Indebita restituzione dei conferimenti

12 Dicembre 2016

L'art. 2626 c.c., contenuto nel titolo XI del codice civile, recante le disposizioni penali in materia di società e consorzi, punisce con la reclusione fino ad un anno, gli amministratori che, fuori dei casi di legittima riduzione del capitale sociale, restituiscono, anche simulatamente, i conferimenti ai soci o comunque li liberano dagli obblighi di eseguirli. La norma di cui all'art. 2626 c.c. deve la sua formulazione attualmente vigente alla riforma societaria operata con il D.L. n. 61/2002, benché una disposizione dal contenuto affatto dissimile era racchiusa già nel vecchio art. 2623 n. 2 c.c., sotto la rubrica “violazione di obblighi incombenti agli amministratori”. L'ipotesi di illecito precedentemente in vigore prevedeva la sanzione della reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da quattrocentomila a due milioni di vecchie lire, per gli amministratori che avessero restituito ai soci, palesemente o anche sotto forme simulate, i conferimenti o li avessero liberati dall'obbligo di eseguirli, salvo le ipotesi di riduzione del capitale sociale.
Inquadramento

L'art. 2626 c.c., contenuto nel titolo XI del codice civile, recante le disposizioni penali in materia di società e consorzi, punisce con la reclusione fino ad un anno, gli amministratori che, fuori dei casi di legittima riduzione del capitale sociale, restituiscono, anche simulatamente, i conferimenti ai soci o comunque li liberano dagli obblighi di eseguirli.

La fattispecie criminosa prevista dal codice civile

La norma di cui all'art. 2626 c.c. deve la sua formulazione attualmente vigente alla riforma societaria operata con il D.L. n. 61/2002, benché una disposizione dal contenuto affatto dissimile era racchiusa già nel vecchio art. 2623 n. 2 c.c., sotto la rubrica “violazione di obblighi incombenti agli amministratori”.

L'ipotesi di illecito precedentemente in vigore prevedeva la sanzione della reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da quattrocentomila a due milioni di vecchie lire, per gli amministratori che avessero restituito ai soci, palesemente o anche sotto forme simulate, i conferimenti o li avessero liberati dall'obbligo di eseguirli, salvo le ipotesi di riduzione del capitale sociale.

Le affinità tra le due norme sono pressoché integrali, divergendo, i due testi esaminati, unicamente per il trattamento sanzionatorio che, nella formulazione attuale, risulta più mite prevedendo una pena detentiva minore e non contemplando la pena pecuniaria precedentemente stabilita.

Si tratta, all'evidenza, di una norma a carattere sussidiario che opera nel più ampio sistema della tutela penale del capitale sociale e che si pone a chiusura di una serie di disposizioni che, essendo costruite su di un modello maggiormente specifico e particolareggiato, possono facilmente essere aggirate da condotte che rischierebbero di rimanere del tutto impunite poiché non rientranti negli stretti perimetri delle fattispecie criminose previste dal titolo XI.

Proprio il ruolo di valvola di sicurezza dell'intero sistema posto a garanzia del capitale sociale, giustifica la permanenza della figura incriminatrice in esame, benché nella previgente formulazione questa non abbia trovato applicazione nella prassi giudiziaria.

L'oggetto della tutela penale

Il bene giuridico che riceve tutela dalla norma de qua appare senz'altro quello dell'integrità del capitale sociale nella fase di ordinaria e fisiologica di attività dell'ente, posto a garanzia non solo dello svolgimento dell'attività sociale, ma anche delle ragioni della massa creditoria.

Se è innegabile, invero, che in generale il diritto penale societario si pone l'obbiettivo di tutelare le istituzioni societarie quali l'informazione societaria, il capitale sociale, le prerogative degli organi di controllo e assembleari, deve tuttavia ritenersi che l'interesse finale cui mira la normativa sia senz'altro quello patrimoniale.

La regolamentazione in oggetto, del resto, è pervasa dall'esigenze di rendere effettivo il diritto costituzionalmente sancito dall'art. 41, relativo alla libertà di iniziativa economica, che viene leso da utilizzazioni abusive o distorte di strumenti societari” da parte degli amministratori (così, PULITANO', La riforma del diritto penale societario, fra dictum del legislatore e ragioni del diritto, in Riv. It. Dir. e proc. pen., 2002, 3, 934).

Dunque è apparso necessario, al legislatore, nella formulazione di tali fattispecie, ideare le stesse in modo da far fronte a esigenze di tutela anticipata di interessi patrimoniali, costruendo quindi ipotesi delittuose di pericolo, strutturate come reati di mera condotta.

Soggetti attivi del reato ed estensione delle qualifiche soggettive

La costruzione della fattispecie come reato proprio, a concorso non necessario ma solo eventuale, disvela la volontà del legislatore di perseguire i soli amministratori e non anche i soci beneficiari delle condotte illecite tenute dai primi.

Tuttavia, benché i destinatari del precetto penale in esame siano i soli amministratori della compagine societaria, accadrà che, dell'ipotesi delittuosa in parola, saranno chiamati a rispondere, in concorso con i primi, anche i soci e, a in particolari casi, gli altri organi di controllo societari.

Il concorso eventuale del socio o dei soci beneficiari della condotta tenuta dall'amministratore, sarà integrativo del reato in oggetto, unicamente allorquando il socio abbia fornito un contributo eziologico effettivo al comportamento dell'amministratore, da valutare, ai sensi dell'art. 110 c.p., come contributo morale, concretizzatosi in una determinazione, istigazione o in un rafforzamento del proposito criminoso del soggetto titolare dei poteri gestori.

Relativamente all'individuazione dei soggetti attivi della norma in parola, deve, infine, richiamarsi l'art. 2639 c.c. che, a chiusura delle norme che puniscono i reati societari, prevede un'estensione delle qualifiche soggettive ivi previste, alla nota figura dell'amministratore di fatto, la cui definizione è fornita dalla stessa norma.

Viene stabilito, in particolare, cheal soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.

In materia societaria, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto ravvisabile la figura dell'amministratore di fatto nella persona di cui sia stato accertato l'avvenuto inserimento nella gestione di impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative.

Deve, da ultimo, osservarsi che, il soggetto attivo non è il solo qualificato nella fattispecie di cui all'art. 2626 c.c., poiché anche il soggetto passivo è individualizzato. La condotta sarà, infatti, integrativa del reato solo quando diretta a favore di uno o più soci, che abbiano tale qualifica nel momento di realizzazione della condotta tipica, non assumendo alcun rilievo penale lo scioglimento dall'obbligo sociale dell'ex socio.

Così come non integrerà il delitto previsto dall'art. 2626 c.c. – rilevando, ricorrendone gli ulteriori requisiti, eventualmente con riferimento ad altre ipotesi delittuose – il trasferimento di beni sociali a terzi estranei alla compagine societaria.

In evidenza: Cass. Pen., 13 marzo 2014, n. 44369

La Corte di Cassazione si trova ad affrontare un ricorso proposto dall'imputato nell'ambito di una complessa vicenda processuale afferente l'applicazione in Italia della disciplina sulle cosiddette quote latte.

L'imputato, in particolare, lamentava la ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 2626 c.c., in quanto reato proprio dell'amministratore, poiché, secondo quanto dallo stesso dedotto, la delibera di finanziamento era stata adottata dall'assemblea della società e l'imputato - amministratore ma anche socio - si era limitato a darvi esecuzione, nulla opponendo i sindaci.

I giudici di legittimità, prendendo preliminarmente atto dell'intervenuta prescrizione del reato, affrontavano comunque le deduzioni dell'imputato per giustificare la non ricorrenza di un'eventuale ipotesi di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p.

A tale proposito, la Cassazione, superando le argomentazioni della Corte di merito che aveva considerato unitariamente la posizione dell'imputato quale socio – amministratore, non considerando pertanto la natura di reato proprio del delitto in rubrica, riteneva che l'imputato avesse sicuramente agito come amministratore, avendo egli, in tale qualità, convocato l'assemblea che poi avrebbe approvato il finanziamento, con il suo voto decisivo come socio. Per tali ragioni la Corte riteneva sussistente la fattispecie di cui all'art. 2626 c.c., impedendo una pronuncia di proscioglimento.

Quanto alla condotta tenuta dai sindaci, la Corte argomentava che il loro concorso nel reato in esame era da identificarsi come un concorso omissivo nel reato proprio dell'amministratore, avendo questi ultimi compreso immediatamente le reali finalità dell'operazione, circostanza dimostrata dal fatto che i medesimi, di li a poco, avevano evidenziato il carattere non etico del finanziamento ed avevano preteso un tasso di interesse.

La condotta tipica e l'oggetto materiale

Fuori da casi di legittima riduzione del capitale sociale, locuzione sulla quale ci si soffermerà più compiutamente nel paragrafo che segue, la condotta può concretizzarsi alternativamente nella restituzione dei conferimenti effettuati o nella liberazione dall'obbligo di eseguirli.

Quanto alla prima ipotesi, deve rappresentarsi come la restituzione dei conferimenti possa avvenire in qualsiasi forma, diretta o indiretta, palese o simulata ed ancora integrale o anche solo parziale.

La restituzione palese si verificherà nelle ipotesi, ad esempio, in cui il trasferimento del bene viene effettuato ad un prezzo non congruo.

Più frequentemente, tuttavia, accadrà che la restituzione non sarà palese ma verrà effettuata con espedienti negoziali idonei a dissimulare la vera natura dell'operazione sociale, utilizzando schemi giuridici sofisticati e artefatti.

Il termine restituzione, in buona sostanza, ai fini della rilevanza penale dei comportamenti degli amministratori, racchiude tutti quegli accordi negoziali attraverso i quali il socio è beneficiario di un effettivo e concreto arricchimento patrimoniale cui fa direttamente seguito un depauperamento della società, avente ad oggetto i conferimenti sociali.

Quanto alle seconda modalità di integrazione della fattispecie criminosa in commento, la norma fa riferimento alla liberazione dei soci dall'obbligo di eseguire i conferimenti stessi, che presuppone, pur nel silenzio normativo, l'assunzione dell'obbligo del socio di apportare il proprio capitale, rimasto tuttavia in tutto o in parte inadempiuto.

Anche questa modalità comportamentale, benché non espressamente prevista dal legislatore, potrà esternalizzarsi mediante forme simulate di liberazione, come può immaginarsi nel caso in cui l'amministratore operi una compensazione del debito con un inesistente credito del socio verso la società.

Più in generale, deve ritenersi che tale formula di chiusura mira a sanzionare tutte le condotte, in qualsiasi modo attuate, dirette a svincolare – illegittimamente – i soci dall'obbligo di eseguire i conferimenti.

Riguardo alla prima modalità di estrinsecazione del reato, deve rappresentarsi come il reato giunga a consumazione quando il capitale sociale inizia a perdere la sua copertura, previo esaurimento delle riserve.

Più chiaramente, quando ricorre l'ipotesi della restituzione dei conferimenti, il reato si consuma nel momento di fuoriuscita del conferimento (o del denaro corrispondente al conferimento in precedenza effettuato) dal patrimonio sociale.

Diverso il caso, invece, dell'ipotesi della liberazione, che raggiuge il proprio momento consumativo con il perfezionamento dell'atto negoziale con il quale l'amministratore rinuncia al conferimento ancora dovuto.

L'oggetto materiale della condotta, i conferimenti appunto, sono gli apporti dei soci alla costituzione dei mezzi per lo svolgimento dell'attività sociale, e sono rappresentati dai conferimenti di denaro, dai crediti e da altri beni, con l'esclusione di quelli immateriali o in solo godimento.

In buona sostanza, esulano dal perimetro punitivo della fattispecie i conferimenti al patrimonio, poiché non idonei ad integrare il capitale e, dunque, irrilevanti dal punto di vista economico.

Al fine di identificare l'oggetto materiale della condotta dovrà, comunque, farsi riferimento non alla denominazione formale dei beni attribuiti ai soci, quanto al contenuto sostanziale di tali apporti, potendo essere oggetto della restituzione penalmente rilevante, solo quelli corrispondenti a quote ideali del capitale nominale (MANDRACCHIA, Dagli illeciti commessi dagli amministratori: indebita restituzione dei conferimenti, Overlex).

In evidenza: Cass. Pen., 14 febbraio 2013, n. 13318

In tema di bancarotta fallimentare, la Corte di Cassazione, esaminando il ricorso dell'imputato che chiedeva la riqualificazione giuridica della propria condotta da quella di bancarotta preferenziale a quella di bancarotta societaria, per violazione dell'art. 2626 c.c., escludeva la ricorrenza di tale ipotesi criminosa precisando che l'indebita restituzione ai soci aveva riguardato finanziamenti effettuati dai medesimi nel corso della vita della società non già in conto capitale bensì a titolo di mutuo e cioè finanziamenti che, in quanto tali, non potevano rientrare tra i conferimenti integranti l'oggetto materiale della fattispecie descritta nell'art. 2626 c.c.

I casi legittimi di riduzione del capitale sociale

Dalla lettura del disposto di cui all'art. 2626 c.c. emerge con chiarezza l'irrilevanza penale delle ipotesi di restituzione dei conferimenti compiute nei casi di legittima riduzione del capitale sociale, formula che determina l'integrazione della fattispecie in esame con una disciplina ricavabile da fonti normative contenute aliunde nel codice civile.

Deve preliminarmente ricordarsi come il capitale sociale rappresenti la garanzia del soddisfacimento delle spettanze dei creditori e sia costituito dal valore dei conferimenti dei soci, dando l'indicazione del patrimonio sociale di cui non si può disporre a favore dei soci stessi, poiché destinato per un verso, ad assicurare l'attività dell'ente e, per altro verso, al soddisfacimento dei creditori stessi.

E' noto che il capitale sociale può essere ridotto per perdite o per libera scelta della società. Quando la delibera di riduzione del capitale è approvata, ed acquista pertanto efficacia, ad essa consegue la restituzione di parte dei conferimenti ai soci.

Al di fuori di queste ipotesi, ed altre eventuali, come ad esempio il recesso di un socio, non è consentita la restituzione dei conferimenti ai soci.

Quella afferente ai casi di legittima riduzione del capitale sociale è una disciplina contenuta, come anticipato, in diverse disposizioni del codice civile. Si tratta, in particolare, del disposto dell'art. 2306 c.c. che, in tema di società in nome collettivo, prevede che “la deliberazione di riduzione di capitale, mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione di essi dall'obbligo di ulteriori versamenti può essere eseguita, soltanto dopo tre mesi dal giorno dell'iscrizione nel registro delle imprese, purché entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all'iscrizione abbia fatto opposizione”.

Deve precisarsi come la norma de qua trovi applicazione limitatamente alla riduzione del capitale per esuberanza e non a quella per perdite, contenuta nell'art. 2303 c.c.

Parallelamente, l'art. 2445 c.c., in tema di società per azioni, stabilisce che la riduzione del capitale sociale può aver luogo sia mediante liberazione dei soci dall'obbligo dei versamenti ancora dovuti, sia mediante rimborso del capitale ai soci, nei limiti ammessi dagli artt. 2327 c.c., disposto relativo all'ammontare minimo del capitale per le società per azioni, e 2413 c.c., in ossequio al divieto di riduzione del capitale per la società emittente obbligazioni.

Nel caso di società acquirente di proprie azioni, cui si applichi l'art. 2357, comma 3, la riduzione deve comunque effettuarsi con modalità tali che le azioni proprie eventualmente possedute dopo la riduzione non eccedano la quinta parte del capitale sociale.

L'elemento soggettivo

Il dolo generico appare sufficiente ad integrare l'elemento psicologico richiesto per l'integrazione del delitto in esame. Coscienza e volontà devono ricoprire non solo la condotta materiale di restituzione dei conferimenti o di liberazione dall'obbligo di eseguirli ma anche la consapevolezza di operare al dì fuori delle ipotesi legittime di riduzione del capitale sociale.

Con la conseguenza che, ove tale ultima circostanza sia erroneamente supposta dall'amministratore, quest'ultimo potrà invocare la causa di non punibilità di cui all'art. 47 c.p., per errore caduto sul fatto.

Il reato di indebita restituzione di conferimenti come reato presupposto per la responsabilità amministrativa degli enti

La riforma societaria del 2002 è intervenuta anche sul D.Lgs. n. 231/2001, che, come noto, disciplina la responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato, introducendo l'art. 25-ter, che amplia il novero dei reati presupposto della responsabilità dall'ente agli illeciti societari.

Nell'introdurre tali reati, tra cui, alla lettera l), l'indebita restituzione dei conferimenti ai soci, per cui viene prevista, per l'ente, una sanzione pecuniaria da duecento a trecentosessanta quote, la norma operava anche una riscrittura dei criteri di imputazione oggettivi e soggettivi, dettando una disciplina difforme da quella prevista dall'art. 5 del medesimo decreto.

La novella legislativa stabiliva che “in relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, se commessi nell'interesse della società, da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza, qualora il fatto non si fosse realizzato se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica, si applicano le seguenti sanzioni pecuniarie…”.

Merita accennare brevemente alla formulazione del testo legislativo richiamato, ancorché ad oggi nuovamente modificato.

La prima diversità che si coglieva riguardava l'eliminazione del requisito del vantaggio dell'ente, benché già sotto l'egida della vecchia norma la giurisprudenza di legittimità avesse argomentato: “la formulazione normativa dell' art. 25-ter, che menziona solo l'interesse dell'ente, opera più apparentemente che sostanzialmente un allontanamento dai criteri di imputazione generale previsti dall' art. 5 D.Lgs. 231/01 (interesse o vantaggio), criteri che pertanto trovano applicazione anche in ambito societario nonostante la dubbia tecnica di redazione del testo di legge”(cfr., Cass. Pen., 4 marzo 2014, n. 10265).

La seconda diversità che veniva in luce dal raffronto delle due norme sopra citate era costituita dall'identificazione dei soggetti responsabili delle condotte presupposte.

La riscrittura della norma in esame ad opera della L. n. 68/2015 (in vigore dal 29 maggio 2015) ha fatto venir meno tutti i dubbi interpretativi sorti durante la vigenza del vecchio testo normativo, in ordine ai criteri oggettivi e soggettivi di imputazione della responsabilità dell'ente nonché in merito all'interpretazione del criterio della culpa in vigilando.

In definitiva, oggi, il testo dell'art 25-ter viene allineato agli altri della c.d. parte speciale, limitandosi a prevedere l'entità della sanzione pecuniaria a carico dell'ente in relazione alla commissione dei reati societari senza dettare criteri specifici di imputazione soggettiva ed oggettiva, dovendosi, pertanto, ritenere che, ai fini dell'individuazione di essi, debba farsi riferimento alla disciplina già prevista dal decreto legislativo succitato, senza alcuna deroga.

La fattispecie di bancarotta fraudolenta da reato societario

Come noto, l'art. 223, comma 2, n. 1, l. fall. punisce gli amministratori, i direttori generali, i sindaci ed i liquidatori di società dichiarate fallite che abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società commettendo alcuno dei reati societari previsti dalle disposizioni civilistiche, tra cui, per quanto qui di rilievo, quello di indebita restituzione dei conferimenti.

La disposizione da vita ad una ipotesi autonoma di reato, a più fattispecie, prevedendo il dissesto della società quale unico evento. Dissesto al quale deve conseguire la dichiarazione di fallimento della società, che deve essere conseguenza delle commissione degli illeciti sopra richiamati.

A tale riguardo, è stato precisato da autorevoli autori che non occorre che la consumazione del reato societario sia l'unica causa dalla quale è conseguito il fallimento della società, essendo sufficiente che esso abbia concorso a produrlo, dovendosi escludere l'efficacia causale dell'azione illecita solo quando – come previsto dall'art. 41 c.p. – il nesso causale sia interrotto dalla sussistenza di cause assorbenti (cfr., BRICCHETTI – TARGHETTI, Bancarotta e reati societari, Giuffrè, 127 ss.).

La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, sul tema, ha espresso due importanti principi nelle ipotesi di sussistenza della fattispecie di cui all'art. 2626 c.c., quando la condotta dell'amministratore di una società il quale, in previsione del fallimento, restituisca ai soci i conferimenti o le anticipazioni, salvo i casi di legittima riduzione del capitale sociale.

Da un lato, i giudici di legittimità hanno evidenziato che le restituzioni ai soci dei conferimenti o delle anticipazioni effettuate poco prima del fallimento della società, fuori dei casi di legittima riduzione del capitale, integra una condotta in contrasto con gli interessi della società fallita e della intera massa dei creditori, consistendo nella appropriazione di parte delle risorse sociali, distolte dalla loro naturale destinazione a garanzia dei creditori e che, di conseguenza, la fattispecie deve essere inquadrata nel reato di bancarotta per distrazione previsto dall'art. 223, comma 2, n. 1 della legge fallimentare e non in quello di bancarotta preferenziale.

Dall'altro lato, è stato chiarito che il reato è integrato indipendentemente dalla capienza dell'attivo fallimentare rispetto alla possibilità di garantire in tutto o in parte le ragioni dei creditori, poiché l'illiceità della condotta discende dal divieto espressamente previsto dal legislatore all'art. 2626 c.c., richiamato dall'art. 223, comma 2, n. 1, l. fall. (cfr., Cass. Pen., 15 aprile 2004 n. 23672).

In evidenza: Cass. Pen., 6 maggio 2009, n. 27918

Non integra il delitto di bancarotta fraudolenta impropria (art. 223, comma 1, l. fall.) la condotta dell'amministratore che richiami l'assegno di provvista, precedentemente versato in esecuzione della delibera di aumento del capitale, sul conto corrente intestato alla società, considerato che, in tal caso, il patrimonio sociale non risulta impoverito non avendo il versamento di detto assegno incrementato la dotazione liquida del patrimonio della beneficiaria, tale condotta, invece, poiché diretta ad esentare o comunque ostacolare l'esecuzione della pretesa societaria verso il socio sottoscrittore della delibera di aumento di capitale, può astrattamente configurare l'autonomo reato di indebita restituzione di conferimenti, sub specie di liberazione dei soci dell'obbligo di eseguire i conferimenti.

Riferimenti

Normativi:

  • Art. 2626 c.c.;
  • Art. 2303 c.c.;
  • Art. 2445 c.c.;
  • Art. 25-ter D.Lgs. n. 231/2001;
  • Art. 223, comma 2, l. fall.

Giurisprudenza:

  • Cass. Pen., 13 marzo 2014, n. 44369;
  • Cass. Pen, 14 febbraio 2013, n. 13318;
  • Cass. Pen, 6 maggio 2009, n. 27918;
  • Cass. Pen, 15 aprile 2004, n. 23672;
Sommario