanza deve essere esercitato nell'ambito dell'oggetto sociale: è dunque vietato al rappresentante il compimento di atti che esulino da tale ambito. In caso di atto del rappresentante che si muova al di fuori dell'oggetto sociale dell'ente, esso deve essere ritenuto inefficace verso i terzi e, come tale, non imputabile alla società. Soltanto qualora il terzo, coinvolto nell'atto de quo, fornisca la prova della propria completa buona fede, cioè dell'ignoranza incolpevole circa l'esorbitare dell'atto dall'oggetto sociale, avendo egli fatto legittimo affidamento sui poteri di rappresentanza così come certificati e obiettivamente manifestatisi, allora tale atto, seppur compiuto dal rappresentante in violazione dell'art. 2266 c.c., dovrebbe essere ritenuto efficace nei confronti del terzo.
Quanto alla rappresentanza sul piano processuale, la società sta in giudizio, sia per quanto concerne la legittimazione passiva che attiva, nella persona del/dei proprio/i rappresentante/i. E' il caso di evidenziare che, qualora nel contratto sociale non si sia optato per una forma di rappresentanza congiuntiva, è sufficiente la presenza in giudizio di un solo rappresentante dell'ente, se sono più d'uno, affinchè la società sia ritenuta ritualmente costituita con ogni effetto di legge. Il rappresentante della società è facoltizzato a delegare la legittimazione a stare/resistere in giudizio in nome e per conto della società ad un terzo soggetto idoneo, qualora tale facoltà non sia limitata, o vietata, dal contratto sociale. L'ultimo comma dell'art. 2266 c.c., rinviando all'art. 1396 per quanto riguarda gli aspetti della modificazione/estinzione dei poteri di rappresentanza, richiama la disciplina generale per la modificazione ed estinzione della procura, stabilendo dunqueche tali eventimodificativi della rappresentanza, per essere efficaci, debbano essere portati a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Qualora ciò non avvenga, tali eventi non saranno opponibili ai terzi, tranne nel caso (comprovato) in cui questi ultimi fossero stati in ogni caso a conoscenza dell'avvenuta modificazione/estinzione del potere rappresentativo in capo alla controparte al momento della contrattazione.
L'art. 2267 c.c. prevede che la regola della responsabilità personale e illimitata di tutti i soci della società semplice per le obbligazioni sociali possa essere derogata attraverso un patto inserito nell'atto costitutivo e nello statuto che, ai sensi del comma 2, deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, per essere efficace nei loro confronti e dunque agli stessi opponibile. Ebbene, al riguardo, il Tribunale di Perugia, con la sentenza n. 926 dell'11 giugno 2019, ha chiarito che, affinchè il patto limitativo della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali di uno o più soci sia opponibile ai terzi che vengono in contatto con la società, non è sufficiente che esso sia inserito nell'atto costitutivo/statuto sociale, se tali documenti rimangono scritture private, nemmeno autenticate nella firma, unicamente depositati presso l'Agenzia delle Entrate, in mancanza di iscrizione della società semplice nel Registro delle Imprese presso la Camera di Commercio, in mancanza dunque della necessaria pubblicità affinchè tale patto, che deroga la disciplina legale in senso sfavorevole ai terzi, sia portato a conoscenza degli stessi con mezzi idonei, non potendosi ritenere “mezzo idoneo” la sola registrazione della società semplice presso l'Agenzia delle Entrate. Nel Capo III del Titolo V del c.c., dedicato alla società in nome collettivo, è stato inserito un apposito articolo, il 2298 c.c., rubricato “Rappresentanza della società”. Nonostante, dunque, fosse già stata inserita nel Codice Civile, nel precedente Capo dedicato alla società semplice, una norma con il medesimo oggetto (l'art. 2266) e nonostante la previsione di una norma (l'art. 2293 c.c.) che, per la disciplina delle s.n.c., rinvia alla disciplina dettata per la società semplice ove non diversamente previsto, il legislatore ha ritenuto in ogni caso di inserire anche per le s.n.c. un'apposita previsione riguardante la rappresentanza della società. L'art. 2298 c.c. chiarisce subito che la rappresentanza della s.n.c. spetta all'amministratore della società (id est: agli amministratori, se più d'uno) e, pertanto, al socio (o ai soci) che, nell'atto costitutivo (cfr. art. 2295 n.3 c.c.), sono stati designati quali amministratori con rappresentanza. In base al combinato disposto degli articoli 2295 n. 3 e 2298 c.c., è dunque possibile distinguere la figura del socio amministratore con rappresentanza da quello senza rappresentanza.
L'art. 2298 c.c. si esprime molto chiaramente per quanto riguarda il contenuto del potere di rappresentanza della s.n.c.: esso coincide con il compimento di tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale, salve le limitazioni che dovessero risultare per iscritto nell'atto costitutivo o all'interno di un'eventuale procura conferita ad hoc al rappresentante. La disposizione si mostra dunque speculare, sul punto, a quanto sancito per le società semplici (art. 2266 c.c., comma 2). La regola è pertanto quella della presunzione che, nelle facoltà del rappresentante, rientri il compimento di ogni atto racchiuso nell'ambito dell'oggetto sociale; l'eventuale deroga e, dunque, la limitazione in senso oggettivo del potere di rappresentanza, deve infatti risultare per iscritto nell'atto costitutivo o in una procura ad hoc per essere considerata valida e sussistente (forma scritta ad substantiam). A tal proposito, di recente, la Corte di Cassazione, sez. I, sentenza del 12/12/2016, n. 25409, ha avuto modo di precisare che: “… dovendosi ribadire quanto questa Corte ha già avuto in passato occasione di chiarire, ossia che ai fini della valutazione della pertinenza di un atto degli amministratori di una società all'oggetto sociale, il criterio da seguire è quello della strumentalità, diretta o indiretta, dell'atto rispetto all'oggetto sociale stesso, inteso come la specifica attività economica (di produzione o scambio di beni o servizi) concordata dai soci nell'atto costitutivo in vista del perseguimento dello scopo di lucro proprio dell'ente, mentre non è sufficiente il criterio della astratta previsione, nello statuto, del tipo di atto posto in essere: da un lato, infatti, la elencazione statutaria di atti tipici non potrebbe mai essere completa, data la serie infinita di atti, di vario tipo, che possono essere funzionali all'esercizio di una determinata attività; dall'altro, anche la espressa previsione statutaria di un atto tipico non assicura che lo stesso sia, in concreto, rivolto allo svolgimento di quella attività (Cass. 16416/2002 e 26011/2007, che fanno riferimento alle società di capitali, ma il principio è estensibile alle società di persone)”.
Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza n. 21520 del 12 novembre 2004 (seguita da Cass. Civile, Sez. Lavoro, Sentenza n. 23131 del 16 novembre 2010 e da Cass. Civile, Sez. I, Sentenza n. 7510 del 31 marzo 2011) ha affermato che nelle società in nome collettivo, in base al combinato disposto degli art. 2293 e 2266 c.c. la rappresentanza dell'ente spetta, disgiuntamente, a ciascun socio e, salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, si estende a tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale, in quanto la legge presume che la volontà dichiarata dal rappresentante nell'interesse della società corrisponda alla volontà sociale. A tal fine non è necessario che, per manifestare il rapporto rappresentativo, il socio amministratore usi formule sacramentali, ma è sufficiente che dalle modalità e dalle circostanze in cui ha svolto l'attività negoziale e dalla struttura e dall'oggetto del negozio, i terzi possano riconoscerne l'inerenza all'impresa sociale, sì da poter presumere che l'attività è espletata nella qualità di socio amministratore. “Per il combinato disposto degli artt. 2293 e 2266, primo comma, cod. civ., la società in nome collettivo acquista diritti ed assume obbligazioni nei confronti dei terzi per mezzo dei soci che, nell'ambito del mandato - rapporto che si instaura tra il socio amministratore e la società di persone (artt. 2293 e 2260 cod. civ.) - ne hanno la rappresentanza. Tale potere, normalmente incluso in quello di amministrare - salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo - si estende a tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale (art. 2266, secondo comma, cod. civ.), in quanto la legge presume che la volontà dichiarata dal rappresentante nell'interesse della società corrisponda alla volontà sociale. Quanto poi alla spendita del nome della rappresentata (c.d. contemplatio domini) affinché l'attività negoziale compiuta nel suo interesse possa esser immediatamente efficace nella sua sfera giuridica ed il negozio compiuto le sia direttamente imputabile, per manifestare il rapporto rappresentativo non è necessario che il socio amministratore usi formule sacramentali, ma è sufficiente che dalle modalità e dalle circostanze in cui ha svolto l'attività negoziale, e dalla struttura e dall'oggetto del negozio, i terzi possano riconoscerne l'inerenza all'impresa sociale, sì da poter presumere, secondo i criteri correnti nella vita degli affari, che l'attività è espletata nella qualità di socio amministratore”. Qualora, però, lo specifico negozio giuridico che la s.n.c., tramite il proprio rappresentante, intende concludere con il terzo esiga la forma scritta ad probationem come, ad esempio, un contratto di compravendita di beni immobili, allora la contemplatio domini (ovvero la spendita del nome della rappresentata, la s.n.c.) “pur non richiedendo l'uso formale di formule sacramentali, deve risultare dallo stesso documento negoziale, restando irrilevante la conoscenza o l'affidamento creato nel terzo contraente circa l'esistenza del rapporto sociale interno e dei poteri di rappresentanza reciproca che essa comporta" così come precisato, tra le altre, da ultimo, nella sentenza n. 29689 del 14 novembre 2019 dalla Sez. IV civile della Suprema Corte. Risulta dunque importante osservare che, affinché le eventuali deroghe al potere rappresentativo siano considerate efficaci nei confronti dei terzi che si trovano ad interagire con la società attraverso i suoi rappresentanti e, quindi, affinché tali limitazioni di poteri siano validamente opponibili ai terzi, esse devono essere iscritte nel Registro delle Imprese (pubblicità dichiarativa). In mancanza di tale adempimento, la norma in commento specifica che le limitazioni della rappresentanza previste nell'atto costitutivo, o all'interno di una procura, potranno essere opposte ai terzi soltanto qualora si riesca a raggiungere la prova circa il fatto che essi erano a conoscenza – anche in mancanza della pubblicità dichiarativa – della sussistenza di tali limitazioni. L'onere della prova incombe necessariamente sulla parte (in genere la società) che si vuole avvalere della limitazione del potere rappresentativo, non coincidente con l'ambito dell'oggetto sociale, per evitare che le attività compiute dal rappresentante al di fuori del confine consentitogli possano spiegare ugualmente effetti nei propri confronti. Parimenti, le modificazioni dell'atto costitutivo che incidano sui poteri rappresentativi soggiacciono a determinate forme di pubblicità dichiarativa (art. 2300 c.c.).
Il parametro dell' ”oggetto sociale”, così come consacrato nell'atto costitutivo, è dunque fondamentale per comprendere il confine di legittimità degli atti compiuti dal rappresentante, poiché, come si è detto, l'atto estraneo all'oggetto sociale sarà dunque inefficace nei confronti della società, in quanto compiuto da un rappresentante senza poteri (ex art. 1398 c.c.) (P. Cendon, “Commentario al Codice Civile”, 206, Milano, 2010, 879). Risulta dunque importante identificare i criteri in base ai quali poter ritenere che un atto compiuto dal rappresentante della società rientri o meno nell'ambito del suo oggetto sociale. Sia in dottrina che in giurisprudenza si ritiene prevalentemente che l'estraneità di un atto compiuto dal rappresentante rispetto all'oggetto sociale debba essere valutata in concreto, sulla base di ogni circostanza inerente al caso specifico, con particolare riferimento alla finalità effettiva dell'atto, e l'analisi non possa limitarsi alla verifica della conformità astratta dell'atto all'oggetto sociale in quanto sussumibile o no nell'elenco delle attività menzionate nell'atto costitutivo: l'interpretazione, in questo caso, non può limitarsi ad un livello letterale ma deve innalzarsi ad un livello ulteriore che consenta di valutare l'atto nella sua globalità, al di là della sua nomenclatura, tenendo conto della causa e delle finalità sottese, alla luce dell'oggetto sociale così come delineato nel contratto costitutivo dell'ente. In tal senso si esprime la Corte di Cassazione (con particolare riferimento a casi in cui l'atto del rappresentante consisteva nel rilascio di fideiussioni per conto della società di persone).
Da un punto di vista soggettivo, in riferimento alla titolarità del potere di rappresentanza, l'art. 2298 c.c., per come formulato (“L'amministratore che ha la rappresentanza…”) consente anche nelle s.n.c. di dissociare il potere di amministrazione da quello di rappresentanza, attraverso l'inserimento di un'apposita previsione nell'atto costitutivo, con la quale si attribuisca solo ad uno o alcuni soci amministratori la rappresentanza dell'ente. In dottrina, ci si interroga sulla correlazione tra potere di amministrazione e potere di rappresentanza, nel caso in cui nell'atto costitutivo i due poteri siano stati, appunto, dissociati. In particolare, si riflette circa la rilevanza da attribuirsi all'attività deliberativa interna rispetto al valido esercizio del potere di rappresentanza e, quindi, circa le conseguenze che una deliberazione invalida può avere sull'esercizio del potere di rappresentanza e sui connessi effetti nei confronti dei terzi coinvolti dagli atti del rappresentante. Autorevole dottrina (F. Galgano, Trattato di diritto civile e commerciale “Le società in genere, le società di persone” III ed., Milano, 2007, 383) ritiene che l'esercizio del potere di rappresentanza sia subordinato al previo esercizio del potere di deliberazione, anche qualora tali poteri siano soggettivamente dissociati per volere dell'atto costitutivo, cioè appunto quando non tutti i soci amministratori sono anche rappresentanti della società. Perciò, l'atto compiuto dal rappresentante in esecuzione di una delibera invalida, o in mancanza di previa deliberazione, sarebbe invalido. Tale invalidità, tuttavia, è opponibile soltanto al terzo di mala fede, cui sia noto il vizio dell'atto. Dalle tesi che precedono emerge dunque il principio generale secondo il quale il valido esercizio del potere di rappresentanza è subordinato al previo conforme esercizio del potere di deliberazione: principio da ritenersi vigente anche per le società in nome collettivo (in tal senso: G. Minervini, “Gli amministratori di società per azioni”, Milano, 1956, 124 – in nota (53), 384 F. Galgano sopra cit.).
Infine da sottolineare, sempre in tema di rappresentanza, che, ai sensi dell'art. 2297 c.c., qualora la s.n.c. non sia registrata, vige la presunzione che ogni socio che agisce all'esterno in nome e per conto della società abbia la rappresentanza, sia sostanziale che processuale, della medesima. Pertanto, ogni patto limitativo, sia in senso soggettivo che oggettivo, della facoltà di rappresentare la s.n.c. non registrata non è opponibile ai terzi, ad eccezione del caso in cui la società fornisca la prova della conoscenza, in capo al terzo, di tale patto limitativo. Con riferimento alle s.n.c. irregolari, risulta di interesse la pronuncia n. 9263 del 3 aprile 2019 della S.C., Sez. lavoro, con la quale viene affermato che nella società in nome collettivo irregolare, ciascuno dei soci, in quanto munito del potere di amministrazione (art. 2297 c.c.) deve ritenersi titolare della rappresentanza sostanziale e processuale della società medesima; pertanto, il socio che venga citato oltre che in proprio, espressamente in tale qualità, deve ritenersi convenuto in giudizio anche quale rappresentante della collettiva irregolare, con la conseguenza che il rapporto processuale si instaura nei confronti di quest'ultima, la quale assume la veste di parte in giudizio. L'ultimo comma dell'art. 2298 c.c. è stato abrogato dall'art. 33 comma I della L. 24 novembre 2000, n. 340: i soci amministratori ai quali è stato conferito anche il potere di rappresentanza, non devono quindi più depositare le proprie firme autografe presso l'Ufficio del Registro delle Imprese entro 15 giorni dalla notizia della nomina. A differenza dei Capi II e III del Titolo V del c.c., dedicati alla s.s. e alla s.n.c., nel Capo IV non è stata inserita alcuna norma disciplinante espressamente la rappresentanza nelle s.a.s. E' stata inserita una norma di rinvio, l'art. 2315 c.c., che stabilisce l'applicazione alle s.a.s. delle disposizioni dettate per le s.n.c., in quanto compatibili con le norme specificatamente elaborate per le s.a.s. Per quanto riguarda il tema della rappresentanza delle s.a.s., quindi, le caratteristiche di tale potere sono rinvenibili alla luce delle norme già esaminate per le s.n.c. di concerto con le disposizioni dettate nel Capo IV per le s.a.s. In base, dunque, al combinato disposto degli articoli 2315, 2298, 2318 c.c., emerge che nelle s.a.s. le funzioni di rappresentanza della società possono essere conferite soltanto ai soci accomandatari amministratori. Anche nelle s.a.s, quindi, sulla base del richiamo all'art. 2257 effettuato dall'art. 2293 c.c., a sua volta richiamato dall'art. 2315, si presume che la rappresentanza competa a ciascun socio accomandatario amministratore in via disgiuntiva.
Eventuali deroghe a tale regola, operante presuntivamente, possono/devono essere previste per iscritto nell'atto costitutivo delle s.a.s., così come già evidenziato per le s.s. e le s.n.c.: nel contratto sociale si potrà in tal modo conferire la titolarità del potere di rappresentanza della società soltanto ad uno o ad alcuni soci accomandatari amministratori, anche in via congiuntiva tra loro. Sarà inoltre possibile operare le medesime restrizioni in senso oggettivo della facoltà di rappresentare la società così come già esaminato per le s.s. e le s.n.c.
Pare interessante svolgere un'osservazione in merito ai rapporti tra soci accomandanti e soci accomandatari amministratori con rappresentanza qualora ai primi (o ad uno di essi) sia stato conferito nell'atto costitutivo il potere di autorizzare uno o più atti determinati al cui compimento sono preposti i secondi. Infatti, i soci accomandanti non possono essere titolari di poteri di amministrazione o rappresentanza della s.a.s., ma l'atto costitutivo può conferire loro determinate facoltà “aggiuntive” rispetto a quelle inerenti la qualifica di socio, come ad esempio quella appena descritta (cfr. art. 2320, comma 2, c.c.). Ebbene, nel caso in cui un socio accomandatario, che sia anche amministratore e rappresentante della società, concluda, ad esempio, un contratto con un terzo facendo uso dei propri poteri rappresentativi, ma senza aver prima richiesto e/o ottenuto l'autorizzazione del socio accomandante a ciò legittimato sulla base del contratto sociale, qual è la sorte del contratto in questione?
La giurisprudenza ha chiarito che, all'esterno, il potere rappresentativo è sempre validamente gestito esclusivamente dai soci accomandatari a ciò preposti e che, pertanto, eventuali facoltà attribuite ai soci accomandanti in riferimento alla fase prodromica all'esercizio del potere rappresentativo de quo, hanno una valenza solo nella sfera interna della società: l'autorizzazione del socio accomandante è quindi atto esclusivamente interno.
Pertanto, l'esercizio del potere rappresentativo in violazione di quanto previsto dal comma 2 dell'art. 2320 c.c. non può incidere sulla validità dell'atto concluso dal rappresentante con il terzo. Una conseguenza della mancanza, in capo ai soci accomandatari, del potere rappresentativo della società verso l'esterno è costituita dalla possibilità, per il socio accomandante, di far valere il suo interesse al potenziamento e alla conservazione del patrimonio sociale esclusivamente con strumenti interni, quali l'azione di responsabilità contro il socio accomandatario, la richiesta di estromissione di quest'ultimo per gravi inadempienze, l'impugnativa del rendiconto, o la revoca per giusta causa dell'amministratore, mentre l'accomandante non è legittimato ad agire nei confronti dei terzi per far annullare o dichiarare nulli i negozi intercorsi fra questi ultimi e la società, non sussistendo un interesse proprio del socio accomandante, autonomo e distinto rispetto a quello della società. In questi termini si esprime la S.C., II Sez. civile, con la sentenza n. 17691 del 7 settembre 2016, pronuncia richiamata anche dalla Corte d'Appello di Milano, Sez. spec. Impresa – con sentenza n. 4218 del 21 ottobre 2019. Con riferimento alla particolare situazione disciplinata dal comma 2 dell'art. 2323 c.c., ovvero al caso in cui vengano a mancare tutti i soci accomandatari oppure l'unico socio accomandatario, ci si può chiedere se un socio accomandante possa essere nominato amministratore provvisorio in attesa della nomina dei nuovi soci accomandatari o dell'unico nuovo socio accomandatario e, pertanto, se sia legittima l'iscrizione nel Registro delle Imprese di tale nomina provvisoria dell'accomandante. Ebbene, il Tribunale di Roma, Ufficio del Giudice del Registro delle imprese, con sentenza depositata il 13 febbraio 2020, afferma che tale iscrizione è legittima e non può dunque essere sospesa né rifiutata dall'Ufficio del Registro delle Imprese: “Invero, proprio l'art. 2323 c.c. introduce una - peraltro, parziale - deroga al divieto di immistione di cui all'art. 2320 c.c., deroga ammessa nella sola eccezionale ipotesi in cui la società sia rimasta senza accomandatari e con le limitazioni (temporali e contenutistiche) di cui si dirà immediatamente infra. Ebbene, già sul piano testuale, la norma di cui all'art. 2323 c.c. non esclude esplicitamente che l'accomandante possa essere nominato amministratore provvisorio, ciò potendo rispondere ad una reale esigenza operativa della società. D'altra parte, come osservato in dottrina, la stessa affermazione che l'amministratore provvisorio non assume la qualità di accomandatario ha un senso soltanto con riferimento all'accomandante che è nominato a tale carica. Ad opinare diversamente, infatti, occorrerebbe concludere che la norma imponga, di necessità, la nomina ad amministratore provvisorio di un soggetto estraneo alla compagine sociale. Ma una tale soluzione non appare convincente: infatti, non vi vede la ragione per la quale una società personalistica, ove l'intuitus personae assume primario rilievo, debba essere "costretta" a nominare un terzo ad essa esterna quale amministratore provvisorio. Al contrario, proprio l'eccezionalità della norma di cui all'art. 2323 comma 2 c.c. e le limitazioni ivi previste consentono di ravvisare una compatibilità con il sistema della nomina del socio accomandante ad amministratore provvisorio. Infatti, come appena evidenziato, l'intervento degli accomandanti con la nomina dell'amministratore provvisorio è chiaramente eccezionale ed ha natura cautelare: serve per fronteggiare una situazione non solo straordinaria, ma anche temporanea come chiaramente indicato dalla norma che delimita il periodo di amministrazione provvisoria nel termine di sei mesi. Se tale termine poi decorre inutilmente (senza la ricostituzione della pluralità delle categorie dei soci), l'amministratore provvisorio decade automaticamente al compimento del semestre, mentre lo scioglimento della società diviene operativo (di diritto) con la conseguenza che va aperta la liquidazione e nominato il liquidatore. Ebbene, la nomina ad amministratore provvisorio dell'accomandante si rende possibile in ragione della doppia limitazione che la legge pone all'amministratore provvisorio medesimo: limitazione temporale, in primo luogo, essendo la sua attività destinata a concludersi in un periodo predefinito entro l'orizzonte del semestre e limitazione dei poteri, sotto altro profilo, essendo l'amministrazione provvisoria destinata ad avere ad oggetto esclusivamente l'ordinaria amministrazione della società. E va da sé che, ove l'accomandante - amministratore provvisorio non limitasse la propria attività alla sola ordinaria amministrazione, tornerebbe ad applicarsi la norma generale secondo la quale il socio accomandante che contravviene al divieto di immistione assume la responsabilità illimitata e solidale per tutte le obbligazioni sociali e può essere finanche escluso dalla società (art. 2320 c.c.).”
Riferimenti
Normativi
Giurisprudenza
Dottrina
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