La natura della polizza infortuni, il principio indennitario ed il (divieto di) cumulo di risarcimento e indennizzo

Maurizio Hazan
03 Marzo 2015

L'assicurazione degli infortuni costituisce un contratto strutturatosi attorno ai modelli, non sempre uniformi, elaborati dall'esperienza e dalla prassi; in quanto tale è stata sovente considerata come negozio “socialmente tipico”, secondo una definizione che non è stata sempre ritenuta appagante, né dalla giurisprudenza né dalla dottrina. Manca, infatti, nel nostro ordinamento, una disposizione che disciplini compiutamente le assicurazioni della persona (tra cui quelle contro gli infortuni) e fornisca chiare indicazioni sulla applicabilità o meno a quelle coperture della rigida regola espressa, quanto alle coperture del ramo danni, dal così detto “principio indennitario”.
Il quadro normativo

L'assicurazione degli infortuni costituisce oggi, così come la conosciamo, un contratto strutturatosi attorno ai modelli – peraltro non sempre uniformi - elaborati dall'esperienza e dalla prassi; in quanto tale è stata sovente considerata come negozio “socialmente tipico”, secondo una definizione che non è stata sempre ritenuta appagante, né dalla giurisprudenza né dalla dottrina.

Manca, infatti, nel nostro ordinamento, una disposizione che, sulla falsa riga di quanto ad esempio contemplato dal Code des assurances francese, disciplini compiutamente le assicurazioni della persona (tra cui quelle contro gli infortuni) e fornisca chiare indicazioni sulla applicabilità o meno a quelle coperture della rigida regola espressa, quanto alle coperture del ramo danni, dal così detto “principio indennitario”.

Tale principio, che informa trasversalmente il comparto delle assicurazioni contro i danni (a differenza delle assicurazioni sulla vita, a matrice previdenziale), esprime la regola in virtù del quale il danneggiato non può, dopo il risarcimento, trovarsi in una condizione patrimoniale più favorevole rispetto a quella in cui si trovava prima di restare vittima del fatto illecito.

Per dirla in termini più semplici, lo strumento assicurativo (del ramo danni) non potrebbe mai costituire occasione per arricchire l'assicurato danneggiato, avendo il solo scopo di ristorarlo – in tutto od in parte, e nei limiti delle previsioni di polizza – del danno patito.

Il cuore del problema non è soltanto teorico od accademico: tutto al contrario, la distinzione classificatoria proposta dal codice civile (con la netta separazione delle disposizioni applicabile ai contratti del ramo danni – artt. 1904-1918 c.c.- da quelle dedicate alle polizze vita generali – artt. 1919 -1927 c.c.) ha posto, e continua a porre, più di un dubbio in ordine all'individuazione del set normativo applicabile alle polizze infortuni (così come a tutti gli altri numerosi prodotti assicurativi “ibridi”, presentati sul mercato in epoca successiva alla promulgazione del codice civile). Si tratta, dunque, di comprendere se e in che termini l'autonomia negoziale sia effettivamente libera di dar vita a contratti assicurativi distanti dagli schemi codicistici delle polizze danni o delle polizze vita (e, rispetto a quelli, profondamente derogatori). Non solo, si tratta anche di capire come le condizioni generali di ciascun prodotto possano essere integrate dalla legge, ogni qualvolta vi siano degli spazi lasciati vuoti dalla regolazione convenzionale di polizza.

Le assicurazioni infortuni (e più in generale “della persona”) costituiscono (al pari delle soluzioni di prodotto a spiccata matrice finanziaria) certamente uno dei settori più difficilmente riconducibili entro schemi normativi predefiniti. In particolare, la stessa nozione di infortunio, pur evocando chiaramente il concetto di lesione e dunque di danno (alla persona) integra certamente, almeno nel senso letterale del termine, anche un “evento” attinente alla vita umana (in quanto tale riconducibile entro l'ambito delle assicurazioni sulla vita disegnato dall'art 1882 c.c.).

Il contrasto dottrinario

In dottrina sono andati formandosi due orientamenti principali, tra di loro suddivisi a seconda che assimilassero l'assicurazione contro gli infortuni all'assicurazioni sulla vita od all'assicurazione contro i danni.

Alla prima impostazione si iscrivono le opinioni di coloro i quali (tra questi A. C. Jemolo, Assicurazione sui danni e assicurazioni sulla vita, in Giur. It., 1936, I, 2, 274; A. Donati, Questioni varie su un caso di assicurazione contro gli infortuni, in Ass., 1952, II, 8; R. Schmidt-D. Luer, Cumulo delle prestazioni di regresso e surrogazione in materia di assicurazione privata e pubblica, in Ass., 1974, 292) hanno ritenuto che il contratto di assicurazione contro gli infortuni non sia sussumibile nell'ambito delle garanzie danni per le seguenti, prevalenti, ragioni:

  • nel caso di morte il danno potrebbe anche mancare (per esempio nel caso in cui il beneficiario sia un terzo che ha rapporti familiari o di altro tipo con il de cuius – si pensi al caso in cui si tratti di un ente di beneficenza già istituito erede universale);
  • la morte o l'invalidità causate da infortunio sono eventi attinenti alla vita umana, in conformità a quanto stabilito dall'art. 1882 c.c.;
  • l'integrità fisica del corpo umano non ha un valore esprimibile in denaro, ragion per cui non esiste una “misura” del danno alla quale ragguagliare l'indenizzo e, con esso, l'operatività del principio indennitario;
  • l'art. 1916 c.c. prevede espressamente che la surrogazione dell'assicuratore si applichi anche nel caso di assicurazione contro gli infortuni. Il che può giustificarsi soltanto ritenendo che, in assenza di specificazione normativa, a quella copertura, afferente al comparto vita, non avrebbe potuto applicarsi la disciplina legale della surrogazione.

In senso contrario vi è chi (si leggano, tra gli altri, T. Ascarelli, Sulla natura dell'azione dell'assicurato nella assicurazione infortuni, in Ass., 1934, II, 277; R. Capotosti, La natura giuridica dell'assicurazione facoltativa contro gli infortuni con speciale riguardo al diritto di surrogazione dell'assicuratore, in Riv. Dir. Civ., 1963, II, 487; M. Rossetti, Appunti sulla natura dell'assicurazione infortuni, in Ass., 1999, II, 2, 258) ha invece sostenuto, sulla base di argomenti opposti ai precedenti, che l'assicurazione infortuni rientri pianamente nell'ambito dei contratti del ramo danni. Ciò in quanto:

  • in base al sistema dicotomico ex art. 1882 c.c. l'assicurazione contro gli infortuni mira ad elidere le conseguenze sfavorevoli di un evento dannoso e, quindi, presenta le caratteristiche dell'assicurazioni danni;
  • l'infortunio non è paragonabile ad un evento attinente alla vita umana come la morte o la sopravvivenza ad una certa età;
  • l'integrità fisica del corpo umano può essere oggetto di valutazione convenzionale fra assicurato e assicuratore;
  • Il comma 4 dell'art. 1916 c.c. prevedendo l'applicabilità delle norme sulla surrogazione anche all'assicurazione infortuni riporta espressamente la disciplina di quest'ultima all'interno del ramo danni;
  • l'assicurazione sulla vita ha finalità di risparmio e previdenza, estranee all'assicurazione sugli infortuni.

Andando oltre tale rigida contrapposizione dogmatica, altre correnti (minoritarie) di pensiero hanno tentato di ricostruire la disciplina delle polizze infortuni affrancandosi dalla bipartizione codicistica ed affermando la natura autonoma del relativo contratto, individuato come tertium genus, posto a lato delle figure tipizzate dal legislatore (v. V. Salandra, Natura e disciplina giuridica dell'assicurazione privata contro gli infortuni, in Ass., 1948, I, 9; R. Tedeschi, Natura giuridica dell'assicurazione facoltativa contro gli infortuni, in Riv. Dir. comm., 1950, II, 388; F. Bartolini, Natura dell'assicurazione infortuni, in Dir. Prat. Assic., 1960, 306; E. Pasanisi, L'assicurazione infortuni nella disciplina del contratto di assicurazione, in Ass., 1962, I, 2).

La prassi e il principio indennitario nella polizza infortuni

Calato nel contesto assicurativo il principio indennitario (in forza del quale, si ricorda, la funzione risarcitoria/indennitaria deve ristorare il pregiudizio del danneggiato senza però addirittura arricchirlo rispetto alla situazione antecedente al sinistro) assume una valenza interna (endocontrattuale) od esterna. Per quel che attiene al primo profilo, deve ritenersi che l'indennizzo stabilito in polizza debba ragguagliarsi al valore assicurabile e limitarsi (tutt'al più) a risarcire integralmente il danno, non essendo ammissibile che l'indennizzo medesimo ne oltrepassi l'ammontare. Quanto invece alla dimensione esterna del principio indennitario, espressa nella previsione di un diritto di surrogazione a favore dell'assicuratore, la stessa opera nelle ipotesi in cui il sinistro sia riconducibile alla responsabilità di un soggetto terzo e tende ad evitare che l'assicurato, cumulando indennizzo assicurativo e risarcimento civilistico, ritragga dalla vicenda (addirittura) un vantaggio.

Ora, tale lettura del principio indennitario si attaglia perfettamente alle assicurazioni di cose, rispetto alle quali il valore (assicurabile) del bene oggetto di garanzia è perfettamente individuabile, anche secondo parametri di mercato. Assai meno agevole adattarla alle assicurazioni della persona diverse da quelli aventi ad oggetto il rimborso delle spese di cura.

Ed invero, rimanendo sulle polizze infortuni, non vi è dubbio che le soluzioni di copertura presenti sul mercato assai raramente intendono limitare o far corrispondere l'indennizzo dovuto a seguito di infortunio all'effettiva misura del danno patito dall'assicurato (in applicazione dei valori risarcitori che gli sarebbero – astrattamente – riconosciuti civilisticamente nell'ambito di un giudizio di responsabilità). Ben al contrario, le parti possono del tutto liberamente fissare capitali tanto rilevanti da condurre, nella concreta liquidazione pratica, ad indennizzi del tutto scollegati, e ben eccedenti, rispetto alla misura od al limite del danno (biologico e patrimoniale) risarcibile in sede civile. Può così esemplificativamente, accadere, nella attuale prassi di mercato, che Tizio - volendo assicurarsi dal rischio infortuni per un capitale pari a 5.000.000 = di euro ed avendo trovato un'impresa assicurativa disponibile a farlo, dietro pagamento di un premio adeguato - possa riscuotere a titolo di indennizzo, in caso di infortuni con esiti di distorsione del rachide cervicale, somme pari ad Euro 100.000 = a fronte di un danno biologico tabellato al 2%.

Difficile sostenere che un indennizzo di valore pari a quello indicato nell'esempio sia corrispondente al danno effettivamente patito dall'assicurato, il quale, tra l'altro, non dovrebbe aver subito, per l'entità della lesione, alcuna effettiva diminuzione reddituale o, comunque, nessuna sostanziale compromissione della capacità lavorativa. Coperture di questo tipo, pari ad un multiplo della retribuzione, si possono ritrovare sovente in polizze collettive professionali stipulate a favore di quadri o dirigenti di azienda.

D'altra parte, la prassi dimostra che la larga maggioranza delle polizze infortuni non prevede, da un lato, il diritto di surrogazione dell'assicuratore, di cui all'art. 1916 c.c. (il più delle volte rinunziato espressamente); dall'altro disapplica, in tutto o in parte, la previsione di cui all'art. 1910 c.c., in tema di coassicurazione indiretta.

Può, insomma, confermarsi che nei suoi assetti socialmente tipici la polizza infortuni non ha, nella sua componente essenziale (ed eccezion fatta per le prestazioni di rimborso delle spese di cura), carattere indennitario.

L'orientamento giurisprudenziale

Interessata dell'argomento, la Suprema Corte ebbe a prendere posizione su singole questioni, afferenti l'applicabilità, o meno, di determinate disposizioni codicistiche alla polizza infortuni. Così, occupandosi dell'obbligo di salvataggio di cui all'art. 1914 c.c., la Corte di Cassazione ne aveva escluso l'applicazione alla polizza infortuni, sul presupposto della sua irriconducibilità entro l'ambito dei contratti del ramo danni (Cass. 17 settembre 1979, n. 4788, in LaTorre Le assicurazioni. L'assicurazione nei codici. Le assicurazioni obbligatorie, Milano, 1980, 537).

La stessa Suprema Corte ebbe poi a prendere posizione sull'avviso di sinistro: ci riferiamo alla sentenza dell'11 marzo 2005, n. 5435 (in Mass. Giur. It., 2005) nella quale si affermò che gli artt. 1913 e 1915 c.c. seppur dettati in materia di assicurazione contro i danni, si applicano anche all'assicurazione contro gli infortuni non mortali.

Qualche anno prima, peraltro, la delicatezza dell'argomento aveva condotto ad un più drastico intervento delle Sezioni Unite, le quali erano state investite della decisione relativa all'applicabilità alla polizza infortuni dell'art. 1910 c.c.. Il caso riguardava la pretesa di un'assicurata di ottenere, in forza di una garanzia infortuni, un indennizzo che le era stato negato da più compagnie ai sensi dell'art. 1910 c.c. Più precisamente, gli enti assicuratori convenuti, assumendo la piana riconducibilità del contratto nell'alveo del ramo danni, eccepivano che l'indennità non fosse dovuta per avere l'attrice taciuto di aver stipulato altre polizze per lo stesso rischio con altri assicuratori.

Sul punto le SS. UU., (Cass., S.U., n. 5119 del 10 aprile 2002) dopo aver sottolineato la profonda diversificazione dei rischi sottesi alla copertura infortuni e distinto quelli mortali da quelli non mortali, hanno sostenuto la tesi secondo la quale quella garanzia doveva ossequiare una disciplina non unitaria bensì «di tipo misto, da ricavare prevalentemente dalla disciplina dettata per l'assicurazione contro i danni, nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un infortunio che abbia determinato inabilità od invalidità, ovvero prevalentemente dalla disciplina dettata per l'assicurazione sulla vita, nel caso in cui venga in linea di conto un infortunio mortale».

L'utilizzo dell'avverbioprevalentemente” dimostra, ab imis, la difficoltà di licenziare una soluzione netta e convincente. Ciò nondimeno, sintetizzando i propri assunti, la Corte ha affermato il principio secondo il quale: «alla assicurazione contro le disgrazie accidentali (non mortali), in quanto partecipe della funzione indennitaria propria dell'assicurazione contro i danni, va estesa l'applicazione dell'art. 1910 c.c., trattandosi di norme dettate a tutela del principio indennitario, per evitare che, mediante la stipulazione di più assicurazioni per il medesimo rischio, l'assicurato, ottenendo l'indennizzo da più assicuratori, persegua fini di lucro conseguendo un indebito arricchimento […]».

Veniva dunque chiaramente propugnata una soluzione “a doppio binario”, che pareva far discendere - discutibilmente - la disciplina applicabile all'assicurazione infortuni dalla natura del sinistro di volta in volta dedotto in polizza; e poiché, del tutto normalmente, le coperture infortuni contemplano tanto il rischio di morte quanto quello di lesioni, applicare al contratto il set normativo previsto per il comparto danni (artt. 1904-1918 c.c.) ovvero quello stabilito per la vita (artt. 1919-1927 c.c.) finiva per dipendere, un poco singolarmente, dalla natura (mortale o meno) di un evento tautologicamente “eventuale” (l'infortunio, che potrebbe anche non verificarsi nella vigenza della polizza….). Il che non risolveva i dubbi correlati all'individuazione delle norme applicabili ad aspetti del rapporto assicurativo che non riguardano il sinistro (si pensi alla disciplina dei premi od all'aggravamento del rischio …).

Evidentemente consapevole dell'opportunità di non trarre dal proprio ragionamento conseguenze assolute e definitive, la stessa Suprema Corte si affrettava, poi, a precisare che la peculiarità della garanzia infortuni, e la sua natura di assicurazione di persone, imponeva di operare una selezione all'interno dell'art. 1910 c.c., i cui soli primi due commi le sarebbero linearmente applicabili. Non invece il terzo ed il quarto: «è opportuno precisare che la disposizione sarà pienamente applicabile nei primi due commi. Quanto al secondo ed al terzo, … la peculiarità dell'assicurazione contro gli infortuni, che è assicurazione di persone e non di cose, con le conseguenti difficoltà di rapportare la misura dell'indennizzo ad un danno di consistenza obbiettivamente accertabile, se non osta radicalmente alla loro applicazione, la rende indubbiamente difficoltosa nella pratica».

Tale passaggio, a parere di chi scrive, segna già un primo limite di quell'argomentare, ponendo in rilievo un'antinomia logica che finisce col negare le stesse premesse su cui la tesi si fonda; premesse che tendono invece a sostenere che i danni subiti dalla “persona” dell'assicurato, proprio in quanto patrimonialmente valutabili (e quindi, dovremmo dire, di consistenza obiettivamente accertabile), soggiacciono ai limiti imposti dal principio indennitario.

Ma vi è anche un altro punto della sentenza che rivela come, in realtà, le stesse Sezioni Unite non credessero fermamente all'applicazione del principio indennitario alla polizza infortuni; applicazione che, ove intesa con rigore, avrebbe escluso non soltanto la possibilità di ottenere, attraverso la stipula di più contratti, prestazioni complessivamente superiori al danno effettivamente patito ma anche la stessa possibilità di stabilire, all'interno di un unico contratto, un valore assicurato talmente elevato da condurre a liquidazioni manifestamente superiori ai pregiudizi (patrimoniali o non patrimoniali) in concreto sofferti dall'assicurato. Ci riferiamo alla parte della motivazione in cui si afferma che «il pregiudizio determinato dalla perdita o dalla riduzione, a causa di infortunio, della capacità di produrre reddito (danno patrimoniale), ovvero dal peggioramento della qualità della vita di una persona (danno biologico in senso lato), ben può essere valutato e monetariamente quantificato in riferimento alla specifica situazione dell'assicurato, con conseguente contenimento della pretesa assoluta discrezionalità dell'assicurato. Si tratta di una valutazione del rischio indubbiamente più difficoltosa di quella concernente l'apprezzamento del valore di una cosa, ma pur sempre possibile anche in relazione al pregiudizio che un infortunio può determinare, nel patrimonio o nella persona, al soggetto che stipula una assicurazione contro tale rischio. Valutabilità che rende percepibile la manifesta sproporzione tra indennizzo preteso dall'assicurando e presumibili conseguenze dell'infortunio, e che consente quindi all'assicuratore di esercitare la sua facoltà di non accettare la proposta, che controparte deve tenere ferma per quindici giorni ex art. 1887, proprio per dar modo all'assicuratore di valutare il rischio».

Orbene, non potrà sfuggire come quella manifesta sproporzione tra indennizzo preteso dall'assicurando e presumibili conseguenze dell'infortunio non sia affatto considerata, dalla Suprema Corte, del tutto inaccettabile, e quindi non deducibile in contratto (sotto pena della sua nullità …): al contrario viene riconosciuta (implicitamente) la facoltà (… del tutto legittima) dell'assicuratore di accettare o meno una proposta di copertura “sproporzionata” per valore rispetto alla misura delle presumibili conseguenze di danno.

Non si riesce, dipoi, a comprendere perché, già allora, la Suprema Corte, pur avendo brillantemente rimarcato che la diffusione nella pratica della polizza infortuni aveva «determinato il formarsi di un contratto socialmente tipico», abbia poi seguito un'impostazione così formalistica, senza sondare la possibilità di allontanarsi dalla tradizionale bipartizione codicistica e di accordare migliore valorizzazione a quella prassi a cui pure si era fatto esplicito riferimento.

Sembra, dunque, che le conclusioni del 2002, pur sorrette da cotanta autorevolezza, rivelassero intime contraddizioni e meritassero un approfondimento critico. Non a caso, del resto, la prassi di mercato non sembrò mai turbata da tale posizione, continuando a licenziare prodotti assicurativi connotati da una sistematica disapplicazione del principio indennitario (vuoi sotto il profilo della libera valutazione dei capitali assicurato, vuoi sul piano della rinunzia alla surrogazione o della deroga all'art. 1910 c.c.).

Sennochè, più di dieci anni dopo, un nuovo, ben più energico e netto, “scossone” giurisprudenziale ha dato nuova linfa al dibattito. E qui occorre entrare nel vivo della sentenza in commento.

Il divieto di cumulo tra indennizzi e risarcimento secondo la Suprema Corte: la sentenza n. 13233 dell'11 giugno 2014

Figlia di un'impostazione rigorosa ed incentrata su di una visione delle assicurazioni dogmaticamente “codicistica”, la sentenza Cass. n. 13233 dell'11 giugno 2014, sez. III (in Danno e resp., 2014, 10, 912) si distingue per la dirompente portata e per le rilevanti implicazioni pratiche dei principi che afferma, potendo incidere in maniera rilevante sul modo di liquidare il danno alla persona e sugli stessi assetti causali, funzionali e financo commerciali delle coperture assicurative degli infortuni.

Mirando a tranciare il nodo di ogni titubanza interpretativa sulla natura di tali coperture, la sentenza muove dalle conclusioni a cui le Sezioni Unite erano pervenute, e dunque dall'assunto di dover individuare all'interno del medesimo tipo contrattuale due diverse categorie di rischio (riconducibili alla distinzione tra infortuni mortali e non mortali).

Ribadendo, perciò, che la garanzia infortuni, quando non comprende il rischio di morte, rientra tra le assicurazioni del ramo danni e rimane assoggettata al principio indennitario, la pronunzia compie un cospicuo “balzo in avanti”, affrontando il delicato problema relativo al concorso tra l'indennizzo dovuto in forza di contratto e l'eventuale diritto risarcitorio che l'assicurato potrebbe vantare nei confronti di terzi “responsabili”, ogni qualvolta l'infortunio (non mortale) sia loro ascrivibile. E lo risolve perentoriamente, affermando che il risarcimento del danno dovuto alla vittima di lesioni personali deve essere diminuito dell'importo da questa percepito a titolo di indennizzo da parte del proprio assicuratore privato contro gli infortuni (e viceversa). Così, più precisamente, si afferma che se «l'assicurazione contro gli infortuni non mortali è soggetta alla disciplina delle assicurazioni contro i danni, in caso di infortunio l'assicurato non potrà cumulare l'indennizzo dovuto per effetto di essa, con il risarcimento dovuto dal terzo responsabile dell'infortunio».

La motivazione del Giudice di legittimità, atteso il ristretto angolo visuale dell'impugnativa, avrebbe forse potuto fermarsi qui. Sennonché, assecondando un approccio critico a più largo respiro ed esigenze di analisi più acute, la pronuncia percepisce l'insufficienza di quel sillogismo, ben potendosi ipotizzare che il principio indennitario, quand'anche applicabile alla fattispecie disaminata, operi su di un piano meramente endoassicurativo e non postuli, sempre e comunque, un'efficacia esterna tale da condizionare le sorti del risarcimento del danno da parte dell'eventuale terzo responsabile. Al contrario il Giudice di legittimità si dichiara espressamente consapevole dell'esistenza di «un diverso orientamento […] secondo il quale […] il cumulo di indennizzo assicurativo e risarcimento del danno sarebbe possibile perché quando la vittima di un fatto illecito sia anche "assicurato" ai sensi dell'art. 1904 c.c., non opererebbe il principio della compensatio lucri cum damno».

Ed è per sgombrare il campo da tali suggestioni, e da ogni possibile equivoco, che la Cassazione allarga la propria motivazione cercando di giustificare in termini definitivi la regola del divieto del cumulo tra indennizzo e risarcimento. Divieto che, a detta della Corte, troverebbe conforto sia nelle norme sul contratto di assicurazione che in quelle sulla responsabilità civile e sul risarcimento del danno. Questi i punti salienti attorno ai quali gravita la pronunzia:

  • esaminando la questione sotto il profilo strettamente assicurativo, l'indennizzo non potrebbe cumularsi col risarcimento anzitutto perché, altrimenti, l'assicurato potrebbe avere un interesse positivo all'avverarsi del sinistro, trasformando l'assicurazione in una scommessa;
  • d'altra parte il cumulo farebbe perdere all'assicuratore il diritto di surrogazione, accordatogli dall'art. 1916 c.c. anche con specifico riferimento all'assicurazione contro gli infortuni; ed invero «la percezione del risarcimento integrale, da parte del danneggiato-creditore, estinguerebbe l'obbligazione del danneggiante-debitore [e] quando il danneggiato, prima di percepire l'indennizzo assicurativo, ottiene il risarcimento integrale da parte del responsabile, il risultato della liberazione dell'assicuratore dagli obblighi derivanti dal contratto di assicurazione si produce per effetto della norma che prevede la responsabilità dell'assicurato che arrechi pregiudizio al diritto dell'assicuratore (come già ritenuto da Cass., Sez. II, Sent. n. 2595 del 25 ottobre 1966, Rv. 325000)»;
  • il cumulo dell'indennizzo assicurativo con il risarcimento sarebbe poi impedito dalle stesse norme che disciplinano il risarcimento del danno: «se, infatti, fosse consentito tale cumulo, verrebbe violato il principio di integralità del risarcimento, in virtù del quale il danneggiato non può, dopo il risarcimento, trovarsi in una condizione patrimoniale più favorevole rispetto a quella in cui si trovava prima di restare vittima del fatto illecito». A ciò non osterebbe il fatto che qui non operi il principio della compensatio lucri cum damno, a causa della diversità dei titoli in base ai quali il danneggiato può vantare da un lato l'indennizzo, dall'altro il risarcimento: «la diversità formale dei titoli posti a fondamento della pretesa risarcitoria non può mai servire a superare il principio indennitario, come già ritenuto da tempo dalla dottrina»;
  • e neppure potrebbe ritenersi che il divieto di cumulo sia condizionato dal fatto che l'assicuratore privato della vittima abbia manifestato la volontà di surrogarsi nei diritti di quest'ultima verso il danneggiante. Non sarebbe, infatti, condivisibile quanto sostenuto da un altro orientamento di legittimità, secondo il quale la rinunzia dell'assicuratore ad esercitare il proprio diritto di surrogazione legittimerebbe l'assicurato ad agire per il risarcimento totale, «anche se ha riscosso l'indennizzo e senza che il responsabile possa opporgli l'avvenuta riscossione (Cass., sez. III, sent. n. 22883 del 6 dicembre 2004, Rv. 578304; Cass., sez. III, sent. n. 3544 del 23 febbraio 2004, Rv. 570390; Cass., sez. III, sent. n. 12101 del 19 agosto 2003, Rv. 565930)». A superare il (falso) sillogismo su cui tale orientamento si fonda si dovrebbe infatti considerare che la «surrogazione dell'assicuratore non interferisce in alcun modo con il problema dell'esistenza del danno […] abbia o non abbia l'assicuratore rinunciato alla surroga, non può essere risarcito il danno inesistente […] ed il danno indennizzato dall'assicuratore è un danno che ha cessato di esistere dal punto di vista giuridico». D'altra parte, osserva la Cassazione, la «surrogazione ex art. 1916 c.c. costituisce, secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente, una successione a titolo particolare dell'assicuratore nel diritto dell'assicurato. Orbene, perché il diritto si trasferisca, è necessario che esso sia perso dall'assicurato ed acquistato dall'assicuratore. Tuttavia l'estinzione del diritto al risarcimento in capo all'assicurato avviene per effetto del solo pagamento, non certo per effetto della surrogazione, la quale se mai è un effetto dell'estinzione e non la causa di essa». Così, la riscossione dell'indennizzo da parte del danneggiato eliderebbe in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estinguerebbe e non potrebbe essere più preteso, né azionato; ciò «a prescindere dalla circostanza che è stato a lungo ed è tuttora controverso se la surrogazione dell'assicuratore operi ipso iure o per effetto di una apposita denuntiatio».

In definitiva, il pagamento dell'indennizzo assicurativo eliderebbe, almeno pro quota, il danno ed estinguerebbe (o ridurrebbe proporzionalmente) il credito risarcitorio verso il terzo responsabile; del tutto simmetricamente il risarcimento civilistico di un dato danno farebbe venir meno l'obbligo dell'assicuratore di pagare il relativo indennizzo di polizza «per la semplice ragione che non v'è più alcun danno da indennizzare».


Interessante osservare come in chiusura di motivazione la sentenza in esame si premuri di osservare che i principi sopra declinati intanto possono essere applicati in quanto le poste di danno (indennizzato e risarcibile) siano omogenee; il che potrebbe non avvenire, ad esempio, ogni qualvolta la polizza copra voci di pregiudizio patrimoniale (spese mediche, perdita di guadagno...) ed il danno azionato in via risarcitoria nei confronti del responsabile attenga invece a profili non patrimoniali o biologici.

I possibili impatti pratici della sentenza

Nonostante la perentorietà della sentenza, non vi è dubbio che la prassi si sia sempre atteggiata in modo completamente diverso: nelle assicurazioni della responsabilità, la liquidazione del danno alla persona cagionato al terzo danneggiato, ove coperto, è del tutto abitualmente “indennizzato” secondo i parametri di contratto (o di Legge, nella Rc auto) senza portare a deconto le somme eventualmente percepite dall'infortunato in forza di proprie coperture assicurative. E ciò non solo, o non tanto, perché il dato relativo alla copertura privata infortuni non sia facilmente conoscibile da un'impresa assicurativa diversa da quella che si è assunta il relativo rischio, quanto per la latente convinzione che la differenza di titolo (risarcitorio e indennitario) non giustifichi alcuno scorporo tra le due posizioni di credito.

Si pensi, ad esempio, al settore della Rc auto, dove ben potrebbe accadere che una medesima compagnia si trovi a subire, dal medesimo soggetto, due diverse richieste di indennizzo/risarcimento in relazione a lesioni di lieve entità (inferiori al 9%): una in veste di impresa gestionaria ed in forza della procedura di indennizzo diretto e l'altra in qualità di assicuratore privato per la garanzia “infortuni del conducente”. Ebbene, in tali ipotesi, costituisce, ancora una volta, prassi consolidata la liquidazione congiunta delle due poste di credito (contrattuale ed aquiliana), senza alcuna defalcazione.

Ribaltando la prospettiva, si deve nuovamente osservare come la maggior parte dei modelli contrattuali in uso contemplano, all'interno delle condizioni generali delle coperture infortuni, una clausola di rinunzia preventiva dell'assicuratore al diritto di surrogazione di cui all'art. 1916 c.c. Ed in tal caso le imprese liquidano l'indennizzo dovuto all'assicurato in base al capitale indicato in polizza (e nei limiti previsti dal contratto) senza minimamente curarsi di eventuali richieste risarcitorie formulate dall'assicurato medesimo nei confronti dei terzi responsabili.

Ben si comprende, dunque, quanto incisivamente possano impattare, su tali consolidati assetti operativi, i principi espressi dalla sentenza n. 13233/2014, ispirata ad una visione assoluta ed anelastica della regola indennitaria, quale espressione di un principio di ordine pubblico che avrebbe forza espansiva inderogabile anche al di fuori dei rapporti “endoassicurativi”.

Più generalmente, lo stesso mercato delle coperture infortuni potrebbe subire un qualche contraccolpo, dal momento che l'utilità di buona parte di quelle garanzie (al di fuori delle coperture delle spese mediche da infortunio) viene oggi valutata, dal grande pubblico, in funzione del capitale assicurato/assicurabile e non dell'effettiva misura del danno patito.

Insomma, se quel che la Cassazione oggi sostiene finisse per consolidare il diritto vivente sul tema, ci troveremmo innanzi ad un vero e proprio ribaltamento del modo di assicurare gli infortuni e di liquidare i relativi sinistri nella prassi delle assicurazioni private.

Di qui la necessità di comprendere se quella così netta presa di posizione – ben sostenuta da una motivazione rotonda ed elegante - possa essere effettivamente, ed in toto, condivisa.

Considerazioni finali

Una piena comprensione della questione non può prescindere da una, pur sommaria, ricognizione del fenomeno. Orbene, dietro alla generica nozione di “assicurazione contro gli infortuni” è sottesa una serie affatto eterogenea di coperture, talvolta espressamente finalizzate a sollevare l'assicurato dalle spese di cura conseguenti ad un infortunio; tal'altra tese a ristorarlo da altri pregiudizi patrimoniali, quali la perdita di guadagno derivante da infortunio. Assai di frequente, poi, le polizze infortuni prevedono la generica erogazione di determinate somme al verificarsi dell'infortunio, da calcolarsi in funzione della gravità del danno subito ed alla misura del capitale assicurato indicato in polizza, ma senza alcun esplicito riferimento al concetto di danno biologico. Diremmo di più: l'espresso riferimento al danno biologico, quale funzione della garanzia assicurativa, è sostanzialmente sconosciuto alla prassi di mercato.

Il che induce più di un dubbio sull'opportunità di concentrare il dibattito su di una distinzione - quella tra infortuni mortali ed infortuni non mortali - che non pare affatto esaustiva e nemmeno risolutiva ai nostri fini. Riteniamo, al contrario, che tale distinzione non meriti particolare ribalta, ed anzi cada con le stesse premesse su cui si fonda: ben potrebbe ipotizzarsi - giova ribadirlo - che un infortunio mortale dia luogo non solo ad esigenze previdenziali (tipiche del comparto delle assicurazioni sulla vita) ma anche ad un danno risarcibile, trattato come tale e quindi assicurato per la sua componente indennitaria; si ipotizzi, al riguardo, la possibilità di un esplicito (anche se niente affatto frequente) richiamo in polizza all'indennizzo del danno da perdita del rapporto parentale/affettivo in capo all'eventuale beneficiario della prestazione. Di più: la potenziale cifra risarcitoria (e quindi indennitaria) dell'infortunio mortale potrebbe oggi, a maggior ragione, essere valorizzata, in funzione delle nuove tendenze evolutive della giurisprudenza di legittimità in materia di danno tanatologico (Cass., 23 gennaio 2014, n. 1361) (v. Danno da morte: la Cassazione ci ripensa, in Ri.Da.Re.).

È, dunque, necessario soffermarsi ancora una volta, e con maggiore attenzione, sul tema della natura della polizza infortuni, rifuggendo dalla tentazione di accettare acriticamente - come invece ha fatto la pronunzia in commento - le conclusioni a cui erano già pervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte nella storica sentenza Cass. n. 5119 del 2002. Al riguardo occorrerà dunque ribadire come buona parte delle soluzioni di garanzia, pur facendo riferimento a determinati baremes medico legali e quindi richiamando il concetto di invalidità permanente, quantifichino gli indennizzi in funzione del capitale assicurato, senza alcuna pretesa di ancorare il valore della prestazione assicurativa alla valutazione civilistica del danno biologico. Ben al contrario, l'ammontare di quel capitale, liberamente stabilito dalle parti, risulta talvolta tanto elevato da non consentire, in sede di pagamento dell'indennizzo, alcun ragguaglio ai parametri tabellari in uso presso le Corti. Non pare, poi, comunque sostenibile che l'ordinaria strutturazione delle polizze infortuni sia (sempre e comunque) ritagliata attorno al concetto di danno risarcibile, attesa l'assoluta vaghezza di buona parte delle formulazioni contrattuali e, soprattutto, della libera determinazione del capitale assicurato; un capitale la cui misura è stabilita dalle parti avendo in animo, per lo più:

  • quanto all'assicurato, di conseguire, al verificarsi di un determinato evento sfavorevole, una prestazione in danaro allineata alle proprie aspettative di ristoro (che non coincidono necessariamente, per eccesso o per difetto, con la misura del danno civilistico,
  • quanto all'assicuratore, di assumere un rischio che non sia eccessivo e che sia perciò sostenibile, in funzione del premio richiesto e, soprattutto, dell'insieme dei rischi mutualizzati.

Certo, in taluni casi la componente indennitaria risulta invece perfettamente (ed esplicitamente) individuata nel contratto: ci riferiamo per lo più ad una copertura infortuni che preveda la copertura delle spese mediche, vuoi sotto forma di rimborso, vuoi attraverso l'erogazione diretta, attraverso strutture convenzionate, delle prestazioni di cura. Qui non possono sussistere dubbi circa la riconduzione del contratto entro l'alveo del ramo danni.

Che si tratti di due modelli operativi e negoziali tra loro del tutto diversi, pur nominalmente ricondotti alla medesima nozione di infortunio, pare, dunque, dato difficilmente refutabile, anche alla luce del fatto che nelle condizioni generali di contratto del primo tipo (quelle imbastite attorno al valore convenzionale del capitale assicurato) è del tutto usuale incontrare una deroga espressa agli artt. 1910 e 1916 c.c. (a quelle norme, cioè, che costituirebbero, secondo i più, espressione certa del principio indennitario). Deroga che invece – di regola - manca nelle polizze delle coperture aventi ad oggetto la copertura delle spese mediche. Sembra dunque potersi concludere che la scelta di ricondurre a tout prix la polizza infortuni nell'ambito delle garanzie danni (e quindi di applicare alla stessa tutte le regole proprie di quel comparto) sia quanto meno opinabile. Al contrario ci sentiremmo di rimarcare la necessità di privilegiare un approccio che non escluda, ed anzi apprezzi, la possibilità di diversamente inquadrare le assicurazioni infortuni (e le assicurazioni della persona in genere) nel loro poliformismo causale. Distinguendole, dunque, a seconda delle finalità effettivamente perseguite dalle parti, in ossequio a scopi che possono essere tanto indennitari quanto previdenziali. Tali scopi saranno rivelati, di volta in volta, dalla stessa imbastitura contrattuale, la quale, a seconda dei casi, potrebbe collegare ad infortuni del medesimo tipo prestazioni “para-risarcitorie” (in quanto mirate al ristoro dei pregiudizi effettivamente patiti ed ancorate ai concetti di danno biologico, non patrimoniale o patrimoniale) ovvero “para-previdenziali” (perché volte a soddisfare esigenze di risparmio e di provvista correlate al verificarsi di eventi infortunistici).

Ed invero, privilegiare, o comunque, non annichilire la causa previdenziale (o, comunque, non risarcitoria ….) che assiste - almeno di fatto e nelle comuni intenzioni delle parti del rapporto assicurativo - la maggior parte delle polizze infortuni basate su di un dato capitale assicurato significa aprirsi alle esigenze dei tempi, e prendere atto di quanto lo strumento assicurativo sia chiamato a “fare”, nei moderni scenari di crisi dei sistemi di welfare pubblico.

Ove, peraltro, non si volesse obliterare le conclusioni a cui la Cassazione è pervenuta (circa la pacifica applicabilità del principio indennitario agli infortuni non mortali), si potrebbe comunque tentare di salvaguardare gli attuali assetti contrattuali proposti nella prassi provando a superare le strettoie poste dalla lettura più rigorosa del principio indennitario.

Si tratterebbe, dunque, di analizzare criticamente la tesi secondo la quale, una volta ricondotto al ramo danni, un contratto assicurativo non possa sottrarsi all'inderogabile operatività della regola indennitaria, quale principio di ordine pubblico.

Vi è da chiedersi, invero, se la portata oggettiva del principio indennitario possa considerarsi in termini più elastici e meno fideistici di quanto solitamente avviene.

Del resto, al di là di quanto dogmaticamente si suole affermare a proposito del fatto che il principio indennitario sia di interesse generale [Moliterni, in G. Volpe Putzolu (a cura di), 67] ed infiltri l'intero settore delle assicurazioni danni non può non osservarsi come, in realtà, la regola del necessario contenimento dell'indennizzo entro i limiti del risarcimento trovi autentica espressione nello stesso impianto legislativo, per lo più nei casi in cui sia possibile correlare in termini oggettivi, da un lato, il valore assicurato ad un valore massimo assicurabile e, dall'altro, l'ammontare dell'indennizzo al valore della cosa assicurata al tempo del sinistro (gli artt. 1908 e 1909 c.c., del resto, si riferiscono espressamente alla nozione di “cosa”). Si tratta, insomma, di una regola che sembra poter operare perfettamente nelle così dette assicurazioni di cose, nell'ambito delle quali, peraltro, soltanto l'art. 1909 c.c. pone, per il caso di dolo, una sanzione di nullità del contratto.

D'altra parte, nessuna tra le norme sopra richiamate, per quanto ritenute veri e propri presidi indennitari, rientrano tra quelle dichiarate espressamente inderogabili dall'art. 1932 c.c.

Potrebbe, di poi, indagarsi circa la possibilità di offrire, del principio indennitario, una lettura meno rigida di quella proposta dalla sentenza in commento, attribuendogli una portata sostanzialmente endoassicurativa, esaurendosi all'interno del rapporto tra l'assicurato e l'impresa e consentendo, invece di derogarvi nel concorso della responsabilità civile di un terzo, per effetto della rinunzia al diritto di surrogazione di cui all'art. 1916 c.c..

Al riguardo, tra i vari spunti di possibile riflessione, segnaleremmo anche la previsione dell'art. 1589 c.c., in materia di incendio di cosa assicurata. Tale norma, nella parte in cui sancisce la liberazione del conduttore dall'obbligo risarcitorio verso il proprietario (ma non verso l'assicuratore che agisca in via di surrogazione, laddove non vi abbia rinunciato), fa sì che il proprietario, una volta indennizzato dall'impresa assicurativa, non possa agire nei confronti del conduttore, se non per l'eventuale differenza non coperta dall'indennizzo.

Ciò sembrerebbe confermare, almeno a prima vista, la tesi sostenuta dalla Suprema Corte .

Sennonché, anche in questo caso, una diversa chiave di lettura potrebbe essere offerta: ed invero, se quella previsione fosse effetto naturale del principio indennitario, vi è da chiedersi per quale ragione il legislatore abbia sentito l'esigenza di doverla formalizzare. Si potrebbe, dunque, sostenere che quel divieto assoluto di cumulo in capo al proprietario (ed a favore del conduttore, quale parte debole del rapporto locatizio) – teso a non vanificare gli effetti di una polizza che copre, dunque, sia pur indirettamente anche gli interessi del conduttore medesimo – non sia espressione di una regola generale ma valga solo in questo particolare contesto, quale eccezione ad un sistema che invece lo ammetterebbe.

E si osservi, peraltro, come il dato testuale della norma ponga il divieto di cumulo a favore del solo conduttore, e non invece dell'assicuratore, nel caso in cui il secondo intervenga dopo che il primo abbia spontaneamente provveduto a riparare i danni provocati dall'incendio.

In questo senso, del resto si è espressa la stessa Cassazione (Cass., sez. III, 22 aprile 1997, n. 3470): «nell'ipotesi di immobile danneggiato da incendio, l'assicuratore non può evitare il pagamento opponendo all'assicurato (proprietario dell'immobile) l'avvenuto risarcimento in forma specifica da parte del conduttore - presunto responsabile ex art. 1588 c.c. - che abbia provveduto alle necessarie riparazioni, non potendo dedurre situazioni giuridiche estranee al rapporto assicurativo, relative a soggetti che non sono parti in causa ed a pretese di rimborso (del conduttore nei confronti del locatore) e di rivalsa (dell'assicuratore nei confronti del responsabile) che sono meramente eventuali e in ogni caso non formano oggetto di giudizio».

Rimane il fatto che i difficili incroci tra risarcimento ed indennizzo si ripropongono qui in tutta la loro complessità, anche in relazione al rapporto tra proprietario e conduttore, con specifico riferimento agli effetti dell'eventuale copertura assicurativa stipulata sull'immobile dal secondo a favore del primo ma anche per soddisfare un interesse proprio (ragion per la quale la garanzia sarà usualmente prestata con rinunzia al diritto di surrogazione).

Il tema è estremamente delicato e richiede una trattazione specifica, anche a prescindere dalle disquisizioni sulla natura della polizza infortuni e sulle implicazioni dell'eventuale applicazione, a quel contratto, della regola indennitaria.

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