Il danno morale nella rc auto (dopo la sentenza n. 11851/2015)

Maurizio Hazan
04 Febbraio 2016

Indagando, dapprima in termini generali, il rapporto tra danno biologico, danno esistenziale e danno morale la Cassazione afferma l'autonomia sostanziale di quelle poste, ciascuna riferita ad aspetti sofferenziali tra loro distinti e ben individuati. Passando poi ad occuparsi, più nello specifico, della disciplina del Codice delle Assicurazioni, la Corte fornisce una lettura sistematica degli artt. 138 e 139 Cod. Ass. marcando i differenti criteri di personalizzazione rispettivamente stabiliti per le lesioni di non lieve entità e per quelle contenute entro il 9%.
Danno biologico, esistenziale e morale

Cercando di chiudere il cerchio aperto da una recente serie di pronunce conformi (Cass., 12 dicembre 2008, n. 29191; Cass., 20 novembre 2011, n. 20292; Cass., 3 ottobre 2013, n. 22585), tutte stese dal medesimo relatore (Cons. Giacomo Travaglino), la terza sezione della Suprema Corte torna, con la sentenza in commento (Cass., sez. III, sent., 9 giugno 2015, n. 11851), sul tema del rapporto (di continenza o di semplice correlazione) tra danno biologico, danno esistenziale e danno morale. E lo fa, da un lato, ribattendo pedissequamente argomenti già elaborati in alcuni dei propri omogenei precedenti; dall'altro aggiornando il proprio pensiero, nella necessità di coordinarlo con le ineludibili indicazioni rese dalla pronuncia C. cost, 16 ottobre 2014 n. 235. Una pronuncia già passata alla storia per aver sdoganato, dopo anni di incertezze, l'art. 139 Cod. Ass. (v. A. Barletta, Micropermanenti e delimitazione del risarcimento dopo la pronuncia della Consulta n. 235/2014: regime transitorio e non solo, in Ri.Da.Re.; M. Bona, Corte costituzionale n. 235/2014: cestinatela!, in Ri.Da.Re.; M. Hazan, La Consulta e il danno alla persona nella r.c. auto: così è e così pare, in Ri.Da.Re.; V. Cuocci, La tutela risarcitoria del danneggiato nell'assicurazione obbligatoria r.c. auto: alla ricerca di un equilibrio tra integrale riparazione del danno e riduzione dei premi assicurativi, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 2, I, 180; A. Frigerio, La legittimità costituzionale dell'art. 139 cod. ass., in Danno e Responsabilità, 2014, 11, 1024; M. Rossetti, Micropermanenti: fine della storia, in Corr. giur., 2014, 12, 1486; D. Spera, Riverberi sulla tabella milanese della pronuncia costituzionale sull'art. 139 Cod. Ass., in Ri.Da.Re.).

Proprio perchéa la page” e coordinata con gli ultimi approdi della giurisprudenza costituzionale, la sentenza n. 11851/2015 assume dunque una indiscutibile rilevanza storica e prospettica.

Il quadro che se ne ricava può sin da subito, e con massima sintesi, così riassumersi:

  1. per le lesioni di lieve entità da sinistro stradale le componenti di danno morale od esistenziale, autonomamente valorizzabili rispetto al danno biologico “standard”, possono essere oggetto di separata liquidazione – se e in quanto provate – entro il tetto massimo di personalizzazione (20%) previsto dall'art. 139 Cod. Ass., e non oltre;
  2. per le lesioni di non lieve entità (superiori al 9%) da sinistro stradale, il limite massimo di personalizzazione (30%) previsto dall'art. 138 Cod. Ass. riguarda le sole componenti di danno di tipo dinamico relazionale; non invece quelle di danno morale le quali, ove esistenti e provate, possono essere oggetto di autonoma valorizzazione aggiuntiva.

Dietro alla apparente linearità di tali conclusioni, la sentenza, lascia tuttavia scoperte alcune aree nevralgiche; di più: pur professando la propria aderenza ai principi sanciti dalle sentenze gemelle del 2008 (Cass., Sez.Un., 8 novembre 2008, nn. 26972-26973-26974-26975) finisce, in realtà, per discostarsene, sino a rigenerare quel danno esistenziale che le Sezioni Unite avevano invece annichilito.

Nell'esaminarla avremo dunque cura di sezionarne i contenuti, separando i temi meramente riproposti, in quanto attinti letteralmente dai precedenti conformi, da quelli invece innovativi, perché calati ed armonizzati nel contesto sistematico disegnato, senza incertezze, dalla Consulta. In chiusura avremo invece modo di toccare le perduranti aree di dubbio, evidenziando inoltre come, a parere di chi scrive, le conclusioni a cui perviene la Cassazione, pur certamente fini, continuino a lasciare aperta anche la questione, ben più sostanziale, afferente all'individuazione in concreto del danno morale, allorquando lo stesso sia conseguenza di un danno biologico (cioè di un pregiudizio intrinsecamente sofferenziale - psicofisico e dinamico relazionale - e, in quanto tale, non agevolmente distinguibile da diversi ed ulteriori turbamenti morali ed esistenziali).

Procediamo, dunque, con ordine.

Una riedizione del tema: l'autonomia ontologica del danno morale (e di quello esistenziale)

Riprendendo taluni precedenti conformi, la sentenza n. 1185/2015 torna su antichi temi, rimarcando fortemente come la netta separazione, concettuale e funzionale tra danno biologico, morale e danno derivante dalla lesione di altri interessi costituzionalmente protetti (recte: danno esistenziale) costituisca ancora, nel terzo millennio, l'architrave attorno alla quale deve fondarsi lo statuto del danno non patrimoniale.

Tale separazione, nonostante alcune distorte interpretazioni dottrinali, troverebbe sostegno in un «indiscusso e indiscutibile formante giurisprudenziale di un altrettanto indiscutibile "diritto vivente"», mai messo in discussione neppure dalle note sentenze gemelle.

Al riguardo, ciò che la Cassazione vuol anzitutto ribadire è che la proclamata concezione unitaria del danno non patrimoniale non varrebbe ad espungere dal sistema il danno morale, la cui ontologica ed autonoma risarcibilità emergerebbe in termini irrefutabili in tutti i casi in cui il diritto leso sia «altro dal diritto alla salute.

Se tale presa di posizione può ritenersi senz'altro condivisibile, non essendo revocabile in dubbio che determinate fattispecie (al “netto” di eventuali lesioni alla salute) reclamino il pieno risarcimento di pregiudizi morali o stricto sensu esistenziali (ingiuria, diffamazione, od altre casistiche in cui si ravvisi la lesione dell'onore e della dignità personale), assai più problematiche risultano le argomentazioni con cui la Suprema Corte, riportando per stralcio i passi delle proprie precedenti pronunzie, torna ad occuparsi dei danni alla persona della circolazione stradale, esaminando nello specifico la tematica afferente alla portata oggettiva degli artt. 138 e 139 Cod. Ass. e dei limiti di personalizzazione (30% e 20%) dagli stessi rispettivamente previsti.

Trattasi di argomento certamente delicato, se è vero, come è vero, che sulla possibilità, o meno, di liquidare poste di danno non patrimoniale (morale) aggiuntive rispetto a quei limiti, si registrava, da tempo, un sostanziale contrasto di opinioni proprio in seno alla stessa Sezione Terza della Cassazione: da un lato, si era infatti, sostenuto che, almeno per le lesioni di lieve entità, il tetto imposto dal legislatore non potesse mai essere superato, quali che fossero le componenti soggettive di pregiudizio (morali od esistenziali) che potessero evidenziarsi personalizzando il danno biologico “standard” (Cass., 7 giugno 2011, n. 12408; v. M. Hazan, L'equa riparazione del danno (tra r.c. auto e diritto comune), in Danno e Responsabilità, 2011, 946). Dall'altro si poneva il filone seguito dall'estensore della sentenza in commento, teso invece a reclamare la piena libertà, per il Giudice, di valorizzare il danno morale in via autonoma ed aggiuntiva al biologico, e quindi al di fuori delle strettoie codicistiche (v. Cass., ord. 17 settembre 2010, n. 19816 in cui però la Suprema corte si occupava di un comportamento illecito che presentava oggettivamente gli estremi di una fattispecie di reato).

Ora, le tesi sviluppate a sostegno di questo secondo filone, già riportate “in fotocopia” in numerose altre sentenze tutte riconducibili alla stessa mano, vengono ancora una volta riproposte, nella sentenza n. 11851/2015 (quasi a voler consolidare - “per ripetizione” e in guisa di mantra - il definitivo e rotondo fondamento di una teoria che viene presentata come non altrimenti refutabile).

Così si legge, ancora una volta che «le norme di cui agli articoli 138 e 139 Cod. Ass. (D.Lgs. n. 209/2005) non avrebbero giammai consentito una lettura diversa da quella che predicava la separazione tra i criteri di liquidazione del danno biologico in esse codificati e quelli funzionali al riconoscimento del danno morale: in altri termini, la "non continenza", non soltanto ontologica, nel sintagma "danno biologico" del danno morale».

A differenza del danno esistenzialericompreso nella nozione di danno biologico proposta dagli artt. 138 e 139 Cod. Ass. - il danno morale si configurerebbe ex se, quale posta di pregiudizio autonoma e diversa rispetto al danno alla salute, in quanto tale separatamente risarcibile, se e in quanto allegata e provata.

Del resto, a dimostrazione della sopravvivenza del danno morale, anche in aggiunta al danno alla salute, si sarebbe posto, secondo la Corte, un preciso orientamento legislativo, espresso dall'emanazione del D.P.R. n. 37/2009, e del D.P.R. n. 181/2009; disposizioni, tali ultime, che avrebbero «inequivocamente resa manifesta la volontà del legislatore di distinguere, morfologicamente prima ancora che funzionalmente […] tra la voce di danno c.d. biologico da un canto, e la voce di danno morale dall'altro».

Una volta affermata la necessità di considerare il danno morale nella sua piena ed autonoma risarcibilità, in affiancamento al danno biologico od in assenza dello stesso (ma pur sempre in presenza della lesione di un diritto costituzionalmente garantito), la Suprema Corte riprende quanto già in altre occasioni argomentato nel tentativo di descrivere cosa possa intendersi, in concreto, per danno morale: soltanto comprendendone l'essenza, tale posta di danno potrebbe, invero, utilmente distinguersi dal danno alla salute, specie quando entrambe le voci derivino da una medesima lesione fisica.

Così, scendendo su di un piano meno teorico, la Cassazione torna a far leva su di un esempio (di indiscutibile suggestività ed efficacia evocativa) utile ad individuare un danno morale soggettivo (da sofferenza interiore) ed un possibile danno "dinamico-relazionale; è il caso della «rottura, da parte di un terzo, di un dente destinato di lì a poco ad essere estirpato dal (costoso) dentista». Ipotesi questa che integrerebbe un danno non patrimoniale di tipo moral/esistenziale pur in assenza di lesione “medicalmente accertabile” e , dunque, di «lesione risarcibile, poiché nessuna conseguenza dannosa (anzi), sul piano della salute, appare nella specie legittimamente predicabile».

Cercando poi di porre in risalto i momenti essenziali della sofferenza dell'individuo, la pronunzia fa rinvio al disposto dell'art. 612-bis c.p., che, sotto la rubrica "Atti persecutori", dispone che sia «punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita». Nel riferimento penalistico la Cassazione individua, dunque, gli elementi strutturali del danno morale e del danno esistenziale, vale a dire il “dolore interiore” (lì espresso in termini di ansia, timore e paura) e la “significativa alterazione della vita quotidiana”.

Un quadro aggiornato: il danno morale nella Rc auto dopo la sentenza della Consulta n. 235/2014

Sin qui ripercorsi i passaggi motivazionali che, già spesi in precedenti arresti, hanno fondato la teoria della sopravvivenza della perfetta autonomia del danno moral/esistenziale, anche in caso di lesioni fisiche della Rc auto, la terza sezione della Cassazione sente, giustamente, il bisogno di fare un passo avanti.

Si tratta, evidentemente, di verificare se quella teoria possa continuare a reggere dopo la sentenza (n. 235/2014) con cui la Corte Costituzionale ha sancito la piena e perfetta legittimità dell'art. 139 Cod. Ass., anche nella parte in cui limita la personalizzazione del danno biologico entro il tetto del 20%, senza possibilità di liquidare ulteriori poste extravaganti, siano esse morali od esistenziali.

In quella pronuncia, come già poc'anzi ricordato, la Consulta aveva preso in espressa considerazione, respingendola, la censura evocata dai rimettenti a proposito del limite dell'art. 139 Cod. Ass., che non consentirebbe ab imis la liquidazione del danno morale. Ed al riguardo il Giudice delle leggi ha affermato che la questione non è fondata per erroneità della sua premessa interpretativa: «È pur vero, infatti, che l'art. 139 Cod. Ass. fa testualmente riferimento al “danno biologico” e non fa menzione anche del “danno morale”. Ma, con la sentenza n. 26972/2008, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno ben chiarito (nel quadro, per altro, proprio della definizione del danno biologico recata dal comma 2 del medesimo art. 139 cod. ass.) come il cosiddetto “danno morale” − e cioè la sofferenza personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente) del danno non patrimoniale, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato − «rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente». La norma denunciata non è, quindi, chiusa, come paventano i rimettenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell'ammontare del danno biologico, secondo la previsione, e nei limiti, di cui alla disposizione del citato comma 3».

Non si poneva, perciò, la questione dell'esclusione del danno morale, né quindi quella dell'eliminazione di un diritto risarcitorio connesso alla violazione di un diritto fondamentale della persona. Il vero tema riguardava la misura di quel (comunque riconosciuto, in termini teorici) diritto risarcitorio e la legittimità, o meno, della limitazione legislativa entro il tetto del 20%. E sul punto la Consulta non ha avuto dubbi, avendo chiarito come il controllo di costituzionalità del meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico introdotto dall'art. 139 Cod Ass. – per il profilo del prospettato vulnus al diritto all'integralità del risarcimento del danno alla persona – dovesse essere «condotto non già assumendo quel diritto come valore assoluto e intangibile, bensì verificando la ragionevolezza del suo bilanciamento con altri valori, che sia eventualmente alla base della disciplina censurata». Bilanciamento che, sempre secondo la Corte Costituzionale, poteva ritenersi perfettamente realizzato nel sistema obbligatoriamente assicurato della Rc auto. Un sistema «in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, e nel quale l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi».

L'aver dato semaforo verde all'art. 139 Cod. Ass. non significava, dunque, come da taluni pretestuosamente sostenuto, che il danno morale non potesse essere valorizzato in aggiunta ad un danno biologico (di lieve entità) derivante da un sinistro della circolazione stradale. Ben al contrario, il danno morale, continuava a poter essere considerato ai fini della complessiva liquidazione del danno non patrimoniale: il tutto, però, soltanto entro il limite (del 20% al potere di personalizzazione da parte del giudice) stabilito dall'art. 139, comma 3, Cod. Ass..

La fermezza di tali conclusioni non poteva, all'evidenza, non esser presa in considerazione dall'estensore della sentenza in commento, il cui precedente argomentare doveva, in qualche modo (e conseguentemente) , essere aggiornato e parzialmente rivisto.

Ed invero, nella parte in cui confermava (in consonanza con l'analoga posizione sostenuta dalla Corte di Giustizia - CGUE, sent., 23 gennaio 2014, C-371/12) che il danno morale non fosse affatto espunto dal sistema della RC auto, almeno a livello di principio, la Consulta finiva per avallare l'orientamento in tal senso espresso dalla Cassazione. Orientamento, invece, contraddetto quanto ai criteri di liquidazione di quel danno, da contenersi comunque entro il limite insuperabile imposto dal legislatore, per le lesioni lievi, dall'art. 139 Cod. Ass.. Rimaneva da comprendere se, e in che termini, per le lesioni di più grave entità valesse il medesimo limite oppure il giudice fosse libero di valorizzare, a briglie sciolte (nei limiti di quanto provato) il danno morale, senza sottoporsi al limite di personalizzazione previsto dall'art. 138 Cod. Ass..

Su tali questioni, la motivazione svolta dalla Corte è ampia, chiara e condivisibile, a livello di principio. Passiamone in rassegna i punti cardinali.

Danno morale e lesioni lievi

Con bella perentorietà, si prende anzitutto atto del fatto che la posizione espressa dalla Consulta non si presta a letture equivoche:

«Viene così definitivamente sconfessata, al massimo livello interpretativo, la tesi predicativa della "unicità del danno biologico", qual sorta di primo motore immobile del sistema risarcitorio, Leviatano insaziabile di qualsivoglia voce di danno.

Anche all'interno del micro-sistema delle micro-permanenti, resta ferma (né avrebbe potuto essere altrimenti, non potendo le sovrastrutture giuridiche ottusamente sovrapporsi alla fenomenologia della sofferenza) la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto» (Alinea 3.2.)

Si prende, dipoi, atto del fatto che la Corte Costituzionale, pur confermando l'ontologica distinzione tra componenti di danno morale e componenti di danno biologico, ha avallato la disciplina di cui all'art. 139 Cod. Ass., nella parte in cui pone un limite insuperabile alla liquidazione del primo; liquidazione da effettuarsi nel rispetto del “meccanismo standard di quantificazione del danno” normativamente previsto, e quindi entro il tetto del 20% stabilito dalla norma.

Non risulta, perciò, più predicabile una liquidazione del danno morale aggiuntiva rispetto alla quantificazione del biologico standard, se non nel limite della personalizzazione di legge e mai oltre a quella.

Il quadro, per le micropermanenti e, più in generale, per le lesioni di lieve entità può ritenersi, dunque, modellato in termini definitivi.

Quid iuris, invece, per i danni più gravi, e superiori al 9%?

Danno morale e lesioni gravi

Avevamo già avuto modo di osservare - M. Hazan, in Assicurazioni private (a cura di M. Hazan – S. Taurini), 2015, 1059 e ss. - come la logica di “sistema”, e il principio dell'equo e solidale contemperamento di interessi che sostiene l'art. 139 Cod. Ass., sia stato affermato dalla Consulta proprio con riferimento al solo specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica in relazione ai primi (nove) gradi della tabella. Ma non sembra farlo soltanto perché quella è la norma sottoposta al suo vaglio. Al contrario, la motivazione della Consulta segna un confine strutturale, ed una netta cesura “ideologica”, tra i diversi campi di inferenza dell'art 139 Cod. Ass., dedicato alle lesioni lievi, e dell'art. 138 Cod. Ass., che si occupa invece dei casi più gravi. Può forse allora ritenersi che a partire dal decimo grado, ed a salire, quelle esigenze sistematiche (di solidale tolleranza e di contenimento dei premi assicurativi), vengano meno? E che quindi l'art. 138 Cod. Ass. (la cui diversa formulazione letterale rispetto al 139, quanto ai criteri di personalizzazione, giustifica il dubbio) consenta al giudice di sottrarsi a qualsiasi limite o, comunque, di liquidare eventuali poste di danno morale in aggiunta, e non entro, i limiti di personalizzazione stabiliti dalla norma?

A tali interrogativi la Cassazione fornisce risposta affermativa, assumendo che per le lesioni più gravi – e cioè per tutti i casi in cui le conseguenze non patrimoniali e sofferenziali possono, all'evidenza, essere esponenzialmente maggiori – la logica del contemperamento di interessi non possa più reggere, tornando di prepotenza a prevalere l'esigenza di tutela del danneggiato e della piena realizzazione dei suoi diritti risarcitori.

A sostenere tale idea vi è, innanzitutto, una lettura a contrario della motivazione svolta dalla Consulta, che non casualmente marca l'ambito di applicazione e la ratio legis che connotano l'art. 139 Cod. Ass. e la limitazione da tal norma presupposta.

Ma, soprattutto, vi è una rilettura comparata, testuale, e semanticamente orientata del letterale disposto degli artt. 138 e 139 Cod. Ass.. Due norme la cui contiguità “geografica” all'interno del Codice delle assicurazioni avrebbe potuto, forse, balzar prima agli occhi degli interpreti, facendo emergere la (non poi così sottile) distinzione terminologica adottata dal legislatore nel disciplinare, rispettivamente, i criteri di personalizzazione del danno biologico standard (M. Hazan, La Consulta e il danno alla persona nella r.c. auto: così è e così pare, in Ri.Da.Re.).

Su tali basi ecco dunque imbastirsi, nella sentenza in commento, lo statuto del danno non patrimoniale di non lieve entità nella Rc auto: «L'art. 138, dopo aver definito, alla lettera a) del comma 2, il danno biologico in maniera del tutto identica a quella di cui all'articolo successivo, precisa poi, al comma 3, che "qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, [...] l'ammontare del danno può essere aumentato dal giudice sino al trenta per cento con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato».Nell'art. 138 Cod. Ass., si legge ancora nella sentenza «l'equo apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato è funzione necessaria ed esclusiva della rilevante incidenza della menomazione sugli aspetti dinamico relazionali personali» non invece del danno morale. Il che confermerebbe «la doppia dimensione fenomenologica del danno, quella di tipo relazionale, oggetto espresso della previsione legislativa in aumento, e quella di natura interiore, da quella stessa norma, invece, evidentemente non codificata e non considerata, lasciando così libero il giudice di quantificarla nell'an e nel quantum con ulteriore, equo apprezzamento».

In altri e più semplici termini: nel personalizzare il danno ai sensi dell'art. 138 Cod. Ass. il Giudice potrà considerare solo fattori soggettivi inerenti alla sfera dinamico relazionale del danneggiato, liquidando, se del caso, entro il limite del 30% soltanto le componenti del danno esistenziale. Non invece il danno morale che, neppure considerato dall'art. 138, sarebbe rimesso alla libera valutazione del giudice, ben potendo esser liquidato in aggiunta al (e non entro il…) binomio biologico/esistenziale disegnato dal combinato disposto del primo e del terzo comma della norma di riferimento: «se le tabelle del danno biologico offrono un indice standard di liquidazione, l'eventuale aumento percentuale sino al 30% sarà funzione della dimostrata peculiarità del caso concreto in relazione al vulnus arrecato alla vita di relazione del soggetto. Altra e diversa indagine andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza inferiore. Senza che alcun automatismo risarcitorio sia peraltro predicabile».

Sullo sfondo, naturalmente, una amara, ma inevitabile, considerazione fattuale: ciò di cui oggi si discute sfiora il limite della mera disquisizione teorica, dal momento che l'art. 138, a dieci anni dalla sua entrata in vigore, risulta ancora privo di attuazione, in assenza delle relative tabelle. Ed ancora vien da chiedersi: il libero potere di valutazione del danno morale in aggiunta al biologico potrebbe addirittura spingersi tanto in là da superare i valori espressi, per uguali pregiudizi, dalle tabelle milanesi, oggi assurte a parametro di riferimento dell'equità risarictoria?

Considerazioni prospettiche: il progetto di riforma degli artt. 138 e 139 nel DDL “Concorrenza”

Quasi a voler ulteriormente corroborare la bontà delle conclusioni alle quali perviene, la sentenza in commento fa riferimento ad un progetto di riforma dell'art. 2059 c.c., il quale prevederebbe, testualmente, che il risarcimento del danno non patrimoniale – possibile qualora il fatto illecito abbia leso interessi o valori della persona costituzionalmente tutelati – comprenda sia la sofferenza morale interiore sia l'alterazione dei precedenti aspetti dinamico-relazionali della vita del soggetto leso.

In verità, volendo seguire traiettorie prospettiche meno avveniristiche, vi è un altro e diverso disegno di legge che, mentre stiamo scrivendo, sta andandosi a formare, recependo in buona parte – almeno in apparenza - le indicazioni fatte proprie dalla sent. n. 11851.

Lo stato attuale del dibattito parlamentare, ancora incerto e costellato da rimpalli, emendamenti e critiche, non autorizza particolari slanci in avanti. Merita, tuttavia, sin d'ora di esser rilevato come il testo (approvato alla Camera il 7 ottobre 2015 ed ora sottoposto all'esame del Senato) sembri davvero aver tratto massima linfa dalla linea argomentativa seguita dalla pronuncia in parola; in questo senso va considerata la netta differenziazione testuale e sostanziale degli artt. 138 e 139 Cod. Ass.: viene, invero, previsto, per le lesioni lievi, un principio di onnicomprensività liquidativa che, invece, non si ritrova per quelle eccedenti il 9%. Per quest'ultima categoria di danni la posta di danno morale troverebbe autonoma collocazione, a fianco del biologico ed indipendentemente da una successiva eventuale personalizzazione, resa sempre possibile in funzione della possibilità di valorizzare peculiari componenti dinamico/relazionali. Il condizionale è d'obbligo, atteso il precario – e niente affatto lineare – impianto espositivo del disegno di legge (v. art. 8, comma 1, del DDL “Concorrenza” – C. 3012).

“Vita di relazione e sofferenza interiore”, ovvero la “nuova vita” del danno esistenziale, a fianco del morale

Didascalica e, al contempo, altisonante la Suprema Corte conchiude il suo percorso affermando che «Ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Carta costituzionale si caratterizza, pertanto, per la sua doppia dimensione del danno relazione/proiezione esterna dell'essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza».

E ancora: «sarà dunque compito del giudice chiamato a valutare dell'uno e dell'altro aspetto di tale sofferenza procedere ad una riparazione che, caso per caso, nella unicità e irripetibilità di ciascuno delle vicende umane che si presentano dinanzi a lui, risulti da un canto equa, dall'altro consonante con quanto realmente patito dal soggetto - pur nella inevitabile consapevolezza della miserevole incongruità dello strumento risarcitorio a fronte del dolore dell'uomo, che dovrà rassegnarsi a veder trasformato quel dolore in denaro».

Etica ed estetica sostengono – di certo e con eleganza – la presa d'atto della difficoltà di coniugare il giusto risarcimento con la labilità dei confini dimensionali della sofferenza umana e, soprattutto, con la sostanziale impossibilità di dar luogo a equivalenze risarcitorie effettive, stante la – di per sé povera ed incongrua – valenza consolatoria di un denaro che mai potrà “comprare” il dolore (sulla «…incommensurabile distanza che esiste tra la sofferenza ed il risarcimento» – si veda anche Cass., 11 luglio 2014, n. 15909 in www.giornatanazionaledellaprevidenza.it , con nota di A. Anelli, Pirata della strada o medico negligente: per la Suprema Corte il risarcimento per i genitori non cambia).

Ciò posto, pare a chi scrive, che a fronte di tale consapevolezza, non sembra agevole operare distinzioni concettuali e categoriche: la drammatica opalescenza dei turbamenti dell'animo è sempre sullo sfondo, sia essa accompagnata, o meno, da ripercussioni nella vita di relazione.

D'altra parte valorizzare autonomamente proprio il “danno alla vita di relazione”, come se non avesse anch'esso identica matrice intima e sofferenziale, finisce per colorare quest'ultimo di quell'oggettività - davvero insidiosa – che, crediamo, le Sezioni Unite del 2008 (Cass., Sez. Un., 8 novembre 2008, nn. 26972-26973-26974-26975) avevano inteso, con forza, respingere.

Vorremmo spiegarci meglio, consci dei limiti che questa trattazione impone.

Il “non fare”, o il “non poter più fare” costituisce un danno non in quanto tale ma solo laddove dia luogo ad un moto avverso dell'animo, ad un dolore, ad una sofferenza intima indotta da quella rinunzia. Così, pensando ad un esempio, il non poter più continuare a svolgere un'attività sportiva di squadra che già da tempo si aveva in animo di smettere perché non più gradita (magari anche per motivi di incompatibilità caratteriale con i propri compagni) costituirebbe, sì, una modifica allo stile di vita ma non sembrerebbe dar luogo ad alcuna sofferenza, potendo, paradossalmente, esser vissuta come una liberazione. Il “non poter più fare”, in sé e per sé considerato, non ci pare possa o debba rilevare. E non meriti di essere utilmente distinto dal danno da “sofferenza interiore” di cui sembra costituire sotto insieme e parte integrante (v. Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2009, n. 3677).

Quel che si vuol qui rimarcare è come, al di là delle eleganti declinazioni di principio, la fenomenologia del dolore e della sofferenza si presenti, in concreto, difficilmente distinguibile in componenti e categorie davvero valorizzabili ai fini di una loro separata liquidazione (illimitata, per quanto atterrebbe al danno morale da lesioni di grave entità, e contenuta entro il tetto di personalizzazione per quel che invece riguarderebbe la vita di relazione).

E ciò a fortiori in un sistema “consequenzialista”, che non conosce la categoria del danno evento e in cui ogni danno alla persona pare poter rilevare se e in quanto si rifletta nell'intima percezione sofferenziale che dello stesso abbia il danneggiato.

Di ciò, peraltro, l'estensore della pronunzia in commento, ha piena contezza, nella parte in cui (alinea 2.3.) ritiene di dover precisare che «al di là e a prescindere dal formalismo delle categoria giuridiche, troppo spesso il mondo del diritto, intriso di inevitabili limiti sovrastrutturali che ne caratterizzano la stessa essenza, ha trascurato l'analisi fenomenologica del danno alla persona, che altro non è che indagine sulla fenomenologia della sofferenza». Su tale premessa di principio non si comprende poi perché, la sentenza, finisca proprio per categorizzare il disagio e la sofferenza, separandone la sua dimensione dinamico relazionale da quella morale, quasi che le due non avessero un fattor comune, intimo e soggettivo, ben difficilmente distinguibile.

Analoghe, e forse ancor più urgenti difficoltà di lettura e di classificazione si pongono anche rientrando al “centro” del problema: quello relativo alla descrizione di cosa debba intendersi per danno morale, quando lo stesso consegua e si accompagni ad una lesione fisica.

Per meglio dire: l'ontologica differenza tra danno morale e biologico - ormai pacificamente ammessa dalla giurisprudenza Costituzionale e di legittimità – come si traduce sul piano pratico, attese le coessenziali componenti psicofisiche, dinamico/relazionali e disfunzionali del secondo?

Danno morale e danno biologico: quale il rapporto di effettiva distinzione e correlazione?

Come da taluno acutamente sostenuto, non esisterebbe «un danno alla salute che non sia intrinsecamente psichico» (A. Bianchi, La complessità del danno psichico, in www.personaedanno.it). In questo senso ben si potrebbe pensare di assorbire all'interno della nozione di danno biologico ogni aspetto sofferenziale derivante dalla lesione, e finanche il dolore fisico. Secondo questa impostazione, è proprio la psiche - anche attraverso le reazioni dolorose - a far sì che una lesione fisica sia percepita come danno, e cioè come una “diminuzione” e fonte di sofferenza. D'altra parte la nuova definizione codicistica del danno biologico, nella sua veste sostanzialmente disfunzionale ed onnicomprensiva, sembra anch'essa ricomprendere al suo interno ogni pregiudizio di carattere morale/esistenziale derivante dalla lesione (della salute) patita dal danneggiato.

Si tratta dunque di comprendere se al verificarsi di determinate lesioni psicofisiche sia possibile individuare, in modo utile e concreto (ed al di là delle affermazioni di principio), un danno morale soggettivo ulteriore e distinto da quell'elemento esistenziale (e cioè dinamico relazionale) di cui il danno biologico già naturalmente si compone.

Entia non sunt multiplicanda, praeter necessitatem: questa la nota regola del “rasoio di Occam”, ben recepita dalle Sezioni Unite e tradotta nel principio della non duplicazione delle poste risarcibili.

E per non duplicare occorre, alternativamente

  • rinunziare alle categorie, e liquidare il danno alla salute in unica soluzione e in quanto tale, in tutte le sue declinazioni effettive, lasciando maggior margine di discrezionalità alla valutazione medico legale e consentendo alla stessa di diversamente modularsi ed adattarsi alle conseguenze sofferenziali del caso concreto;
  • operare in termini del tutto opposti, dando corso ad una – utile e prima ancora convincente - scomposizione del danno in categorie distinte, purchè tra loro ben enucleate e non sovrapponibili.

Operazione, tale ultima, che davvero risulta difficile ove si tratti di dover sezionare, discriminare e distinguere le (asseritamente diverse) sofferenze derivanti da una medesima lesione fisica.

Potrebbero qui entrare in linea di conto le sofferenze causate dal vero e proprio dolore fisico (e non dell'animo) patito dal danneggiato a seguito delle lesioni (o dei conseguenti interventi medico chirurgici). E in quest'ottica potrebbero pure esser presi in considerazione lo spavento subito dal soggetto leso e, forse, in casi particolarmente gravi, la paura di affrontare nuovi interventi o di porre a rischio la propria sopravvivenza (ma in quest'ultimo caso i confini, già labili, con le componenti dinamico relazionali si assottigliano ancora di più).

Su questo specifico punto, peraltro, si consideri quanto sostenuto in una ormai risalente pronunzia della Suprema Corte, secondo la quale «le sofferenze psichiche subite da un soggetto traumatizzato in un incidente stradale per gli interventi chirurgici ai quali questi ha dovuto sottoporsi in conseguenza del trauma sono indennizzabili, ex art. 2059 c.c., a titolo di danno morale, e come tali costituiscono una voce di danno risarcibile del tutto autonoma e diversa rispetto al danno biologico» (Cass., 10 febbraio 2003, n. 1937, in Giur. Cost, 2003, 283).

È l'angoscia, dunque, a poter forse esser valorizzata; quella stessa angoscia a cui la sentenza di cui ci occupiamo fa riferimento richiamando il disposto dell'art. 612-bisc.p. (nella parte in cui sottende un perdurante e grave stato di ansia o di paura, tale da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o da costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita).

Ma sul punto non possono tornare alla mente le chiare indicazioni rese dalle Sezioni Unite a proposito del danno “da lucida agonia”, interamente costruito sulla valorizzazione dell'angoscia provata dalla vittima nell'imminenza, consapevole, della propria morte. Nelle citate sentenze gemelle dell'11 novembre 2008, infatti, veniva chiaramente affermato il potere del giudice di «…riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. ….Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.». L'angoscia sarebbe, dunque, sì risarcibile, come danno morale, ma proprio perché, e in quanto, non possa configurarsi un danno biologico, che assorbirebbe al suo interno ogni altra componente sofferenziale a matrice psichica.

Più generalmente, le Sezioni Unite hanno chiaramente sostenuto che la sofferenza morale integra un pregiudizio non patrimoniale risarcibile soltanto «in sé considerata», non invece «come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale». E ancora, secondo la Corte, ove siano dedotte «degenerazioni patologiche della sofferenza …si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente». Il che rivelerebbe, in modo forse ancor più lineare, come morale e biologico condividano, in fondo, la medesima natura psichica, non essendo agevolmente sostenibile che la degenerazione patologica della sofferenza ne trasformi la natura intrinseca, sino a dar luogo ad un danno qualitativamente differente.

Quanto invece al dolore fisico – pur senza volersi in alcun modo confrontare su questioni di carattere squisitamente medico/legale, esorbitanti le competenze di chi scrive – paiono ipotizzabili casi in cui, applicando i baremes medico legali, all'accertamento di postumi permanenti di lieve o lievissima entità (ad esempio, una semplice ferita infetta) si accompagnino conseguenze dolorose di forte intensità; in altre ipotesi, invece, l'esistenza di postumi invalidanti di una certa importanza potrebbe non implicare analoghe sofferenze dolorose. Ciò a tacere del fatto che il dolore che accompagna le lesioni è normalmente transeunte, e quindi più agevolmente correlabile alla nozione di invalidità temporanea (o di danno biologico temporaneo psicosifico che a quella di postumo permanente).

In ogni caso, non sembra che l'attuale definizione di danno biologico soccorra alla bisogna, dal momento che la connotazione disfunzionale/esistenziale voluta dal legislatore non pare coprire l'area del dolore fisico.

Area che - così come già oggi avviene in Francia - potrebbe costituire terreno di coltura per un ulteriore e separato risarcimento del danno stricto sensu morale, in aggiunta al danno biologico (ancorché in via niente affatto automatica e previa dimostrazione del danno in concreto patito).

Non casualmente, peraltro, la Resolution 7-75 del 14 marzo 1975 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha separatamente considerato la «douleur phisique» quale posta di danno risarcibile (Resolution (75) 7 relative «à la réparation des dommages en cas de lésion corporelles et de décès»).

In conclusione

Merita un plauso il lavoro di faticosa risistemazione dello statuto del danno alla persona nella rc auto a cui la sentenza in commento mira, avendo in animo di ricondurre ad unità le indicazioni ricavate dalle più recenti esperienze normative, dalla giurisprudenza costituzionale e da quella di legittimità.

Sforzo meritevole, dunque, ma non del tutto appagante sul piano dei risultati.

Quel che conclusivamente sembra emergere è che:

  1. la sentenza in commento, recuperando le indicazioni della Consulta e del legislatore, ha conferito una certa chiarezza all'impianto strutturale del sistema risarcitorio del danno alla persona nella Rc auto;
  2. tale sistema, pur fermo nell'affermare la teorica separazione del danno biologico da quello morale, distingue nettamente i criteri liquidativi del danno da lieve entità (fondati su di un principio di onnicomprensività della regola di cui all'art. 139 Cod. Ass.) da quelli applicabili ai danni superiori al 9% (in relazione ai quali il giudice rimane libero di allargare le maglie dell'art. 138 Cod. Ass., andando oltre alle stesse e liquidando separatamente il danno morale);
  3. al netto di tali ricostruzioni di sistema, che possono darsi per assodate, la materiale individuazione delle diverse poste di danno in concreto valorizzabili (sia nell'ambito della liquidazione onnicomprensiva che in via separata) continua a non risultare agevole in concreto;
  4. la predicata distinzione tra il danno alla vita di relazione (dinamico relazionale) e la sofferenza intima (intesa come danno morale) non convince, in termini sostanziali, e riporta insidiosamente alla mente una nozione “oggettiva” di danno esistenziale che, ripudiata dalla Sezioni Unite del 2008, meriterebbe di essere invece ricondotta proprio entro i confini della sofferenza intima, soggettiva e, per ciò stessa, morale;
  5. anche l'individuazione del danno morale da lesione fisica, in aggiunta al danno biologico, risulta sfuggente, potendo esser facilmente confusa all'interno delle componenti intrinsecamente sofferenziali e psicofisiche di un danno alla salute che, da lungo tempo, ha perso qualsiasi connotato di “danno evento”.

Che sia il tempo – e la domanda può intendersi retorica – per una più chiara e definitiva presa di posizione, magari nell'ambito dell'attuazione dell'art. 138 Cod. Ass., “norma-miraggio” di cui tutti discutono senza mai aver avuto il bene di averla, davvero, vista vivere?

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