15 Giugno 2015

Incentrato sulla compravendita del differenziale di valore di una determinata attività fondamentale (underlying instrument), il derivato è indifferentemente impiegato per fini di speculazione o di protezione. Nato da archetipi (future, option, swap) diffusisi all'inizio degli anni '80 e sviluppatisi nel tempo in molteplici e sofisticate varianti, il derivato trova ampia e controversa applicazione sui mercati.
Inquadramento

Lo strumento finanziario derivato è da tempo al centro di intensi dibattiti e di accese polemiche. La scaturigine della diatriba risiede nella particolare rischiosità dello strumento.

Incentrato sulla compravendita del differenziale di valore di una determinata attività fondamentale (underlying instrument), il derivato è indifferentemente impiegato per fini di speculazione o di protezione. Nato da archetipi (future, option, swap) diffusisi all'inizio degli anni '80 e sviluppatisi nel tempo in molteplici e sofisticate varianti, il derivato trova ampia e controversa applicazione sui mercati.

Assommando in sé i tratti tipici dello strumento finanziario e del contratto, la sua disciplina oscilla fra l'applicazione della normativa settoriale (T.U.F.) e di quella civilistica. I temi di maggior rilievo investono l'informazione da rendersi all'investitore, l'adeguatezza del prodotto, i criteri di determinazione dell'oggetto, la causa.

Trattato in forma standard sui mercati regolamentati (mercato Italian Derivatives Market – IDEM della Borsa Italiana) oppure stipulato e negoziato fuori borsa (over the counter: OTC), è soprattutto questa sua seconda, amplissima declinazione ad attrarre l'attenzione del giurista, data la libera plasmabilità dello strumento in strutture spesso altamente complesse. La raccomandazione Consob 22 dicembre 2014 n. 0097996 classifica il derivato OTC fra gli strumenti la cui vendita è sconsigliata alla clientela al dettaglio.

La definizione del contratto derivato

Lo strumento derivato costituisce una delle più complesse creazioni della c.d. ingegneria finanziaria. Gli intensi dibattiti quando non le violente polemiche che hanno avvolto questo strumento nascono da un approccio, nella più parte dei casi, scientificamente errato. Le ragioni del fenomeno vanno ricercate vuoi nella particolare configurazione giuridica del derivato vuoi nell'assenza di una sua precisa definizione nel diritto positivo.

Sotto il primo profilo il tratto unico e connotante dello strumento risiede nel fatto che la componente negoziale non svolge una mera funzione genetica, con conseguente rescissione del cordone ombelicale che lo annodi al suo partorito, dato che quest'ultimo continuerà a essere costantemente influenzato e strutturalmente soggetto al suo ceppo generatore: il derivato è un contratto che genera uno strumento finanziario immedesimandovisi al punto che lo strumento generato non cessa mai di essere un contratto. Tale caratteristica si rivela molto più pronunciata negli strumenti cc.dd. OTC (over the counter), venduti cioè “al banco”, al di fuori di un mercato regolamentato, dove invece vengono trattati strumenti analoghi ma standardizzati, con un grado di autonomia contrattuale ridotto al se contrarre e non anche steso al come contrarre, quest'ultimo del tutto libero invece nella versione OTC. Le maggiori problematiche insorgono proprio in relazione a questa seconda tipologia, laddove il derivato standardizzato tende per sua natura ad accostarsi più al “titolo” che al negozio.

In evidenza: Tribunale di Milano

Come plasticamente ritenuto in dottrina, la stipulazione di un contratto derivato, a differenza del mero scambio di azioni o titoli, costituisce ad un tempo atto negoziale e mezzo di generazione dello strumento, cioè di un'autonoma entità finanziaria (Trib. Milano 19 aprile 2011 in Banca, borsa, tit. cred., 2011, 6, 748).

Tanto implica due imprescindibili corollari:

  • la disciplina dello strumento derivato abbraccia tanto la normativa settoriale (in particolare le indicazioni promananti dal d.lgs. 58/1998 - T.U.F.) quanto la regolamentazione civilistica del contratto, rendendo impraticabile e scorretta l'applicazione esclusiva dell'una o dell'altra;
  • il distinguo ricorrente in dottrina e in giurisprudenza fra derivato speculativo e derivato protettivo, che spesso conduce a bocciare il primo e a promuovere solo il secondo, si rivela intrinsecamente errato in quanto apoditticamente neglige il fatto che il derivato, in quanto strumento finanziario e al pari di ogni altro consimile strumento, per definizione reca in sé una componente di speculazione.

Sotto il secondo profilo, l'assenza di una precisa definizione legislativa si deve, a sua volta, a due fattori in certo modo storici: da un lato, il comodo appoggio alla nozione economicistica del derivato (è derivato lo strumento il cui valore deriva da quello di un altro strumento o di un'altra grandezza economica che funge da parametro di valutazione: attività fondamentale o underlying instrument) di cui i legislatori comunitario e nazionale si sono serviti per liquidare il problema; dall'altro la cattiva abitudine normativa (inaugurata con il D.Lgs. 167/2007 attuativo della Direttiva Mifid) di limitarsi ad una descrizione sommaria del fenomeno senza arrischiarsi ad una sua nitida individuazione (cfr. combinato disposto dei commi 1-bis, 3 e 4 dell'art. 1 T.U.F. dove le diverse tipologie derivative vengono semplicemente elencate e suddivise in relazione all'attività fondamentale cui insistano).

La nozione economicistica è giuridicamente inservibile, esprimendo per vero il tratto comune di tutti quegli strumenti finanziari che condividano il principio di valorizzazione esogena (come ad esempio gli OICR). Dal canto suo, la latitanza definitoria conferma come il legislatore, quando elenca i derivati ed impiega (senza descriverli) termini come swap o opzione, dimostri di prendere atto della preesistenza del fenomeno, lasciando con ciò all'interprete il compito di pervenire ad una loro giuridica definizione. Occorre dunque muovere dall'analisi delle forme archetipe di derivati (il cui tratto genetico si rinviene invariabilmente anche nelle loro più sofisticate ed esotiche discendenze) per rinvenirne il comune denominatore funzionale.

Le principali formule derivative si rinvengono nel future, nell'option e nello swap. In particolare:

  • Future: si tratta di un derivato in forza del quale un operatore A s'impegna a cedere (rectius: a simulare la cessione) a scadenza ad un operatore B di una data attività fondamentale (sia questa rappresentata da beni fisici – titoli, valute, merci – ovvero da mere grandezze economiche - tassi di interesse, di cambio, indici di borsa e così via) ad un dato prezzo. Se alla scadenza del contratto, il valore dell'attività fondamentale è aumentato l'operatore A riceverà dall'operatore B la relativa differenza positiva. Qualora invece alla scadenza il titolo X quoti invece ad un prezzo inferiore, si verificherà l'ipotesi opposta e il differenziale negativo sarà pagato dal compratore al venditore;

  • Option: la fattispecie è del tutto analoga al future con la sensibile differenza per cui una sola parte (concedente) è obbligata all'esecuzione a scadenza mentre l'altra (beneficiario) si riserva la facoltà di darvi corso o meno (secondo uno schema che richiama direttamente il meccanismo dell'opzione generica prevista dall'art. 1331 c.c.). Questo squilibrio sinallagmatico si compensa con il pagamento dal beneficiario al concedente di un dato prezzo (premio): il beneficiario compra insomma il diritto di eseguire o meno l'opzione e quindi – fattispecie unica nella panoramica derivativa – di limitare il suo rischio al premio stesso per il caso in cui, come nella seconda ipotesi esaminata al punto precedente, l'esercizio dell'opzione si riveli sconveniente (in gergo out of the money);

  • Swap: letteralmente traducibile come “scambio”, il termine designa un derivato alquanto diffuso e molto discusso, specie nella sua versione che assume a fondamentale i tassi di interesse (interest rate swap o IRS). L'accordo consiste nello “scambio” fra le rispettive poste debitorie, per cui una parte (indebitata a tasso fisso) s'impegna a trasferire all'altra parte, alle varie scadenze del prestito, un importo pari all'applicazione di un tasso (variabile) di indebitamento sul capitale mutuato; del pari l'altra parte (indebitata a tasso variabile) s'impegna a trasferire alla prima parte, alle stesse scadenze, un importo pari all'applicazione del tasso (fisso) di indebitamento sul capitale mutuato. Lo scambio non ha per oggetto l'importo capitale ma il solo (importo risultante dall'applicazione sul capitale del) tasso di interesse: l'operazione non prevede per lo più flussi monetari incrociati in entrata e in uscita, bensì la liquidazione del solo differenziale risultante dal saldo fra gli importi derivanti dall'applicazione dei due tassi, che ha luogo periodicamente in coincidenza con le scadenze alle quali le parti sono tenute ad onorare i rispettivi debiti.

Questo sommario sguardo consente di rinvenire un fil rouge fra le diverse categorie di strumenti: il loro incentrarsi sulla ricerca del differenziale di valore pur nella varietà e imprevedibilità delle loro evoluzioni e sofisticazioni.

In evidenza: nozione empirica di derivato

Il derivato è un contratto atipico, di natura finanziaria, consistente nella negoziazione a termine di un'entità economica e nella relativa valorizzazione autonoma del differenziale emergente dal raffronto fra il “prezzo” dell'entità al momento della stipula e il suo valore alla scadenza pattuita per l'esecuzione.

L'oggetto del derivato

L'evidenza empirica conduce quindi ad una sola e irrefutabile conclusione: l'oggetto di un contratto derivato è il differenziale di valore che si forma sulla grandezza economica assunta ad attività fondamentale nell'arco di durata del rapporto, più precisamente la differenza (positiva o negativa) fra il valore che quella grandezza assuma – o che a quella grandezza convenzionalmente si conferisca – in sede di stipulazione e il diverso (maggiore o minore) valore che quella stessa grandezza assuma alla scadenza o alle scadenze intermedie del contratto.

La differenzialità quale oggetto del derivato riposa su alcune evidenze normative, ma, ancor prima, sulla stessa funzionalità dello strumento siccome preesistente alla norma. Fra le prime, in particolare: il riferimento al metodo di liquidazione, perfettamente equivalente, fra cash e delivery di cui all'art. 1, comma 1-bis lettera d) T.U.F.; l'espresso riferimento ai contratti differenziali (art. co. ultt. citt. lett. i); l'articolata definizione dei derivati su merci, per come integrata dai § 2 e 4 dell'art. 38 Reg. 1287/2006, il cui risultato netto è l'esclusione della natura derivativa in capo allo strumento che persegua finalità acquisitive della merce; le disposizioni di Vigilanza 4 agosto 2000, per le quali l'IRS è connotato dallo scambio di un differenziale fra tassi di interesse diversi; il comma 4° dello stesso art. 1 cit. che qualifica come derivati le compravendite di valuta - in gergo outrights - aliene a scopi commerciali e regolate per differenze; infine, l'art. 49 Regolamento Emittenti (Reg. Consob 11971/1999), là dove (comma 3 lett. f) si esclude che le soglie previste dall'art. 106, commi 1 e 3, lett. b) T.U.F., rilevanti ai fini dell'obbligo di o.p.a., siano superate per effetto dell'acquisto di strumenti finanziari derivati ove l'acquirente si impegni a cedere a parti non correlate i derivati o i titoli in eccedenza entro sei mesi e a non esercitare nel medesimo periodo diritti di voto in misura eccedente la soglia superata, così dimostrando una non volontà acquisitiva del fondamentale.

Tuttavia, il dato che vale ad escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il derivato non sia altro che uno strumento proteso alla ricerca del differenziale di valore risiede nella sua stessa, naturale funzione. A differenza di qualsivoglia altro veicolo meramente acquisitivo, il derivato non persegue altra funzione che simulare l'acquisizione di un bene o di una grandezza con il solo fine di acquisire, invero, la differenza di valore che quel bene o quella grandezza assumano nel tempo. E ciò proprio in funzione di pervenire alla percezione di quello scarto (profilo questo insito in qualunque compravendita speculativa) senza tuttavia sopportare l'onere economico di una sua anteriore integrale acquisizione (che invece si rinviene immancabile nello strumento di pura acquisizione).

In evidenza: la giurisprudenza sul differenziale derivativo quale oggetto del contratto

Il sinallagma negoziale [del derivato: n.d.r.] e la commutatività delle prestazioni (reciproco impegno di scambiarsi il differenziale) (Trib. Milano, 19 aprile 2011 in Banca, borsa, tit. cred., 2011, 6, 748)

Le negoziazioni aventi ad oggetto gli strumenti finanziari derivati [...] sono volte a creare un differenziale tra il valore dell'entità negoziata al momento della stipulazione del relativo contratto e quello che sarà acquisito ad una determinata scadenza previamente individuata (Corte Cost., 18 febbraio 2010 n. 52/2010 in Banca, borsa, tit. cred., 2011, 1, 1)

[Nel]l'Interest Rate Swap [...] non sussiste [...] uno scambio di capitali, ma solo flussi corrispondenti al differenziale fra i due interessi (Cons. Stato 7 settembre 2011 n. 05032/2011 in Foro it., 2012, III, 69)

[...] nel derivato OTC l'oggetto è uno scambio di differenziali a determinate scadenze (App. Milano 18 settembre 2013)

La cause del derivato tra alea e funzionalità dello strumento: la tesi della "causa concreta" e della "scommessa razionale"

Posto che il derivato assume ad oggetto un differenziale di valore e posto che quest'ultimo, per sua natura, è un dato futuro e incerto, la componente aleatoria non è affatto un elemento accidentale del negozio, bensì una sua componente coessenziale. L'alea costituisce dunque un elemento naturale del derivato, intrinseco e immanente al suo oggetto, che diviene per ciò solo nullo là dove l'alea difetti ab origine o nel corso della durata del contratto.

E' tuttavia invalsa, vuoi in dottrina vuoi in giurisprudenza, la tendenza a ricondurre la carenza di alea ad una sorta di difetto di causa in concreto (cfr., fra le molte, Trib. Ravenna, 8 luglio 2013, in Nuova giur. civ., 2014, I, 206). L'accesso a questa tesi ha prodotto, quale “effetto collaterale”, un assai discutibile corollario, che ha condotto a (implicitamente ma inequivocamente) ritenere affetto da nullità il derivato non assolvente una funzione protettiva, non volto cioè a garantire una perfetta copertura di una preesistente passività bensì a compiere un mero atto speculativo. L'assunto non è in sé condivisibile ed è anzi fuorviante. Non è condivisibile poiché la funzionalità del contratto (lo scopo per cui le parti ricorrano alla sua stipulazione) dipende da una circostanza esogena al negozio, più precisamente dal c.d. rapporto di correlazione che si instauri fra il contratto derivato ed uno “stato di rischio” economico preesistente: il che presuppone (a) la titolarità di un'esposizione finanziaria sulla quale lo strumento derivato è destinato ad incidere in termini puramente finanziari e (b) la coerenza dimensionale e qualitativa dello strumento rispetto allo stato di rischio. Dunque, vi sarà correlazione fra sottostante e derivato, e quest'ultimo risulterà coerentemente stipulato a copertura del primo, là dove il sottostante già sussista nel patrimonio dello stipulante. In caso contrario, in assenza cioè del rapporto di correlazione, il negozio non potrà ritenersi per ciò solo nullo. E qui s'annida il lato fuorviante della tesi: in effetti, come dianzi osservato (§ 1), il derivato è, ad un tempo, contratto e strumento finanziario e tale suo ultimo attributo preclude di poterlo censurare in quanto tale, in quanto cioè non correlato ad un'effettiva esposizione da proteggere.

In tempi più recenti, la giurisprudenza sembra superare questo improprio distinguo e concentrarsi su un diverso profilo: il riconoscimento nel derivato di una causa di scommessa che, grazie al salvacondotto contemplato dal 5° comma dell'art. 23 T.U.F. (il quale esclude l'applicabilità al derivato del divieto di azione con cui l'art. 1933 c.c. dissuade le scommesse private), diverrebbe un gioco tollerato dall'ordinamento. Siffatta scommessa dovrebbe però presentare i caratteri della razionalità con che, in difetto di una chiara e trasparente rappresentazione in contratto della metodologia di calcolo del valore dello strumento, il negozio perderebbe la causa sua propria, proprio perché il requisito di razionalità della “puntata” non sarebbe assicurato. Per questa via, pur condivisibile nel risultato, si tende però a sovrapporre il concetto di causa a quello di oggetto (cfr. § 4).

Invero quella del contratto derivato è né più né meno che una causa commutativa, risiedendo nel reciproco impegno delle parti a scambiarsi il differenziale positivo o negativo che si registrerà sul valore dell'attività fondamentale: siffatto meccanismo (altrimenti noto come scambio in sé) esprime la meccanica propria dello strumento derivativo ed è la vera causa civilistica del derivato. Il che è più che sufficiente a legittimare causalmente il negozio. Ogni profilo attinente all'assenza o al disequilibrio aleatorio ovvero alla sua non conoscibilità ex ante rileva, invece, sul piano dell'oggetto della negoziazione.

In evidenza: causa concreta del derivato nella giurisprudenza recente

Nei contratti di interest rate swap è ravvisabile una causa astratta, costituita dallo scambio di flussi che si determinano a seguito dell'applicazione dei tassi convenuti su un medesimo nozionale, e una causa concreta, ossia l'insieme degli effetti che le parti si prefiggono di raggiungere con il negozio (alternativamente la copertura di un rischio, c.d. hedging, o la creazione di un'alea prima non esistente, c.d. trading). È nullo per difetto di causa in concreto il contratto di interest rate swap over the counter che comporti la creazione di un'alea non razionale, intendendosi tale la possibilità per le parti di conoscere l'esatta determinazione del rischio assunto (ivi compresi i c.d. costi impliciti e il mark to market) (Trib. Torino, 17 gennaio 2014, in Contratti, 2014, 1012; cfr., anche, App. Milano, 18 settembre 2013).

La determinabilità dell'oggetto: la metodologia di mark-to-market e il rilievo degli scenari probabilistici

I risultati raggiunti dalla giurisprudenza in punto di causa del derivato, previo un minimo aggiustamento di contesto, assumono invece decisiva rilevanza ai fini della soluzione di uno dei principali problemi che affliggono la negoziazione derivativa: la determinazione del fair value (o mark-to-market, MTM, o ancora costo di sostituzione secondo l'art. 203 T.U.F.). Il calcolo del fair value assume una ruolo essenziale non soltanto al fine della progressiva valorizzazione del negozio nel corso della sua vita naturale (cfr. in tal senso l'art. 2427-bis c.c. che impone alla società l'indicazione nella nota integrativa al bilancio del fair value degli strumenti finanziari derivati) o della sua cessazione precoce (quando il MTM diviene il “prezzo” che la parte deficitaria deve saldare all'altra ex art. 203 cit.), ma anche ai fini della corretta determinazione del perimetro aleatorio nella fase stessa di stipulazione.

Il MTM, in effetti, è il misuratore della probabile evoluzione del derivato nel tempo, del probabile esborso che una parte dovrà all'altra in ragione dell'andamento dell'attività fondamentale: in altre parole è la stima anticipata e scontata (tecnicamente: “attualizzata”) dei differenziali futuri che il derivato sarà in grado di generare. Tale stima viene effettuata ex ante, sulla base di uno o più metodi probabilistici e serve tanto a prezzare il derivato quanto a delinearne il livello di rischio.

Donde una domanda: sono valide le clausole negoziali che demandano ad una sola parte (di norma l'intermediario) la determinazione del MTM senza esplicitazione dei criteri con i quali tale valore viene calcolato, atteso che i “criteri” enunciati sono impalpabili riferimenti alla “ragionevolezza” e alla “prassi” commerciale, generici richiami a strumenti comparabili ma egualmente non identificati?

Rammentando che l'oggetto del derivato è dato dal differenziale di valore registrato dalla grandezza fondamentale, il MTM, in quanto stima attualizzata dei differenziali futuri attesi, costituisce per ciò solo parte dell'oggetto del contratto. In base all'elementare principio di cui all'art. 1346 c.c., a mente del quale l'oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile, se nulla osta a che tale determinazione sia affidata ad una delle parti, è invece civilisticamente intollerabile che la parte incaricata possa operare la stima secondo criteri di mero arbitrio, che sfuggano alla possibilità di uno sciente controllo da parte dell'altro contraente. Ne consegue la nullità del derivato provvisto di una clausola che, omettendo la precisa rivelazione della metodologia di calcolo impiegata, consegni all'arbitrio dell'intermediario il dimensionamento della predetta valorizzazione rendendola così incontrollabile dalla controparte (escludendosi ovviamente i casi in cui la semplificata struttura del derivato – c.d. plain vanilla – e il suo ancoraggio ad un parametro agevolmente stimabile e normalmente quotato, rendano evidente, o comunque agevolmente calcolabile, il suo valore prospettico).

In tal senso coglie nel segno la sopracitata giurisprudenza, sia pur (dis)orientata dalla ricerca causale, nel momento in cui afferma che l'assenza dell'indicazione del metodo di determinazione del MTM determina l'inconoscibilità ex ante del grado di rischio dello strumento: il che tuttavia rileva come vizio dell'oggetto non già della causa (la giurisprudenza più recente si sta riorientando correttamente in questa direzione).

In evidenza: mancata determinazione del metodo di MTM quale vizio dell'oggetto derivativo

Il requisito della determinatezza o della determinabilità dell'oggetto dell'obbligazione esprime la fondamentale esigenza di concretezza dell'atto contrattuale, avendo le parti la necessità di sapere l'impegno assunto ovvero i criteri per la sua concreta determinazione, il che può essere pregiudicato dalla possibilità che la misura della prestazione sia discrezionalmente determinata, sia pure in presenza di precise condizioni legittimanti, da una soltanto delle parti [...] La mancanza di tale indicazione [dell'indicazione del metodo di stima del MTM: n.d.r.] in siffatta ipotesi, nel momento in cui non solo non contiene il fair value, ma neppure ne consente per la complessità del contenuto del derivato una (agevole) determinabilità, implica il venir meno dell'elemento del contratto rappresentato dalla individuazione o individuabilità del perimetro almeno ipotetico dell'alea e così, nei contratti in cui l'oggetto è aleatorio, della determinazione o determinabilità dell'oggetto (nella specie di quella parte di oggetto rappresentata dal differenziale futuro e incerto che la stima del mark to market propriamente protesa a determinare) (Lodo Arbitrale, 4 luglio 2013 in dirittobancario.it).

Discorso diverso deve svolgersi invece in merito all'indicazione dello stesso valore di MTM in contratto e alla rappresentazione degli scenari probabilistici, ricadendosi in tal caso nel parallelo obbligo di informazione cui il derivato è soggetto sulla base delle norme settoriali che regolano il mercato finanziario.

Riferimenti

Normativi

  • Art. 1, commi 1-bis, 3 e 4 e art. 23 T.U.F.
  • Artt. 1346 e 1418 c.c.
  • Art. 203 T.U.F.

Prassi

  • Raccomandazione Consob 2 marzo 2009 n. 9019104
  • Raccomandazione Consob 22 dicembre 2014 n. 0097996

Giurisprudenza

  • Corte Cost., n. 52, 18 febbraio 2010
  • Trib. Milano, 19 aprile 2011
  • Cons. Stato, 7 settembre 20911 n. 05032
  • App. Milano, 18 settembre 2013
  • Lodo Arbitrale Milano, 4 luglio 2013

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario